La morte di Tonino

di in: Bazar

Classe 1938. Ne nacquero quasi trecento in quell’anno, tra quelli che se ne sono andati e quelli che sono morti, moltissimi da piccoli. Ora in paese quelli del trentotto non sono più di una decina e io ne conosco solo due, credo si ritenessero amici di Tonino, ma lui non aveva amici. Tonino solo una volta si è scollato da se stesso, questo momento è stato quando s’innamorò della figlia del macellaio. Il suo amore non fu corrisposto e da allora ha sempre avuto un mirabile argomento di conversazione: la figlia del macellaio. Tonino aveva una lingua mai piatta, qualunque cosa dicesse. Da giovane voleva fare il radiocronista, diceva che aveva fatto la domanda per un concorso alla Rai. Se avesse vinto quel concorso, ma non so neppure se lo abbia mai fatto, sarebbe stato bravo come Sandro Ciotti.
Tonino aveva un fratello che scriveva benissimo. Aveva l’epica in bocca, ma ha scritto solo un libro di memorie che si chiama C’ero una volta al mio paese e poi è morto.

Oggi è martedì e nevica senza molta convinzione. Tonino mi pare che è morto mercoledì passato, erano le tre del pomeriggio quando ho risposto al telefono. Era la sorella Nicolina che diceva: Tonino è morto, è morto Tonino. Lo ha ripetuto anche a mia moglie, perché la madre di mia moglie è sua cugina. Non si può dire che fosse anche parente con Tonino, perché lui non aveva parenti. Non andò a Cantù quando morirono i suoi genitori e non ci andò nemmeno quando morì il fratello Pietro. La stessa cosa fece la sorella Nicolina. Non so se lei partecipa ai funerali. Sicuramente Tonino non ha mai partecipato a nessun funerale. Giocava ai cavalli e parlava della figlia del macellaio o del fatto che il paese nuovo gli faceva schifo. Con la pensione che prendeva avrebbe potuto benissimo affittarsi una casa al paese vecchio o addirittura comprarsela, ma forse non gli andava di affrontare i fastidi del trasloco. E poi si sarebbe privato di un motivo di recriminazione. Lui, anche se lo faceva in modo affascinante, era pur sempre uno dei tanti recriminatori di questo paese. Ultimamente diceva sempre che la sorella lo aveva rovinato, diceva che non ce la faceva più, ma sono cose che qui dicono in tanti e nessuno ci fa caso. La sorella, nevrotica come lui, recentemente ha avuto due piccole ischemie cerebrali. Pure Tonino era passato dalle turbe della mente a quelle del corpo. In autunno lo avevano operato per un cancro all’intestino. Io da allora con lui non ho più parlato, lo vedevo che girava per il paese nuovo con il cappotto sulle spalle quando ancora l’inverno non era entrato nel vivo. L’ho visto qualche giorno prima che morisse perché era andato a mangiare nel ristorante di mio fratello. Se avessi parlato, la sua morte improvvisa mi avrebbe ancora più impressionato. Tonino era ragioniere, senza che nel carattere avesse nulla del ragioniere. Aveva lavorato tutta la vita negli uffici che dovrebbero far pagare le tasse. Squallide pensioncine, ristoranti, sonnellini pomeridiani. Il tutto sempre col collare della nevrosi, con la museruola delle paure che gli impediva di mordere anche il più piccolo pezzo di mondo. Prendere un treno, comprarsi un pantalone, salire su una corriera, tutto si era fatto più difficile. Sudate lente o improvvise, l’affanno, i pensieri, il torpore che gli cadeva nel corpo mischiato ai piombi d’una inquietudine che non voleva mai finire. Poco alla volta aveva perso la gioventù senza che gli venissero le rughe della vecchiezza. Era arrivato a crepuscolo con le valigie leggere. Quando stava con gli altri recitava il suo essere scapolo con qualche felice arguzia, poi c’erano le sue stanze squallide, lo squallore delle sue notti addomesticate dagli psicofarmaci. Il corpo come fardello da portare sulle spalle, gli altri come una nube minacciosa. Nessuna calma, nessuna fiducia nello scorrere delle cose. Gli davano fastidio il freddo e il caldo, i luoghi affollati e quelli desolati, odiava la sorella, non aveva simpatia per gli estranei, la sua intelligenza girava a vuoto, le sue parole erano preziosi stucchi che non avevano pareti a cui attaccarsi. Camminava nel paese nuovo come se fosse in città, non si aspettava saluti, poi scendeva al paese vecchio per giocare la schedina, per il lotto, per i cavalli. Era invecchiato ma molto lentamente, a quarant’anni poteva guardare qualche passante, poteva masturbarsi prima di prendersi due tavor. Ma non gli era mai capitato che una donna gli andasse vicino, che gli accarezzasse il viso, lui continuava a camminare con il giornale sportivo piegato sotto il braccio, non credeva alle chiacchiere della politica, preferiva lo sport, gli piaceva lo sport forse perché gli ricordava la sua passione da radiocronista, forse qualche volta sognava di raccontare partite importanti, sognava di firmare autografi.
Non so come passava le ore dell’impiego, posso immaginarlo orgoglioso all’inizio di avere un ruolo sociale, posso immaginarlo sospettoso, sempre convinto di avere qualche collega che gli tramasse contro. Il primo incarico a Pordenone, poi Arezzo e infine Avellino. Sarebbe potuto arrivare anche più vicino, ad Ariano, ma lì c’era la figlia del macellaio. C’è chi nasce col vento contrario, c’è chi infila il mondo dalla strada sbagliata. C’è chi prende fin da subito il male che a tutti è riservato alla fine.

Dicevo della telefonata. Siamo andati a casa sua. Al piano di sopra si sentiva il lamento della sorella Nicolina. Era seduta vicino al letto e Tonino era sotto le coperte, girato di fianco, con la faccia leggermente chinata verso il petto. Il colore era quello inequivocabile della morte. Non mi sono avvicinato a toccarlo. Sono sceso al piano di sotto, ho chiamato la signora delle pompe funebri, mia suocera, il medico, il prete, un paio di suoi coetanei.
Così è cominciato il funerale di Tonino. Ho guardato sul comodino. La confezione di Tavor era vuota solo di due pillole. Diceva che si voleva uccidere. Invece è morto di freddo e di tristezza. Qui nevica da quaranta giorni e Tonino diceva sempre che questo è un paese per i lupi. Il giorno dopo ho saputo dal ragazzo che lo accompagnava al paese vecchio e che gli comprava le medicine che lui il giorno prima diceva che gli faceva male il petto e gli aveva fatto prendere uno sciroppo per la tosse.
La sorella Nicolina nonostante gli ottant’anni e la grande nevrosi e le ischemie piange compostamente suo fratello. Figlio mio, figlio mio bello ripete con una vocina che forse non ha mai usato quando aveva nove anni, ma la vocina è quella, si è conservata per zampillare adesso davanti al fratello morto.
La casa di Tonino sta nella periferia del paese nuovo in una di quelle che chiamano stecche, una stecca strana, perché a un certo punto c’è un vuoto e poi ricomincia un’altra casa. Qui ogni posto ormai è periferia. Io non saprei come spiegare a qualcuno dove abitava Tonino. Guardo questa casa, guardo quello che c’è, come se ogni oggetto potesse essere il segno di chissà che. Non si può dire che sia una casa arredata, ci sono le giacche di Tonino ammuffite nell’armadio, c’è una radio che non funziona, un televisore, il calendario di Padre Pio, un paio di santini di Sant’Antonio, ci sono le medicine della sorella e quelle di Tonino, c’è un calendario anno 1997 di un vecchio periodico locale, ci sono le tazze e i bicchieri, ma non ci sono bomboniere nella credenza: Tonino non si sarebbe sposato pure se avesse vissuto mille anni e la sorella si è sposata tardi con un rudere di un paese vicino e poi quando gli è morto il marito è tornata alla sua nevrosi e poi è stata raggiunta dalla nevrosi del fratello che è tornato qui a passare la pensione. Non poteva certo restare ad Avellino. Io, in quella città che è la più vile, la più ipocrita del mondo, Tonino lì lo vedevo che passeggiava sempre da solo, anche lì giocava ai cavalli, al totocalcio e forse qualche volta andava a puttane, credo che fossero tutte occupazioni per passare il tempo che gli rimaneva tra le ore passate in ufficio e quelle sedate dai suoi tavor e dai suoi valium. Mi aveva raccontato che a Pordenone stava con una assai bella e che aveva fatto pure un figlio. Non ho mai capito se questa storia fosse vera oppure fosse un’invenzione di quelle che si fanno per non dare agli altri la sensazione che la nostra vita sia tutto uno squallore.
Torniamo al funerale. Per prima cosa bisogna andare dal medico che deve fare il certificato. Quando sono venuti quelli delle pompe funebri è cominciata la faccenda della vestizione. Fino a un paio di anni fa il morto lo vestivano i parenti, adesso anche qui c’è una vera e propria agenzia di pompe funebri che fa tutto. Una volta bisognava andare ad Aquilonia a fare i manifesti e poi bisognava dirlo a quello della bara, a quello dei fiori, a quello del carro funebre, adesso devi solo pagare e fanno tutto loro. Dicevo della vestizione. Tonino non pensava di morire e non aveva panni pronti. Abbiamo trovato una giacca scura che più o meno poteva andare, ma al morto bisogna mettere anche le scarpe e devono essere nuove. Mia cognata Rosetta ha visto sotto le scarpe il numero che aveva, 41. Sono andato dal calzolaio, me ne ha date un paio nere, numero 42 per metterle meglio. Cinquanta euro, sconto compreso. Messe le scarpe, messa la bara al pian terreno, Tonino è stato avvolto in un lenzuolo e sceso per le strette scale. Eccolo in mostra, in mostra per nessuno. Intorno ha quattro lampioncini, stesso numero di quelli che lo stiamo vegliando, io, mia moglie, mia cognata e mia suocera. Alle sette chiudiamo la porta. Non sono venute neppure le vicine perché la sorella Nicolina la considerano pazza e sono andati molte volte dai carabinieri perché avevano paura a vivere con una vicina così. Non sono venuti neppure gli amici di Tonino. Vediamo domani, mi sono detto tornando a casa.
Il giorno dopo abbiamo aperto la porta e la sorella Nicolina ha ripreso a dire figlio mio figlio mio bello. Verso le undici è venuto il prete e ci ha dato un foglio per pregare, ma mentre iniziava a pregare gli è squillato il telefonino. Lo ha spento e subito gli è squillato un altro.
Dimenticavo di dire che Tonino e la sorella hanno una cognata, la moglie del fratello Pietro a Cantù, e questa cognata ha detto che non poteva venire né lei né le sue figlie. Ha parlato con me e col prete che era amico di suo marito. Ha detto che forse non si può viaggiare per la neve e che le figlie possono avere solo due giorni di permesso. Parla come se Tonino fosse morto sulla luna e dopo questa telefonata io mi sento molto stanco, forse perché sono stato troppo gentile. Lei comunque mi ha detto che verrà a Pasqua perché c’è da vedere che fare di Nicolina e dei suoi soldi. Comunque ho l’impressione che lei e le sue figlie non siano gente malvagia.
All’una siamo andati a mangiare e Antonietta mia moglie ha preparato un po’ di pastina per la madre e la sorella Nicolina che sono rimaste davanti al morto. Alle due e mezza sono venuti a chiudere la bara per portarla in chiesa. Eravamo sempre noi quattro. Fuori c’era una giornata di tempo vergognosamente brutto, pioveva e nevicava nello stesso tempo, c’era il solito vento terribile, le nuvole ti entravano nelle tasche, il cielo era caduto per terra. Dietro al carro funebre che andava alla chiesa del paese nuovo solo due macchine, la mia e quella di Antonio, mio amico e impiegato al Comune nei servizi sociali. Alle tre meno un quarto il prete ha iniziato a dire la messa. In chiesa ho contato nove persone che poi sono diventate una ventina, sono arrivati anche un paio di quelli con cui Tonino stava sempre in piazza. Il prete durante la cerimonia non ha speso molte parole per Tonino, ha detto solo che qualche giorno fa aveva vinto alla lotteria. Io quando muoio non voglio essere portato in questa chiesa e non voglio che sia questo prete a dire la messa. Quando muoio sarà un problema perché se mia madre è ancora viva per lei sarebbe inconcepibile un funerale senza chiesa e senza prete. Dovrei morire dopo mia madre e dovrei organizzare un funerale alternativo, ma queste sono cose che se le fai tu ti prendono per malato e allora ci si affida alle consuetudini, alle decisioni del momento.
Alla fine della messa i pochi presenti hanno dato le condoglianze ai pochi parenti, il tutto si è risolto in un minuto. Bara in macchina per andare al cimitero. Bara di nuovo aperta, prima di sigillarla definitivamente. Ancora la sorella Nicolina che piange e ripete il suo figlio mio bello. Effettivamente Tonino da morto ha un bel volto, forse è la prima volta che il suo corpo è al mondo senza soffrire.
Sono arrivati alcuni sessantenni. Uno che è venuto da Andretta ha qualche lacrima. Io vorrei che Tonino tornasse per un attimo vivo e vedesse che funerale gli stiamo facendo. Il loculo è in alto, sotto di lui ci starà Nicola il barbiere con pettine e forbice sotto il nome. Con qualche sforzo la bara viene infilata dentro. Sembra che stiano chiudendo una macchina in garage e spingono a mano perché non c’è benzina. Continua a nevicare. Bello, figlio mio bello, ripete la sorella Nicolina.

Finito il funerale è andata a dormire dalla cugina Velia. Dopo un paio di giorni è voluta tornare a casa sua. A fianco al portoncino c’era la gatta che l’aspettava. Lei era tutta contenta di averla trovata. Appena è entrata, siccome era ora di pranzo, ha preso il pane e una pera, mangiava e piangeva e accarezzava la gatta dicendole che non doveva mai più andarsene che doveva stare sempre vicina a lei. Ha preso la faccia della gatta tra le mani e diceva: come dobbiamo fare, abbiamo perso a Tonino e intanto continuava a mangiare il pane e la pera. Noi eravamo lì, ma lei stava sola con la gatta e la gatta, smentendo il suo istinto felino, sembrava corrispondere al suo affetto.
Io ho approfittato di tanta indifferenza per guardare ancora la casa. La camera di Tonino è assai simile alle camere delle pensioni in cui ha sempre vissuto, un letto, un armadio e un comodino, unico libro sulla sedia il libro del fratello. Da nessuna parte ci sono fotografie di bambini, solo piccole foto dei genitori e del fratello, la sorella Nicolina non ha fotografie del marito, il marito si chiamava Nardino, qualche volta si confondeva davanti alla bara e lo chiamava Tonino. Non ci sono piante vere, normalmente le imposte delle finestre erano chiuse e resteranno chiuse anche adesso. Prima c’erano due bambini invecchiati in una lunga solitudine. Adesso Nicolina non vuole prendere più medicine, non vuole stare sola, vive con le sue allucinazioni, ogni volta che scende in cucina pensa di trovare il padre e la madre. Forse una mattina si metterà nel letto come Tonino e smetterà di parlare, il grembiulino della vita gli cadrà di dosso. Lei è già arrivata più avanti di Tonino, gli anni in più che ha vissuto gli sono serviti a mettere in disordine la sua testa. Tonino è morto per sfinimento, perché era un giocatore rimasto per anni e anni sul campo a giocare la partita della solitudine, mai un intervallo, mai un goal, tutto un andare avanti e indietro, senza concludere mai nulla.
Nessuno poteva aiutarlo, il medico indaffarato che gli poteva solo prescrivere delle medicine, i chirurghi affamati di soldi che gli avevano tolto un po’ di marciume dall’intestino, nessuno gli poteva togliere la boxe che si svolgeva ogni giorno nella sua testa, lui subiva colpi, non riusciva a sottrarsi, ormai era un pugile suonato e nessuno poteva gettare la spugna al posto suo. Forse non è neppure morto, si è pietrificato all’improvviso, gli è accaduto qualcosa di diverso, si è mutato in pietra perché in forma umana non poteva più resistere. Ognuno resiste fino a un certo punto, la vita è una cosa che ci sfinisce tutti quanti, nessuno le resiste, è un rullo e noi dobbiamo tornare pietrisco, noi dobbiamo cadere uno alla volta per fare da strada agli altri. Tonino stava sotto il rullo da anni, da quando aveva perduto la figlia del macellaio. Da allora non aveva scommesso più su niente, a parte i cavalli e le partite di pallone, si è preso ogni giorno la sua razione, la bistecca al ristorante, lo stipendio, i panni in lavanderia, si è fatto la barba. L’ultima volta però la barba gliel’hanno fatta i ragazzi. Gli sono venuti fuori i suoi tratti scolpiti. Peccato che l’hanno visto pochissimi dentro la bara, era veramente bello, si faceva guardare e non ti veniva paura di morire.