Il tasso di Lambrate

di in: Bazar

Quell’anno il cielo di Lombardia sembrava essere immune da qualunque perturbazione. Le nuvole passavano minacciose al di là delle Alpi, dirette verso l’Europa centrale, e le previsioni giorno dopo giorno confermavano l’alta pressione che dalle Azzorre faceva sentire i suoi effetti fino a Milano. Un sole primaverile, davvero troppo caldo per la stagione ancora invernale – si era alla metà di febbraio -, riscaldava la pianura del Po, conferendole un’atmosfera irreale e crudele.

Il giorno in cui accadde questa storia era stato il più caldo degli ultimi anni, con temperature che avevano superato i venti gradi, ed era stato preceduto da una serie di giornate luminose e assolate. Pertanto, il terreno piantato a pioppi nei pressi di Lambrate, poco distante dalla linea ferroviaria, si era notevolmente riscaldato. Verso le tre di notte, il tepore penetrato attraverso le foglie miste a terra, trenta centimetri sotto la superficie del suolo, aveva risvegliato un certo appetito in un tasso che in quel luogo si era rintanato qualche mese prima, per sfuggire alle prime gelate di novembre, e fino ad allora era rimasto lì tranquillo, sonnecchiando in attesa della primavera. Ma la primavera doveva essere arrivata, e conveniva abbandonare lo stato di sonnolenza simile a un letargo, per non morire di fame. Allora, il tasso si era fatto largo coi suoi unghioni appuntiti tra le foglie màcere e il terriccio umido che ostruivano l’uscita dalla tana, aprendosi un varco nel materiale che lui stesso aveva accumulato qualche mese prima per mettersi al riparo dai rigori dell’inverno. Lì i rumori della città giungevano appena, filtrati dallo spesso strato di foglie che l’autunno aveva depositato nel sottobosco. Il tasso ancora un po’ stordito avanzava tra sterpi e arbusti secchi, pronto a riprendere le consuete attività. All’improvviso udì un fischio lancinante che lo svegliò del tutto incutendogli una grave paura. Era il treno in corsa sui binari che avvertiva del suo passaggio la stazione poco distante. Il risveglio non poteva essere peggiore.

Il tasso era lungo circa sessantacinque centimetri e sembrava un cane di piccola taglia, dalle zampette piuttosto corte, simile in questo a un bassotto. Si trattava di un esemplare di Meles meles, appartenente ai Carnivori Mustelidi.

Sebbene l’istinto gli consigliasse di riguadagnare subito la tana, il tasso aveva zampettato tra i cespugli, preso dal desiderio di girovagare nel sottobosco alla ricerca di insetti, radici, frutti; con un po’ di fortuna, avrebbe catturato e mangiato volentieri anche qualche piccolo vertebrato. Ma il suono assordante del treno lo aveva fatto barcollare e sviare, e il tasso aveva perduto l’orientamento. All’improvviso, non sentiva più terra sotto le sue zampe, e neppure foglie, sterpi, sassi, ma solo un’unica immensa superficie piatta, ruvida e polverosa. Dov’erano finiti i sassi puliti del Lambro, dai quali si era spesso chinato sull’acqua per dissetarsi, appiattato dietro un cespuglio? Lì non scorreva alcun fiume perché né udiva lo sciacquio delle onde sulla riva, né sentiva quell’umidore nell’aria che sempre lo avvertiva della vicinanza del fiume. In lontananza, invece, ecco strane luci gialle, che lampeggiavano ripetutamente, ossessivamente, e che lo inducevano a deviare di nuovo dal suo cammino. Il tasso cercava la selva, e a questo fine voltava e rivoltava il muso, a destra e a sinistra, levando il naso con la speranza di avvertire qualche odore familiare, per seguirne la traccia. Era tornato indietro, spaventato da quel semaforo, e seguiva ora in linea retta il marciapiede che delimitava la strada. Dinanzi a lui, solo carte di caramelle, chewing gums indurite, pacchetti di sigarette accartocciati e mozziconi spenti dall’odore acre di tabacco bruciato, e poi un deserto senza fine di polvere, di ghiaia, di cemento. Solo un fiore di tarassaco impolverato, anch’esso ingannato dalla calura anticipata, volgeva la corolla gialla verso terra, accompagnandosi ad un esile stelo di gramigna sporca che spuntava dagli interstizi del selciato, tra un blocco di cemento e l’altro, sul ciglio della strada. Ma il tasso non aveva più fame e non cercava più il cibo: cercava la strada per il bosco, e non la trovava. Un’automobile passò veloce, sfiorandolo, come una minaccia oscura e terribile. Simile a un uomo primitivo nell’antica selva braccato da una bestia feroce, il tasso cercò scampo nella fuga. Attraversò la strada veloce, col cuore in gola, e si trovò nei pressi del marciapiede opposto, fortunatamente incolume. Decise di superarlo, e con un balzo un po’ goffo fu sopra il mattonato. Anche lì nulla che gli rivelasse la presenza del bosco, ma solo immense distese d’asfalto, barriere di cemento, palazzi alti come insuperabili catene montuose, dove erano rintanati uomini che ancora dormivano, e luci accecanti di lampioni, soli ineludibili di altri mondi a lui sconosciuti, e poi luci gialle sopra vertiginosi alberi di ferro, e corpi giganteschi in movimento, camion e autotreni velocissimi, che gli rigettavano addosso ondate di aria fetida e irrespirabile, gas di scarico misto a polvere di cemento, tra uno svolazzare continuo di cartacce mulinanti tutt’intorno, che lo stordivano e gli facevano perdere l’equilibrio e il respiro.

Erano già le cinque del mattino e il traffico andava intensificandosi: il tasso cominciava a disperare. Mai prima d’allora aveva patito un freddo così intenso sotto il mantello dal pelo folto e ruvido come in quell’ora mattutina di febbraio che l’escursione termica restituiva alla stagione invernale, annullando ogni supposto tepore primaverile, e mai aveva sentito quegli odori che non sapeva riconoscere e che gli toglievano l’aria: gas, ossidi d’azoto, benzina, un pulviscolo accecante, un miscuglio micidiale lo accompagnava ormai da qualche ora per le strade della città, verso una meta ignota. Il tasso si era ingannato, perché la primavera era ancora lontana.

Camminò così, con quell’andatura goffa che fa sembrare i tassi sempre un po’ ingobbiti, fino a via Bassini, dopo aver percorso più di due chilometri sull’asfalto, miracolosamente illeso. Di tanto in tanto il profumo della corteccia d’un albero gli dava l’impressione d’essere sulla strada giusta, di potersi salvare. Ma non era che un’ostinata illusione che lo riafferrava ogni dieci metri e lo abbandonava subito dopo: erano i platani dell’arredo floreale della città, disposti in bella fila lungo il viale, come un estremo inganno. Così, quando non ebbe più a sperare, si fermò sotto un platano ancora spoglio per l’inverno. Lì un cane aveva lasciato la sua orina, che ora il tasso avvertiva come un odore familiare, in un ultimo strano moto di piacere. Poi, incapace di andare oltre, chiuse gli occhi, e attese.

 

[1997]