Qualche tempo fa ho letto sulla rivista Internazionale (18/24 ottobre 2013) un articolo di Jonathan Franzen, dedicato a Karl Kraus. Era un estratto, in verità, di un lavoro più ampio, The Kraus Project, di cui si possono facilmente consultare belle recensioni su molti autorevoli quotidiani (v., tra l’altro, sul New York Times o sul Guardian). L’Autore è Kraus stesso, riproposto in alcuni dei suoi pezzi migliori; Franzen è presente in qualità di glossatore-attualizzatore dei testi. Da pochi giorni ne ho acquistato l’edizione italiana, pubblicata da Einaudi. A pag. 227, in chiusura, Franzen riporta una famosa e discussa poesia di Kraus (Man fragtnicht – Non si chieda), testimonianza della paralisi quasi assoluta che aveva colpito il grande critico austriaco – di cui in tanti attendevano la reazione – di fronte alla drammatica ascesa del Nazismo:
Non si chieda cosa ho fatto in tutto questo tempo.
Resterei muto;
e non direi perché.
E c’è un silenzio da far esplodere la terra.
Neanche una parola che abbia colpito;
si parla solamente nel sonno.
E si sogna di un sole che rideva.
Svanisce;
il dopo non ha più importanza.
La parola si è spenta, quando quel tempo si è svegliato.
(Pubblicata in “Die Fackel”, n. 888, ottobre 1933)
Alla poesia segue, sempre per volontà di Franzen, una nota esplicativa di Daniel Kehlmann, tanto sintetica quanto puntuale. E tuttavia ho avvertito un moto di insoddisfazione, e mi sono quasi pentito di aver comprato questo volume. Mi sono subito ricordato, ad esempio, del fatto che, in Italia, per capire Kraus, ci possono essere ben altri e potenti strumenti per ogni più utile approfondimento (come può essere il libro di M. Cau, Politica e diritto. Karl Kraus e la crisi della civiltà). E che questa sorta di divulgazione-mediazione pop non è altro che un modo incosciente di perpetuare uno sfregio alla memoria di una delle figure più colte e complesse del suo tempo. Ma mi sono accorto, soprattutto, che nella nota di Kehlmann manca qualcosa: l’immediata spiegazione che della poesia aveva dato Bertolt Brecht, qui citato, invece, soltanto incidentalmente, come semplice estimatore di quel testo. Eppure, dopo la lettura di Man fragtnicht, Brecht aveva pubblicato a sua volta, a stretto giro, un altro famoso componimento, di per sé risolutivo, consegnando alla letteratura continentale un dialogo a distanza ancora illuminante e, quindi, imperdibile:
Una volta che il Terzo Reich fu fondato
Dal critico venne solo un breve messaggio.
In una poesia di dieci righe
Si levò la sua voce unicamente per denunciare
Che essa non era sufficiente.
Una volta che l’orrore ha raggiunto una certa dimensione
Non c’è esempio che tenga.
I crimini si moltiplicano
E le grida di dolore cessano.
I delitti vengono spudoratamente commessi sulle strade
E se ne fregano altamente della descrizione.
A colui che viene impiccato
La parola rimane in gola.
Si diffonde il silenzio e da lontano
Esso viene scambiato per giustificazione.
La vittoria della violenza
Sembra completa.
Solo i corpi mutilati
Denunciano che i criminali hanno infierito.
Solo nelle abitazioni rese deserte è ancora il silenzio
A denunciare i crimini.
È la lotta dunque terminata?
Possono essere dimenticati i crimini?
Possono i trucidati essere sepolti e i testimoni imbavagliati?
Può trionfare l’ingiustizia, nonostante sia ingiustizia?
I crimini possono essere dimenticati.
I trucidati sepolti e i testimoni imbavagliati.
L’ingiustizia può trionfare, nonostante sia ingiustizia.
L’oppressione si mette a tavola e agguanta il pasto
Con mani insanguinate.
Ma coloro che portano il pasto
Non dimenticano il peso del pane; e la loro fame fa buchi ancora
Quando la parola fame viene vietata.
Chi ha parlato di fame viene steso.
Chi ha gridato contro l’oppressione giace imbavagliato.
Ma coloro che devono pagare i tributi non dimenticano lo strozzino.
Ma gli oppressi non dimenticano il piede che sta loro sulla nuca.
Prima che la violenza abbia raggiunto il suo massimo grado
Ricomincia la resistenza.
Quando il critico si è scusato
Perché la sua voce non ce la faceva
Fu il silenzio a proporsi davanti al tavolo del giudice
Levò il velo dalla faccia e
Si fece riconoscere come testimone.
(“Sul significato della poesia di dieci righe pubblicata sul numero 888 della Fackel, ottobre 1933”, aprile 1934)