Cronache americane /2 – I

di in: Paesologia

I PARTE

Per la notte di Halloween ti sei messo addosso una palandrana dei periodi confusi della tua giovinezza in cui ti sentivi misterioso e collegato al tempo stesso. Ti impallidivi la faccia e ti vestivi solo di nero. Il cappotto è strano, fuori ogni moda ma l’hai conservato con la scusa che è molto lungo e molto caldo. Te lo sei indossato con un brivido di oscuro piacere insieme a un cappello da strega e hai portato i ragazzi più piccoli a fare la questua di caramelle.

Su e giù nel buio, per le strade del suburbio residenziale, fra le villette che per l’occasione erano tutte addobbate di lucine inquietanti, zucche svuotate che fiammeggiavano contro il nero i loro ghigni sbilenchi, ragnatele che penzolavano da portici e rami d’albero, fantasmi appesi a invisibili chiodi che aleggiavano intorno. C’era anche la musica, in alcuni giardini, che si alzava dall’ombra ad aumentare il senso di pericolo e di mistero. E suoni di scricchiolii, versi dall’oltretomba, ululati sinistri.Qualche vicino di casa si è preso addirittura la briga di allestire una specie di set cinematografico e ha spalancato il proprio pratino all’inglese all’inquietante presenza di bare scoperchiate e scheletri ciondolanti dai rami. Illuminati da opportuni faretti.

Una coppia giovane si è travestita da pirata e ha preparato un vero e proprio buffet, fuori dalla casetta. I bambini si precipitano sugli hamburger generosamente offerti, tu sul vino ancora più provvidenzialmente messo a disposizione. E mentre bevi li guardi. Lì, sorridendo, gentilissimi, hanno anche travestito il cane, da pirata, con una banda per l’occhio e una mantellina sghemba. Pensi a quali sfrenate fantasie potranno abbandonarsi i loro eccessi quando avranno dei bambini…

Poi prosegui e fai cenni di saluto ad altri genitori che, di tanto in tanto, incroci per la via. Mentre i loro bambini, insieme ai tuoi, saltellano sui gradini di una casa per correre a minacciare scherzi.

Torni a casa con le tasche piene di cioccolatini e caramelle e la sensazione che è stata una bella festa, per i ragazzi. Un saltellare di colpo dentro le proprietà private tanto impenetrabili, e vestiti da buffoni, voi e loro. Un gusto forte e intenso di libertà, di caduta dell’uso e del consentito, di apertura del proprio più intimo mondo agli altri.

Forse per questo alcuni ci tengono così tanto a trasformare la propria casa e il loro giardino… per renderla qualcosa di completamente diverso dal luogo privato e chiuso, intoccabile, nel quale vivono quotidianamente. Per rendere tollerabile l’intrusione. Non è casa mia che state penetrando, è un castello stregato…

Ripensi a chi ti parlava della bellezza del carnevale italiano, rispetto alla mascherata lugubre di Halloween. E’ vero, qui manca la solarità di uscire in pieno giorno, travestiti, a schiamazzare e fare versacci. Non c’è la scelta di tante personalità diverse, solo di notte, solo con l’oltretomba o con soggetti spaventosi si può giocare.

Ma se il carnevale significa abbattere le barriere del vivere civile e concedersi incursioni nel proibito allora ti sembra che Halloween sia a pieno titolo un carnevale, e dei più riusciti.

Fra le prime punture di freddo e le giornate più corte, l’aria tersa su per il naso e la mente che si intorpidisce dietro desideri di tane e pace, fuoco e momenti facili. Il buio si distende sempre più a lungo e culla notti ghiacce e voglie di sentimenti morbidi in cui ficcarsi tutti per intero.

In queste giornate cominciano a sortire nuove decorazioni su per i vialetti, dietro le finestre, appese alle porte. Qualcuno non ha ancora levato le zucche e già espone grossi tacchini gonfiabili sulla veranda all’entrata. Sembrano i pupazzoni di qualche concerto rock che ondeggiano nel vento. Ma così privi di senso da risultare ancora più sgomenti. Ogni pubblicità, ogni messaggio alla radio ti ricorda che tra un po’ ti riunirai con i tuoi cari, e sarà fantastico pensare a tutte le cose belle e buone che avete, e ringraziare per questo.

Pare che venga dai primi coloni, questa festa. Dopo un anno di stenti e durezze, nel nuovo mondo, avevano avuto un raccolto favoloso. E, da buoni credenti che erano, si erano raccolti intorno a un tavolo per ringraziare il signore di tutto quel ben d’Iddio. E, da buoni protestanti che erano, si erano parecchio ripresi dagli spaventi e avevano pensato che insomma, sì, ce l’avevano proprio fatta e che allora Dio doveva essere dalla loro parte e averli davvero aiutati. E poi, siccome Dio li aveva aiutati ma le sementi e i tacchini selvatici glieli avevano regalati gli Algonquini, avevano ringraziato anche gli indiani.

Un momento unico, ancora puro, da inizio, in cui genti così diverse e dure hanno potuto condividere pietà e riconoscenza.

Non ti dispiace questa cosa. Di fermarsi a pensare alle cose buone. Di guardare qualcosa e qualcuno, ogni cosa che puoi trovare intorno a te o dentro, nei rimasugli di fuochi che scoppiettano sommessi qua e là. Scintille di gioia. Pagliuzze di stupore.

Ceneri calde di ricordi…

Allora, per commemorare meglio questo momento che ti piace, hai invitato una coppia nuova. Arrivati da poco, ritrovi in loro le stesse incertezze, gli stessi sgomenti e soddisfazioni simili ai tuoi. Figli piccoli, sorrisi stanchi, occhi in cerca di qualcosa.

Poi, davanti a un tacchino che era il più piccolo che avevi trovato ma che era troppo grande per stare in frigo e aveva troneggiato sul tavolo del giardino in attesa del sacrificio. Davanti al rosso entusiasmo del vino e le meraviglie del vocio dei bimbi vi siete guardati a lungo e nello specchio. Avete parlato di questo e di quello mentre una leggerezza tenera si apriva e stendeva, cingeva i commensali, li stringeva gli uni verso gli altri.

Il marito a un certo punto si è fermato, ha pensato un attimo e ha proposto di fare questo, fermarsi e pensare un attimo. Alle cose buone che avevate in quel momento e nella vostra vita. E tu eri contento che lo avesse fatto, perché ti sarebbe piaciuto anche a te ma ti sentivi troppo timido. Poi, siccome non siete buoni credenti protestanti, avete ringraziato a modo vostro, con un calice alzato e sorridendo alla vita.

Intorno le famiglie si riunivano e salutavano. Dopo viaggi lunghi interi Stati, dopo accordi intensi sugli orari e i percorsi. Scambi e ricette, abbracci, doni, festeggiamenti.

Nel quartiere un piccolo via vai di macchine e di luci accese, anziani con pacchi regalo, giovani con bambini saltellanti per mano. Tutto dentro e fuori dalle porte questo riceversi e allargar braccia, accogliere la celebrazione.

Il buio è lungo, intanto. Tanto lungo su questi giorni freddi e tersi. Di neve bianca che piove giù, a tratti. Sbianchettando qua e là di spolverate rade i tetti e i giardinetti, le strade senza m arci apiedi, i tronchi spogli e gli spruzzi verdi dei cespugli.

Gela la notte e al mattino luccica e sogghigna pericolosa, la neve gelata, sui gradini, sulle curve, sulle salite e discese lievi della città. Poca cosa, questa neve. Stretta e lunga sopra i bordi, come le striature di luce su una foto sovraesposta.

 

Ma ha tempo di ghiacciare bene bene, nei bui lunghi di questa parte dell’anno. In cui il buio è così spesso e totale che sembra aver vinto. Sulle strade, sulle case, sui viali e sui parchi. In questi ampi laghi di nero che galleggiano sulla città nuotano i pochi punti luminosi delle finestre, dei lampioni fiochi e stortignaccoli, sui loro pali di legno stancati dagli anni e dal vento.

Il buio si allunga dappertutto e quasi ci riesce, a farti sentire piccolo e sparuto, desideroso di una coperta, un angolo caldo o di una mamma. Una fonte di benessere nel freddo nero che bagna la città. Anche nel centro, fra viali grandi grandissimi e parchi immensi e quartieri poco abitati. Anche nel centro il buio dilaga e prevale, affonda i palazzi e inghiotte la fine delle strade. Nasconde le prospettive. E sempre tutto ti sbuca vicino, improvviso.

In qualche modo fa sentire la grandezza, il buio. Fa sentire come l’uomo ancora oggi non ce la fa. A prevalere su tutto. Ci sono spazi sulla terra così ampi e costi di materia così alti. Nemmeno nella capitale dell’impero ci si fa, a illuminare a giorno.

Mi ritorna in mente il Senegal. Quel volo nel buio della notte e le luci sparute, sparutissime, che punteggiavano qua e là dove doveva esserci il mare. Lucine di qualche peschereccio sperduto fra le onde. E poi lucine flebili e allineate in piccoli tratti di strade brevi, ogni tanto. Sempre più frequenti, sempre più lunghe. E poi eccole, le luci di Dakar, nel buio intenso della notte africana. Le luci della città più grande ancora non riuscivano a sgominarlo, quel buio largo, spesso e vincitore. Erano distese laggiù, in linee lunghe e precise, brillanti di lampioni che li contavi uno ad uno, via via che ti avvicinavi. Non c’era bagliore, non c’era la luminescenza che in Europa sale e sale su, a sconfiggere le notte e si proietta contro il cielo e contro le stelle ad umiliare il buio.

Qui a Washington mi viene in mente l’Africa, in queste giornate di buio lungo invernale. E mi viene in mente che qui l’immensità degli spazi coperti può quello che lì poteva la pochezza dei mezzi. La natura ancora incombe e si fa sentire, non è per niente sbiadita dalla potenza umana.

Poi mi viene in mente quando gli spazi dell’America erano immensi come adesso e assolutamente intonsi. Selvaggi e sconosciuti spazi immensi. Bui, d’inverno, di un buio che quelli che c’erano arrivati non avevano mai visto prima. Nessuna luce da nessuna parte, sul mare immenso davanti e sui boschi immensi alle spalle.

Dovevano avere davvero una forza e una fiducia difficili da concepire per preferire quel buio grande e totale ai problemi e alle luci che si erano lasciati indietro…

Un pensiero che fa accatastare in fretta cioppi secchi nel camino e soffiare rapidi sulle fiamme per avviare il fuoco.

Per Natale ti eri promesso di rientrare, ancora prima di partire. Quindi prendi l’aereo in mezzo alle turbolenze e i geli della parte nord del mondo. Gli aeroporti che impazziscono, i viaggiatori esausti, i parenti che ti aspettano recitando novene per la tua incolumità. Tu viaggi nei piccoli sedili stretti come quelli di un autobus, in un viaggio senza fermate lungo otto ore. E poi rientri nel tuo cielo, nel tuo aeroporto, nel tuo paese. Già le facce degli impiegati te lo dicono. Quelli che spazzano i pavimenti, quelli alle casse del bar dove alle sette del mattino prendi il primo pasto con il gusto che si incasella da solo nelle memorie neuronali e gustative, e ti sembra di colpo tutto a posto, normale e facile.

Al confortevole centro di una commedia dell’arte. Non da spettatore, ma proprio nel mezzo, sul palco, a osservare le maschere che si muovono e che ti parlano, che girano e volteggiano, ridono e scherzano con te, su di te, fra loro…

Così ti senti, alla vigilia, a un convivio fra parenti. In una rassicurante commedia dove si conoscono già i personaggi uno per uno e non ci si aspetta altro se non di ritrovarli così come da sempre impressi nelle nostre abitudini. Si segue e si ride, ci si commuove e ci si immedesima nelle vicende che sono sempre quelle, capriole di gusti, baraonde di tic, saltelli di paure e riverenze di ricordi. E noi a nostro agio ci inchiniamo e saltelliamo, temiamo, ridiamo e aspettiamo. La prossima battuta, la prossima espressione. In questo gioco affettuoso senza stupore, senza sorprese. Sappiamo già tutti dove chiamare, che sguardi scambiare. Sappiamo le battute che hanno preceduto quel momento, quasi intuiamo quelle che verranno. E anche i vecchi canovacci di azioni, una lunga fila di panni noti e stranoti che sventola dietro chi ci parla. E ci porgiamo le battute, ci tiriamo a vicenda per fili invisibili, da una parte all’altra del nostro spirito, ci manipoliamo l’umore con sicurezza, sapendo bene quale effetto faranno i nostri discorsi, quale effetto faranno quelli degli altri. E volteggiamo in una specie di euforia e continuiamo a stringere e abbracciare… “ci sei anche tu?”, che bello ritrovarsi… “e finalmente non per un funerale!”.

Qualcuno storce la bocca, qualcuno fa gli scongiuri. Ma tu ridi e stringi e abbracci perché ti senti proprio al centro di dove volevi stare. In questa girandola di maschere conosciute che ti festeggia e ti sorride, fa battute, si commuove.

Poi ti guardi intorno e vedi i tuoi occhi, il tuo sorriso, un modo di muovere le spalle e una piega nel passo. Proprio come i tuoi… riflessi qua e là, a brandelli, un’esplosione sparsa di storia genetica e di abitudini comuni. Da lontano… da lontanissimo veniamo tutti, in questo guazzabuglio che è la nostra natura. Quanti secoli e avi, incontri e fortuite combinazioni ci hanno portati tutti qui. A mescol arci e mostrare i nostri prodotti. Nuovi figli che hanno anche loro l’orecchio di quello, la parlantina di quell’altro, una sfumatura di pelle del cugino… “ma no, uguale uguale al bisnonno!” e via così.

Ci guardiamo e valutiamo in silenzio, col sorriso sulle labbra. Gli anni passati, i ricordi comuni e quelli che ci hanno distanziato. Quante cose, quante battute mi sono perso di quella persona… e quante si è persa lei di me! Eravamo fratelli, guitti sullo stesso carrozzone e adesso non ci frequentiamo quasi più. Ma nel quasi c’è tutto un mondo di passato e di legami e anche nel sorriso quasi estraneo c’è un mondo di fiaccole e di percorsi insieme.

Così tutti, guardando e sorridendo, ci confrontiamo alle vecchie immagini, contiamo i vuoti di chi non c’è più e ci scrolliamo di dosso il brivido del tempo che passa. Una nuova battuta, un nuovo brindisi. E questa compatta compagnia di parenti continua ad avanzare intrepida di ingaggio in ingaggio, via sulla china del viaggio stringendosi le mani per farsi coraggio e battendosi sulle spalle per sentirsi e per sentire che siamo ancora in tournée.

Poi, sulla via del ritorno, confronti questo incontro e quello con dei vecchi amici, tanto simile. Li confronti ai festeggiamenti che hai già fatto, in America.

Allora questo, e il carnevale di Halloween e il giorno del ringraziamento, ti hanno fatto pensare che in fondo sempre dello stesso si tratta. In tanti modi diversi e con tante maschere di significati e usi e derivazioni lontane. Ma alla fine poi c’è questo bisogno sempre di stringersi e fare festa. Insieme, prendersi la mano e andare avanti e fare sentire che ci siamo e vedere che ci sono gli altri e che tutto intorno rotola via e non si ferma ad aspettare ma noi ci teniamo per mano e sorridiamo e andiamo avanti…

Mi è sempre piaciuto vedere gente. Bere vino e far casino diceva quello. E questo partecipare rituale o meno a te come a lui vi continua a sembrare uno dei momenti più riusciti di tutta la commedia.

In Senegal il rito c’era spesso. Feste codici e tradizioni. Ma anche no. La notte c’erano sempre fuochi sulla spiaggia e rumore di tamburi, giovani che si scatenavano saltando in aria le gambe intorno alle fiamme. Così. Insieme. E nei villaggi, fra le steppe rossastre di sabbia fina e gli alberi sparuti a far da ombrelli spogli contro il sole. Intorno a una canzone, a un lavoro, a un incontro. Spesso c’erano i passi di danza, e il corpo che dondolava insieme a altri corpi e le risate di questo muoversi insieme. Ogni momento poteva essere buono. Ogni persona poteva partecipare.

I bambini che chiedevano l’elemosina per conto del Marabout. Con canottiere da uomo slabbrate e rosse di polvere addosso e lunghe scie di lacrime sulla polvere bianca del viso. Loro andavano dietro al bianco strano e estraneo e canticchiavano le loro prese di giro, poi tendevano la mano e raccattavano le briciole. Si allontanavano e insieme, nel camminare, cominciavano a danzare e ridere e stringersi per festeggiare il fatto di essere vivi e di essere insieme.

Qui a Bethesda, negli Stati Uniti, intanto, in queste giornate di buio lungo e freddo gelato qua e là, il quotidiano prende l’abbrivio e parte, poi prende e tiene il passo, stabile e regolare. La scuola affetta le giornate con i suoi impegni scadenzati, il lavoro si stabilizza sui suoi ritmi gravosi. Tutto in regola e conosciuto.

Adesso anche il giardino dorme. L’ultima volta che hai provato ad affond arci la zappa si è piegato il metallo e le braccia hanno vibrato dolorosamente per il contraccolpo. Perché il terreno è gelato prima ancora delle prime nevi

ed è inutile poter pensare di f arci qualcosa.

Allora cominci a prenderti il tempo di guardare e osservare. Perché fin ora le cose ti son venute incontro e le hai sentite arrivare all’improvviso, con stupore, dolore o piacere, ma sempre come un’ondata improvvisa che arriva, copre e si ritira. Invece adesso tutto intorno a te sta lì disteso e calmo, a lasciarsi guardare e osservare e tu ti prendi il tempo di farlo. Di guardarlo ed osservarlo. E ti metti a riflettere proprio su questo. Che cosa questo paese si prende il tempo di fare e cosa no.

Per prima cosa il modo di salutare la gente della gente. Qui tutti ma proprio tutti si prendono il tempo di salutarsi. Quando si incontrano fra vicini, quando si incrociano fra sconosciuti, quando il postino porta il pacco, quando l’istruttore arriva in palestra, il poliziotto chiede di aprire le borse nei musei, il cassiere inizia a battere il conto.

Però si prendono solo il tempo di chiedere come va, di sorridere, magari, e risparmiano convenevoli e manfrine, studi, occhiate sbilenche. Stabiliscono il contatto e via. Ti hanno salutato, ti hanno messo a tuo agio. Ed è finita lì. Se è il caso ci si parla e ci si conosce meglio, o altrimenti si paga, si prende, si saluta e si riparte.

Senza perdere tempo, dopo essersi concessi il tempo del saluto.

Dicono che questo modo franco e spiccio di approcciarsi viene da quei tempi lontani in cui i pellegrini arrivavano qui nella natura immensa e incontaminata.Arrivavano pieni di coraggio e di fiducia e sprofondavano negli spazi e nei lunghi bui dell’inverno. A piccoli gruppi, a volte da soli. I contatti umani rari e preziosi.

Una donna con i suoi abiti lunghi e spessi, la cuffia e lo scialle stretto intorno al viso.

Il marito dagli abiti spessi e scuri, le basette lunghe, il cappello a larghe tese.

Sballonzolano sulle sconnessure di una strada appena appena tracciata, fra i rigogli di un bosco cupo. Avanzano lenti e infreddoliti, con le mani piene di calli e preoccupazioni strette sul legno e sulle redini. Fino ad arrivare a una casetta di assi e tronchi, con un carro come il loro poco lontano, e un piccolo recinto di animali sul retro. Dal comignolo esce un filo di fumo e tutti e due pensano che sono arrivati dai loro nuovi vicini, che ci hanno messo solo una mattinata e che tra poco saranno al caldo e al sicuro.

Nella casa di assi e legno una donna con le vesti spesse sta attizzando il fuoco nel camino. Ha le mani ruvide e preoccupate intorno ai pochi oggetti che possiede. Li prende e li manovra con forza, la pignatta e l’attizzatoio, il ventaglio per spruzzare aria sul fuoco, la culla dove il neonato strilla, lì vicino. Poi sente un carro che arriva e il cuore le sussulta. Non è il marito, che è andato a tagliare la legna un’ora fa e riempie ancora l’aria di colpi secchi e decisi che schiantano i cioppi a metà e poi ancora e ancora. No, deve essere qualcun altro… la donna posa l’attizzatoio e rassetta il grembiale, afferra uno scialle e lo stringe forte intorno alla testa. Fuori, il marito ha smesso i colpi secchi al legno, i suoi passi vanno verso la strada. E la donna si affretta, afferra la maniglia della porta e si precipita a vedere chi sta arrivando. Sono mesi che non vede nessuno…

Quando si vedono, le due donne e i due uomini, si salutano con la mano, e si sorridono anche quando è ancora troppo lontano per vedere le facce. E appena sono a portata di voce si fanno dei richiami e appena si raggiungono stringono le mani, gli avambracci, e subito si avviano alla casa, prima ancora di essersi guardati bene in faccia. E si apre la porta della stanza tiepida, ci si avvicina al fuoco, i nuovi arrivati porgono un cesto, hanno portato delle cose da mangiare…

E così di anno in anno, inverno dopo inverno, una generazione via l’altra, un susseguirsi di case isolate, carri, saluti, arrivi. Ti pare di vederla, questa lunghissima scia di incontri e accoglienza, di labbra aperte in sorrisi e mani che si alzano, richiami, strette, contatti. Giù e giù in un legame di sangue e di storia, discendenza dopo anno e dopo luogo e dopo incontro e dopo un altro pronipote e un figlio e ancora un erede si arriva ai giorni nostri, all’americano medio di oggi che alza il mento in direzione del vicino di casa mentre esce di casa, e entrando in macchina grida “take care” al postino e al lavoro entra salutando con un sorriso tutti, si siede al telefono e inizia la giornata con un “buongiorno” al primo contatto sul web.

Ti vuoi divertire a immaginartelo in Italia, questo americano medio dei giorni nostri.

Te lo vedi che l’azienda l’ha spedito per un periodo a lavorare a Roma. O Firenze. O Milano. O dove gli pare all’azienda. E allora questo americano se ne arriva nel condominio dove l’azienda gli ha affittato un appartamento e mentre sale le scale, perché l’azienda gli ha scelto una palazzina carina e vicina al lavoro in pieno centro storico dove le case sono alte strette e senza ascensore, l’americano medio dei giorni nostri pensa che è stato un po’ sfortunato, finora. All’aeroporto il personale era un po’ scocciato, forse erano appena usciti da un periodo di rivendicazioni sindacali andate storte. E poi il tassista che l’aveva portato fin lì, doveva essere a fine turno… Il vigile urbano stressato dal traffico. Il passante che urtava le spalle degli altri senza voltarsi aveva sicuramente una grave incombenza. L’edicolante a cui ha comprato una guida, scocciato dall’ennesimo straniero che chiede l’ennesima guida…

Sono stato un po’ sfortunato, pensa l’americano e sale le scale con la valigia pesante e pesanti presagi che lo turbano e che lui scaccia come farebbe con un pipistrello che gli si accanisce a pochi centimetri dalla testa. L’americano medio immigrato da noi arriva al pianerottolo e cerca la chiave giusta, nel mazzo simile a quello di San Giuseppe che l’agenzia gli ha consegnato. Cerca e prova, sferraglia e infine trova la chiave appropriata alla serratura e mentre sta per girarla per la prima volta e entrare in quella che sarà casa sua nei prossimi chissà quanti anni ecco che la porta dall’altro lato del pianerottolo si apre e ne esce una signora minuta, anziana, con le spalle un po’ ricurve e una borsetta stretta in mano. L’americano gli si fa subito incontro, con il sorriso e tutti i numerosi denti bianchi in bella mostra.

La signora anziana ha un piccolo sussulto e stringe la borsa a sé. Ha anche un leggero lamento di sorpresa fra le labbra che però reprime subito e intanto aguzza gli occhi sulle chiavi in mano all’americano e la porta aperta della casa di fronte. No, non è un ladro. Poi la vecchietta fissa il grande uomo sorridente davanti a lei e lo scruta intensamente, lo fissa e valuta, calcola in pochi istanti tutta una serie di fattori che fin dalla più tenera infanzia, da generazioni e generazioni, da sempre nella storia della sua famiglia indietro nei secoli attraverso la guerra e l’anteguerra di tutte e due le guerre e il fascismo, l’unità d’Italia, i domini stranieri e il medioevo, giù fino all’impero e prima, quando erano ancora divisi fra piccoli villaggi di caprai. Fin dalla notte dei tempi, quando ancora stavano nelle grotte e si nutrivano di bacche, i suoi italici antenati le hanno insegnato che bisogna valutare varie cose, prima di lasciarsi avvicinare da qualcuno: è più forte di te, è più furbo, viene da una famiglia potente, viene da una famiglia opposta alla tua, viene da un paese ostile, viene da una cultura estranea, viene armato, viene infingardo, viene pericoloso? E poi: cosa può volere da te? Un’ info rmazione, un piacere, un prestito, un esposto, una dichiarazione d’intenti, una fede politica, un’abiura religiosa, un pensiero sconveniente, un sostegno morale?

E lo lascia lì un bel po’, l’anziana signora curva, mentre stringe le nocche ossute sulla borsetta, lo lascia lì con il sorriso sempre meno aperto e i denti sempre meno brillanti.

Finché l’americano sente il dovere di spiegarsi, che vede che non basta sorridere e farsi avanti per essere contraccambiati da queste parti. Lui allora si avvicina ancora, porge la mano e spiega: sono il nuovo vicino di casa, sono americano, sono qui per lavoro e resterò per qualche anno.

Allora la vecchina calcola di nuovo ma più velocemente, con più serenità e incasella, guarda da varie prospettive e infine sorride e porge la mano. “Piacere”, dice, e poi afferra il dirimpettaio con lo sguardo, stretto fra le palpebre rugose e sorridendo finalmente anche lei con la dentiera giallina e incerta prende un sospiro, stringe ancora un po’ le nocche sulla mano dell’americano e comincia.

Dall’America, eh? Che bello, che bello, e da dove? Un suo cugino vive a Chicago, forse lo conosce? C’è anche un altro parente dalle parti di Detroit ma non si ricorda più esattamente che grado di parentela aveva… era da parte di suo marito, buonanima, che durante la guerra lo zio se n’era andato in Brasile e poi da lì alcuni dei suoi fratelli avevano lasciato per l’America e lui invece era rimasto e avevano aperto un commercio. Non era andato bene però e allora… ma mi scusi, lei ha fretta?

E io la tengo qui a chiacchierare… e sa, con l’età si diventa così, chiacchieroni… del resto non ci rimane altro, a una certa età, solo le chiacchiere, eh eh eh… ma non è ancora entrato? Prego, prego, vada… spero si trovi bene, però. L’agenzia ha cambiato quelli delle pulizie e ultimamente si sono lamentati tutti, che non era molto pulito… però se vuole gliela trovo io una brava ragazza per aiutarla in casa… ci sono queste giovani dell’est, in parrocchia, e sono tanto brave e sfortunate, non trovano lavoro e allora fanno le pulizie e sono ragazze tanto care… ma mi scusi, io la trattengo ancora… però se ha bisogno di qualcosa me lo dica, che io sto proprio qui di fronte e non vedo mai nessuno, solo mio nipote mi viene a trovare ogni tanto e già sono fortunata perché le mie anche non le vanno mai a trovare, i nipoti…

E via così finché l’americano trova il modo di rinculare senza farsi notare e sorridendo sfilare la mano ancora stretta fra le nocche della vecchina. Dicendo di sì con la testa e ringraziando qua e là, arretra ancora e senza parere si infila nella porta, spinge i bagagli dentro con un piede e intanto sorride, ringrazia, chiude l’anta e respira. Da dietro la porta la vecchina gli grida ancora un “mi stia bene” e, continuando a commentare fra sé l’incontro con quel giovanottone di americano, speriamo sia una persona per bene, l’ultima volta c’era quello che rientrava sempre tardi e faceva un rumore… la vecchina con la sua scia di parole e passetti si allontana sulle scale, uno scalino alla volta.

Nell’America dell’americano medio, intanto, qualcuno si prende il lusso di far caso a tutte le cose che da queste parti ci si prende il tempo di fare.

Il tempo di sbagliare conto, di riempire i sacchetti della spesa, di lasciar passare i pedoni, di attraversare la strada, di verificare la tua identità, di rifare il conto, di inserire i dati sbagliati nel computer, di cambiare posto ai prodotti della spesa nei sacchetti, di verificare il parchimetro, di darti la precedenza, di ricominciare la procedura telematica da capo, di scusarsi, di sorridere e scusarsi, di cederti l’ultimo parcheggio, di guardare i bambini non tuoi che escono da scuola, di fare i complimenti agli occhiali di un passante, di spiegare al figlio perché non deve mentire al maestro, perché non deve sentirsi in collera se un altro fa meglio di lui, perché bisogna dividere i giocattoli fra amici, perché lui si sente frustrato dal non poter avere quel giocattolo adesso invece che al prossimo Natale. Lì dove da noi parte la mediterranea sgridata, qui ci si prende il tempo di chinarsi e parlare. Magari bruschi e autoritari, ma si parla. E tu ripensi a quante volte hai sbuffato e trascinato via, sbuffato e tirato una sberla, sbuffato e gridato che bastava così.

E poi, soprattutto, qui in questa parte di America si trova il tempo di correre e correre e correre e ancora correre a ogni ora del giorno, in ogni giorno dell’anno. Di tenersi in forma, a passetti isolati, saltelli vigorosi, falcate, pesticcii, zampettate, passi lunghi.

Ognuno con il ritmo e l’età che gli aggrada, in tuta smagliante o così come stava a casa. Si tiene in forma il vecchietto con i capelli bianchi e i ricordi che gli camminano davanti mentre procede sul sentiero del parco. La signora con i capelli di parrucchiere e il cane con la mantellina. La ragazza con le cuffie e rivoli di sudore. Il ragazzo con la fascia sulla testa e il corpo che fuma nel freddo.

Io ho sempre male da qualche parte o un inizio di raffreddore, i postumi del raffreddore, un trauma alle articolazioni che si ripresenta, una giornata storta, una cosa da fare, una persona da vedere, i brividi di freddo, l’umido nelle ossa, il vento sui denti, la luna calante. E li guardo ammirata come fossero tutti di un’altra tempra, forse alieni di una galassia lontana scesi qui in terra a miracol mostrare. Di come si possa vivere prendendosi anche il tempo di tenersi in forma.

Poi, così in generale, mi sembra di poter dire che qui ci si prende il tempo per fare le cose. Senza smanie, senza sensi di colpa e ansie. I gesti che ci vogliono, che diamine.

Nessuno sbuffa di quello che si sta prendendo il tempo di fare una cosa. Tutti si prendono il tempo di rispettarlo. E a volte mi vengono a me le ansie e i sensi di colpa e le smanie, tutto insieme. Non hanno altro da fare, non hanno un posto dove correre, un’urgenza urgente, un’impellenza, un senso di avere loro qualcosa di meglio e di più importante da fare di quello che fa quello che si sta prendendo il tempo di farlo? Mi dico. Poi mi dico che forse sono io con l’asse sbagliato dentro. Giro vorticosamente e voglio spazzare tutto quello che mi sta intorno. Sbaragliare gli ostacoli sul mio cammino. Fare presto, fare bene, il tempo è denaro, chi dorme non piglia pesci, chi primo arriva meglio alloggia e mors tua vita mea.

Forse ho vissuto troppo a lungo in posti dove attraversare la strada era un lusso in cui poter rischiare la vita. E ancora mi affretto, sulle strisce, per non spazientire quello che si è fermato. Mentre intorno a me gli altri si prendono il tempo di attraversare e quelli in macchina il tempo di farli passare.

Io termino la mia corsetta, metto il piede in salvo sul m arci apiede e mi volto a guardare. Gli altri che camminano infagottati nei giacconi, con gli occhi bassi e il tempo dalla loro. Mi volto e guardo e penso a quanto tempo spreco io, a far le cose di corsa.

Che poi, quando stavo nei paesi in cui il sistema capitalistico non ha ancora macinato triturato e risputato proprio tutto ma ha lasciato brandelli di civiltà e economie diverse dalla nostra, quando ero in quei paesi mi ero stolidamente trovata a fare delle graduatorie di efficienza fra culture con il metro della velocità. Quanto tempo ci metteva un documento a essere pronto, un servizio a essere allacciato, una corrispondenza ad arrivare a destinazione, un sacchetto a essere riempito al supermercato, un conto a essere battuto alla cassa.

Le donne del villaggio africano camminano lente, posando lo sguardo sulle cose, lasciandolo vagare, con il bambino legato dietro la schiena e il peso di un secchio d’acqua sulla testa. Camminano dritte e lente e non sembrano avere nessuna preoccupazione, nessun futuro gravoso che le attende.

E a te che le guardi si instilla questo stupore, di come si può vivere camminando lenti, prendendosi il tempo di guardare le cose, senza preoccuparsi di cosa c’è in serbo per noi. Andando, andando avanti. Che è poi l’unica cosa che possiamo fare, da ogni parte del mondo, solo che c’è dove lo fanno in fretta, assatanandosi dietro mete e obiettivi e ricerche di perché. E dove lo fanno lentamente, posando lo sguardo sulle cose e affidandosi ai passi, uno dietro l’altro.

E chiunque guarda le donne di un villaggio con i loro sguardi lenti e i loro passi disposti ad accettare le cose si chiede perché noi non siamo più così. Lo eravamo, sicuro, nei tempi dove le donne portavano i cesti sulla testa e cantavano mentre scendevano al fiume. Quando c’erano villaggi e campi, zappe, carri e cavalli, e non c’erano gli orologi.

E allora? Perché scambiare questo con quello? Perché torturare le nostre anime, stancarle di ribellioni impossibili, di illusioni grandi come la giovinezza, la salute, la ricchezza? Perché dibattersi e agitarsi, confondere i nostri passi, accelerarli e correre, incespicare, perdersi? Perché non camminiamo più così, un passo dietro l’altro guardando davanti e non avanti?

 

(I – continua)

 

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