A cielo aperto

I paesaggi quotidiani di Giovanni Zaffagnini presentati da Piero Orlandi.

di in: Bazar

Dirò dell’uomo che fotografa, più che delle fotografie. Il brano di Robert Adams in apertura del libro sottolinea l’azione di accertamento, riconoscimento che le immagini si propongono di svolgere, ma che prima di loro svolge il fotografo, affinché esse esistano. Queste foto ci spingono a osservare i luoghi, ma anche a cercare di immaginare l’uomo che fotografa mentre si muove, sosta, osserva, sceglie, scarta, riprova, passa oltre. Sale e scende dai pochi punti elevati sulla campagna, per cercare quell’innalzamento dello sguardo che è uno degli indizi più precisi che la fotografia contemporanea ci offre perché ci rendiamo conto della sua enorme fatica nell’interpretare il cambiamento; lei si affanna, si accorge che stando troppo vicini alle cose, e troppo al loro livello, non si capisce più niente, e stando troppo lontani e in alto, allo zenit, ci si allontana troppo e si assume un atteggiamento arrogante e inutile per capire.

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Seguiamo l’uomo che fotografa, allora. Una volta la campagna era il contrario della città (vuoto/pieno, natura/cultura, povertà/ricchezza, tradizione/modernità, lavoro manuale/sedentario, isolamento/concentrazione); o meglio, l’assenza di città. Oggi nella campagna – in ciò che per abitudine continuiamo a chiamare così – c’è molta presenza di città. C’è un ambiente né urbano né rurale che della vecchia campagna ha mantenuto solo la funzione produttiva, poco altro; una miscela ibrida, amarognola, complessivamente inelegante, priva di poesia – se per poesia si intende epica, musica, ritmo, rima, sentimento.

Questa campagna è attraversata, tagliata, frammentata. Da linee elettriche, autostrade, metanodotti, recinzioni; è punteggiata di pannelli fotovoltaici, case vecchie e nuove, fabbriche, depositi a cielo aperto, magazzini, macchinari di ogni tipo, forma e dimensione. E’ solcata da fiumi, corsi d’acqua, canali, e dai loro argini. Argini che sono il punto più elevato dei dintorni – se si eccettua il campanile della chiesa, e qualche silo. E’ da qui che il fotografo prende vedute a trenta gradi di inclinazione – questo è più o meno l’angolo formato dal terreno e dall’incidenza dello sguardo. Da qui si infila a rovistare, a  spiare, a cercar di vedere dietro gli spigoli dei fabbricati e le chiome degli alberi.

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Non c’è mai nessuno. Eppure qualcuno – prima dello scatto – ha spostato queste casse, qualcuno – dopo lo scatto – leverà la catena che chiude il passo carraio ed entrerà nel cortile con un carro, un trattore. Qualcuno dovrà pure raccogliere barattoli e secchi buttati là in terra. C’è nessuno? Chi si siede la sera sulla panchina, attendendo che venga l’ora di coricarsi? Non c’è mai nessuno: c’è un cane, un ombrellone, una macchina in lento movimento laggiù, lontano di qui. Poi il fotografo scende alla nostra altezza, imbocca una strada portando l’occhio alla sua quota naturale. Si incontra una biforcazione a sinistra, nascosta da un cespuglio. E’ un ingresso, c’è anche una pavimentazione di materiale diverso, sembra cemento, dev’essere lo spazio che precede un cancello. In tutte le immagini di Zaffagnini c’è una dose non piccola di mistero, di sospensione un po’ estatica, di attesa né impaurita né curiosa, un’attesa paziente, sicura di trovare alla fine quel che cerca. A volte, come nell’immagine della biforcazione nascosta, c’è anche di più, c’è suspense, potrebbe esserci qualcuno che si nasconde.

A pensarci bene non è che non ci sono persone, è che le persone probabilmente si nascondono. Quel cane in mezzo a un prato le ha viste nascondersi poco prima che l’uomo che fotografa arrivasse lì. Il cane le vede, dietro il capannone, mentre da qui noi non le vediamo. Chi sono? I contadini? Dunque ci sono ancora i contadini in queste campagne?

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Potrebbe anche darsi che gli abitatori di queste campagne siano a fianco dell’uomo che fotografa, al di qua dell’obiettivo. E che ci prendano un po’ in giro, noi che pretendiamo di trovare spiegazioni. Noi che prendiamo troppo seriamente questi paesaggi postmoderni e chiediamo alla fotografia che ce li spieghi, da sola, poveretta lei…

Sono immagini giuste, perché accettano la compromissione. Con la realtà. La compromissione è un valore etico. Significa accettare di confrontarsi con, sopravvivere nonostante. Nonostante la discarica là dietro e la segnaletica un po’ ovunque. Tutti sappiamo benissimo che il paesaggio è così, ma non vogliamo comprometterci con lui e fingiamo di non riconoscerlo. Perché? Perché eravamo abituati a un ambiente diverso, e le abitudini sono dure a morire? Perché ci vergogniamo di quello che abbiamo fatto alla campagna? Zaffagnini ci mette davanti quel che facciamo finta di non riconoscere: il paesaggio che abbiamo creato, specchio di noi stessi, consumisti e consumatori, turisti superficiali, automobilisti frettolosi.

 

Piero Orlandi

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