Per soglie d’increato

di in: Bazar

inquiete luci
nell’impaziente traversata
tra l’acqua e il vento
che mormora confuse onde
alla cenere di navigli spenti –
il lampo intermittente
ha l’impeto stupito
di foglie sorprese
in passaggi di stagione,
nomadi in tracce certe d’esilio
più prossime al privilegio
che in visibilio di cadute
riporta alla dimora
invernale dell’origine: –

un solo giorno, ancora,
e la fonte arretrerà
nel nulla di un ricordo,
nel lampo dello schianto –
la vela farà rotta,
vociante di fuochi, all’archivio
interminato dei fondali

*

per soglie d’increato
vanificando accenti conosciuti,
per margini brinati
di mondi lontanati
all’apparire – dove non serve
nominare ad ogni passo
il prodigio che trascorre
in mobili immagini di evento,
epifanie di lumi
rovesciati in ombre
quando già credi
di stringere il mistero,
contemplarne il volto,
tradurre le pupille in segni
e voci: –

tu dialoga con lo stupore
che non conserva tracce,
con la stella che dissigilla
un senso che non dura,
con l’assenza che si desta
in palpiti migranti fatti verbo,
al verbo estranei per legge
d’indicibile esperienza –
per osservare la vita
nello specchio albale
di una luce
pensata prima d’ogni dire,
prima del silenzio

*

sugli orli dell’alba
da sempre maturano
due lampi, due bagliori –
quello che annuncia il giorno,
riaffiorando da vampate
d’ombra e di silenzio,
e quello che insiste
in remoti segnali di voce,
in lettere di dolenti predizioni,
sillabe dell’alfabeto dei salici
e della luna, che,
verdeggiante,
si ostina in diversioni
di deserto, volta al nessun luogo
di identità di febbre: –

l’alba, da sempre, si accompagna
a specchi di necessità,
disseminata per nascita
in ciechi vincoli di suono,
impensabile lume
smemorato
prossimo a esercizi quotidiani
di cecità e di vuoto

*

colma del vago notturno
l’inquieta iride che annaspa
tra rituali e fantasie di approdi,
in viaggio su una corda
tra rovine malate
e corpi immersi nel lessico
fluviale della foce: –

luci commosse, riesumate
da breviari di antenati
in rapida sequenza di deserti,
ore differenti,
volti conservati in forme
infantili per privilegio
di archivi, luoghi inesatti
di ritmiche distanze: –

solo il ricordo, ultimo
congegno della mente,
sostiene l’avvento,
l’oscura epifania
parallela al morso
che la vita fatica a fior di pelle

*

l’insonnia dimora
sopra schegge di voce trasparenti
che l’istinto chiama luce,
scrigno di presenze –
aspre più del nome
che cancella
al tocco della mano,
un dono di forme
accumulate nei vuoti
che il giorno spazza di volti,
attraversando ciò che resta
di ali solari, di maree
affiorate da petali di passato,
mentre la stanza muove
verso l’urlo verde
di primavere nascoste,
di albe tagliate con lame d’oro: –

mappe lucenti della resa
che piega la bocca
per fulminazione di bave,
ossidi alcolici
dalla combustione dolente
di una più conoscibile morte

*

sguardi ermetici
d’inquisitore che osserva
in uno specchio d’acqua
il suo corpo rivelarsi
nel piatto vuoto, in alto,
di una bilancia abbagliata
di presenze –
materia organica
sotto la lente cognitiva
di un dolore cristallino,
in equilibrio instabile
tra domande che lacerano
la voce, gli accenti,
il furore che si acquieta
di condanne: –

la lampada è colma,
l’olio cola incoffessabili
desideri di pelle
e nell’inguine si rapprende
in estasi di vetro –
chiose trasparenti
a protezione della fiamma
che vacilla, cade,
illumina di notti la sua notte

*

chiare epoche
deposte in libri sacri di sapere,
trascurabili ombre
nello specchio migrante delle sabbie,
lampade discrete di apparenze
al cui riverbero tacciono
attese non ancora scritte,
esorcizzati dolori
di tempi compiuti
per inevitabile moto di ferite,
squarci dal labbro all’occhio,
dalla pupilla alla parola,
pagati in anticipi di futuro
capovolto –

dimore segrete
dove si nomina il giorno
per signoria monotona di lampi,
di istanti mai accaduti
e già piegati, sfatti,
prima che un grido di candela
li disperda – luce che sa
la voce senza durata,
immobile del buio

*

le forme fluviali del sonno
cantano l’ora necessaria
che definisce l’erba sullo stelo,
l’ora in fiamme
che accende analogie di segni
nel sacrario irregolare,
svuotato di presenze,
di idoli illustrati
su ritagli di memoria –
tra parole forzate
in geometriche regole
di abuso, una musica
ricavata dagli arbusti
che vigilano rovine
e segmenti incrociati di sguardi
sul limite di identiche
metafore: –

per questo, forse, è un vento,
un fremito di carta,
un respirare
in densi inchiostri d’aria,
il mare che insiste di risacche
sui bastioni, e frana,
tastandola di luce,
la pietra scritta in solchi
sradicati alla sua voce

L’immagine che illustra questo testo è di Davide Racca