Il grande Iran

Tre brevi estratti da "Il grande Iran" (Exòrma 2016) di Giuseppe Acconcia, un ricco reportage narrativo che rivela dall’interno tutta la complessità dell’attuale realtà iraniana.

di in: De libris

Tehran

 

Questo libro è il frutto di dieci anni di vita e ritorni in Iran. La conoscenza di questo paese si è rivelata un’esperienza unica sia per la complessità della realtà iraniana sia per le persone incontrate. L’idea, forse ardita, di partire per l’Iran era nata nel 2004 dopo lunghi viaggi tra le strade del Medio Oriente. Il mito della Persia degli Achemenidi e il grande fascino della Rivoluzione del 1979, raccontata come una leggenda moderna da Michel Foucault, hanno trasformato la mia idea in necessità di capire.

Nel tempo vissuto a Tehran ho cercato di vivere il più possibile immerso nella società persiana. L’Iran è il paese del dispotismo e delle lotte civili, il più democratico del Medio Oriente per cultura politica e civile. Ai miei occhi, il popolo iraniano vive un momento politico, culturale, sociale e civile unico. In Iran, tutto è il contrario di tutto: la libertà è ipocrisia, la religione è politica, la carità è profitto.

Tehran è una città bizzarra. Vista dall’alto sconvolge con i suoi 15 milioni di abitanti che si riversano su strade straripanti di macchine, taxi e moto. L’attento osservatore noterà che il canto del muezzin o i minareti delle moschee non invadono i luoghi della città come avviene in altri paesi.

Quella di Tehran è una ricchezza degradante che si trasforma in povertà nel sud. A nord si innalza una montagna alta più di 6000 metri e innevata quasi tutto l’anno, oasi di libertà e di incontri fugaci. A sud si trova un bazar grande quanto una città, con moschee, venditori, caravanserragli e vecchi hammam, grandi parchi dove famiglie e giovani restano per ore di giorno e di notte fumando un qeliun (narghilè). Per i ragazzi sono davvero pochi i caffè aperti fino a mezzanotte dove ci si concede maggiore libertà.

Le librerie su via della Rivoluzione espongono locandine dimenticate di opere di Nietzsche e Khayyam. Botteghe piccolissime vendono pane in forni di pietra o espongono frutta e frullati da bere intorno a piazza della Rivoluzione. Murales inneggiano ovunque all’Intifada palestinese e ricordano i martiri della guerra contro l’Iraq.

L’Università di Tehran, punto di partenza di numerose proteste negli ultimi anni, è un luogo surreale. Tra le facoltà collegate da ampi viali alberati tra giardini, moschee, immagini di ayatollah, ho incontrato studenti e attivisti che, con una passione rara in Europa, si confrontano parlando di Habermas, Foucault, Gramsci, Sartre, Dostoevskij, di Hedayat, Shamlu, Mulla Sadra, Hafez, di democrazia, di comunismo, di anarchia, di giornali, di proteste. Si tratta di ragazzi spesso limitati da regole che vorrebbero infrangere nella vita quotidiana, nei loro rapporti politici, familiari e sociali.

Questi studenti continuano a incontrarsi in luoghi angusti per scrivere giornali, preparare dibattiti, organizzare incontri, cercare contatti con organizzazioni non governative per la difesa dei diritti degli studenti, con il rischio di essere arrestati e puniti. L’ambasciata italiana a Tehran si trova poco lontano dall’università, in una stradina stretta, l’unica della città con un nome non persiano: Neauphle-le-Château. Qui ho passato alcuni mesi di lavoro tra il 2004 e il 2005 e qui sono poi tornato ogni tanto. Grazie al mio lavoro nella sezione politica dell’ambasciata ho potuto incontrare numerose personalità della società civile, politica, economica e accademica iraniana le cui parole arricchiscono questo scritto.

 

Sono arrivato per la prima volta a Tehran alle sei della mattina. Tehran all’alba, a maggio, era bellissima. Il tempo trascorso lì ha cancellato i miei sguardi sofferenti. In una città così poco accogliente si scorgeva talvolta il vivere tremendo di uomo povero, che si barcamenava ogni giorno. È una città tagliente, Tehran, piena di gente, macchine, strade giganti con alberi ai lati e con l’acqua corrente. Acqua corrente, proprio che corre, per le strade, lungo i canali, a dare linfa agli alberi e per pulire le mani. Sì, alcuni usano sciacquarsi le mani nell’acqua che scorre. Quest’acqua proviene dal nord, dalla montagna, e scende, scende giù per chilometri. Si riempie di bottiglie, spazzatura e scorre, scorre. Più la gente si fa povera più l’acqua è sporca. Più scorre, più si vive con niente.

Tehran contraddice Tehran. Il nord si culla in una quiete occidentale. Il sud si distrae tra le brevi stradine o i grandi bazar. La via che ricorda la Rivoluzione del 1979 separa i due volti, le due contraddizioni. Le stesse che creano i mali di un paese bellissimo, di una terra per tanto tempo isolata, continuamente messa a tacere e manipolata.

Cammino tra le vie del mercato. Ci sono moschee dovunque, preghiere continue nel sole del giorno e deserti di niente nel buio notturno. Giunto a piazza Imam Khomeini, la vecchia piazza Tupkhaneh, mi incammino dove i venditori di frutta frullano papaia e carote, proseguo e inizia la festa. Stradine tortuose, persone che passeggiano; lunghi i veli, gli hejab, delle donne più vecchie, piccoli i maqna‘eh delle giovani.

 

Quei salotti trasformati in Cineclub

 

Chi suona il campanello a casa di Morteza nel quartiere Amir Abad a Tehran, o di Mahnaz a Tajrish, nel nord della città, verso le montagne di Darband dove gli iraniani amano passare le loro serate in libertà, non si aspetti una semplice festa. Gli ampi salotti di queste bellissime case persiane il sabato sera si trasformano in cineclub privati per proiezioni di film altrimenti censurati in Iran. Come mostrare film d’essai possa diventare una forma di protesta lo racconta il regista iraniano Amir Naderi. Nel suo lavoro Cut, girato in Giappone, dove vive ora, mostra l’irrefrenabile volontà di un giovane giapponese che organizza un cineforum in una sala ricavata sul terrazzo di un alto palazzo a Tokyo.

A Tehran sta succedendo la stessa cosa. Per ora senza conseguenze, grazie alla stagione di parziale apertura culturale che l’Iran sta attraversando dopo l’elezione del moderato Hassan Ruhani. La proiezione è accompagnata da un bicchiere del proibito araq, il liquore locale venduto al mercato nero. In First person singular, Hamideh Rezavi rappresenta i tanti volti delle donne persiane: il primo fotogramma propone una donna avvolta in un velo nero, che inizia il racconto come un cantastorie; segue il viso senza veli dell’autrice, rinchiuso da uno schermo strettissimo, ripreso da un iPhone. Il volto si trasforma poi in una marionetta bianca, in un’atmosfera che ricorda quella dei Cremaster di Matthew Barney.

Lo spazio di una breve discussione e inizia la seconda proiezione. Giovani, critici, gente del mestiere e sem­  plici amici curiosi, tutti con familiari o esperienze di vita all’estero, sono seduti uno accanto all’altro o su cuscini di fortuna. Rivolgono lo sguardo allo schermo bianco e alle immagini talvolta sottotitolate in inglese.

Il secondo lungometraggio è di Mahmud Ghaffari: This is a Dream racconta le peripezie di una giovane traduttrice alla ricerca di un prestito. Fino all’amaro finale in cui la protagonista è violentata dall’usuraio. Nel breve spazio di un film si ha l’impressione che succedano troppe cose rispetto ai grandi titoli del cinema iraniano di Abbas Kiarostami, a cui questi giovani registi spesso si ispirano. In Caso 1, caso 2 (1979) e in L’esperienza (1973), Abbas Kiarostami racconta ogni particolare con una semplicità che non ha bisogno di trama. Non è facile capire le ragioni per cui film come questi sono stati proibiti. «Le autorità iraniane vogliono che la realtà venga rappresentata come un paradiso e che si cancelli tutto quello che non va», ci spiega l’attrice protagonista del film Adis Mir Amini. Alle proiezioni segue una discussione accesa, quasi sempre su come rinnovare il cinema iraniano.

 

LA CASA DI MONIR

 

Ancora più informale è la proiezione del documentario sulla vita di Monir Farman Farmaiyan, realizzato da Bahman Kiarostami, nella sala improvvisata a Tajrish. Monir è un’anziana pittrice iraniana che vive da più di sessant’anni tra gli Stati Uniti, dove ha conosciuto Andy Warhol e Jackson Pollock, e Tehran. Si ispira all’arte tradizionale iraniana, prendendo spunto anche dalle celebrazioni delle festività religiose sciite, tra schizzi di pittura su frammenti di vetro e riproduzioni di antiche calligrafie della tradizione persiana.

La straordinaria storia di Monir si chiude tra le macerie della sua casa a Tehran, confiscata, come è accaduto a tante famiglie abbienti e vicine ai Pahlavi, dopo la Rivoluzione del 1979. Anche il suo giardino, un tempo ricoperto di mosaici e pieno di opere surreali, venne completamente depredato.

La struttura del film non convince però il critico Majid Eslami. «Il documentario non segue una logica nella rappresentazione degli eventi, diluendo così l’attenzione sul personaggio», commenta, invitandoci a guardare gli ultimi capolavori del cinema locale: Cube of Sugar di Reza Mir Karimi e Shadow Yellow Sky di Majid Tavakoli.

 

L’Iran e le rivolte in Medio Oriente

 

Le autorità iraniane hanno definito «Risveglio islamico» le rivolte del 2011 e l’ascesa dei Fratelli musulmani in Egitto, Tunisia, Siria e Libia. Ma gli entusiasmi si sono calmati quando anche giovani, attivisti, ingegneri e docenti universitari, vicini ai riformisti di Moussavi e Karrubi, sono scesi in piazza nel marzo 2011 lungo viale della Rivoluzione, piazza Valy-e Asr e piazza Azadi a Tehran. Piazza Azadi è stata scelta come luogo simbolo della protesta (Azadi in farsi significa “libertà” e rimanda all’emblema della Rivoluzione egiziana, piazza Tahrir: “liberazione” in arabo). In Iran è subito tornata la repressione degli anni del riformismo e del 2009.

 

PIAZZA AZADI

 

La gente è scioccata dall’aggressività di alcuni tra i giovani manifestanti. Un ragazzo è salito sopra una gru vestito di verde e ha minacciato di lanciarsi sulla folla. Gli slogan contro la guida suprema, come «Morte al dittatore!», sono stati gridati a partire dalle manifestazioni del giorno del Quds (Gerusalemme). Altri manifestanti hanno urlato anche: «Mubarak, Ben ‘Ali, questo è il turno di Seyed ‘Ali!». Queste manifestazioni non sono state la conseguenza delle proteste che hanno toccato il Nord Africa. Al contrario, i movimenti tunisino ed egiziano e i loro leader sono stati ispirati dai riformisti iraniani e dalle loro ambizioni per una completa democratizzazione del paese. Karrubi, riformista moderato, candidato alle elezioni del 2009, è stato arrestato in quei giorni ed è ancora agli arresti domiciliari proprio perché aveva chiamato il movimento a unirsi agli egiziani in segno di vicinanza. D’altra parte, Khamene’i e Ahmadinejad avevano inneggiato alla «Sacra rivoluzione egiziana» sperando in una riedizione della Rivoluzione islamica, senza però considerare le aspirazioni autenticamente democratiche dei movimenti nordafricani.

 

IL RIAVVICINAMENTO TRA CAIRO E TEHRAN

 

Nel 2012, con la vittoria elettorale di Libertà e giustizia, il partito dei Fratelli musulmani egiziani, Mohammed Morsi e Ahmadinejad hanno tentato di avviare un dialogo davvero inedito. Nel febbraio 2011, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha partecipato al summit dell’Organizzazione per la cooperazione islamica visitando la moschea di Al-Azhar, la massima istituzione sunnita. Questo episodio è stato centrale per il riavvicinamento temporaneo tra i due paesi. L’ultima visita ufficiale di un membro della famiglia Pahlavi in Egitto c’era stata nel 1977, quando le relazioni tra Cairo e Tehran erano distese. Ma dopo la Rivoluzione del 1979 l’Egitto è stato rappresentato in Iran come uno dei suoi principali nemici perché è stato il primo paese arabo a riconoscere Israele. L’Egitto è stato il primo alleato degli Stati Uniti nella regione, mentre la politica estera della Repubblica islamica era imbevuta di antiamericanismo. I due paesi sono stati rappresentati come guida della comunità sunnita, l’Egitto, e sciita, l’Iran. Qualche giorno dopo il suo giuramento in piazza Tahrir, Morsi ha partecipato al meeting dei paesi non allineati a Tehran.

Se Cairo e Tehran hanno lanciato in quei mesi voli commerciali per unire le due capitali, mai sono state aperte ambasciate reciproche nei due paesi. Già questi segni avevano provocato profonde preoccupazioni soprattutto tra i paesi del Golfo in merito a possibili cambiamenti in politica commerciale. Sono rimaste impresse a tutti le immagini di Ahmadinejad colpito da scarpe mentre passeggiava nel centro del Cairo. Molti gruppi salafiti hanno disapprovato con forza quella visita. Lo stesso è accaduto tra moderati e conservatori iraniani. Mentre Ahmadinejad era al Cairo, l’ex procuratore generale e responsabile della repressione del 2009 Said Mortazavi è stato formalmente accusato di coinvolgimento nell’uccisione dei manifestanti.

Qualunque possibilità di riavvicinamento tra Egitto e Iran è stata completamente azzerata dal colpo di Stato militare al Cairo. Tehran e Istanbul hanno duramente criticato i militari egiziani e difeso l’ex presidente Morsi, ma questo è servito a poco.