Misero e impotente Socrate. Sul Pasolini “corsaro” e “luterano”

di in: Inattualità

Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche Malaparte”.
Fortini, 1968

“Si ha l’impressione che di Pasolini ce ne siano troppi, e da tutte le parti”.
Manganelli, 1979

“Di lucciole ce ne sono fin troppe!”
Sanguineti, 1995

“Aveva torto e non avevo ragione”.
Fortini, 1993

L’Italia si raccoglie, in questi giorni, a celebrare il suo Autore. A trent’anni da una morte che – vittima sacrificale di isteria collettiva, freddo complotto stragista o inopinatamente riuscito suicidio per procura – resta il suo ultimo, estremo capolavoro. (Qualcuno sarebbe pronto a sostenere che sia stata, quella morte, anche il suo unico, vero e compiuto capolavoro. È stato lo stesso Pasolini a scrivere – nel suo saggio più geniale, Osservazioni sul piano-sequenza, suoi i corsivi – che «finché siamo vivi, manchiamo di senso», per cui «La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita» e «Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci».).

Il paradosso principe, relativo a questo gran maestro del paradosso (arma retorica eccezionale ma costitutivamente a doppio taglio), è che sempre più, col passare del tempo e l’allontanarsi fisico del suo carisma, lettori avversari (il che è ovvio), neutri (che è già meno ovvio) o addirittura seguaci e cultori (che è assolutamente strano e, credo, abbastanza unico) facciano tra loro a gara a indicare i limiti delle opere, di quest’autore. Leggo per esempio, ad apertura dell’ultima e più ponderosa delle monografie pasoliniane, quella del giovane Antonio Tricomi, che stiamo parlando di un «poeta senza la grazia quasi naturalmente incline al classicismo di un Sereni; narratore incapace della grandezza espressionistica di un Volponi […]; saggista istintivo e ossessivo, e dunque privo del nitore (tuttavia spesso algido) e della precisione […] di un Calvino».

Ed ecco Alfonso Berardinelli: «in definitiva se dovessi scegliere fra i poemetti delle Ceneri di Gramsci e gli articoli di Lettere luterane e Descrizioni di descrizioni non avrei dubbi a favore di questi ultimi. I famosi e proverbiali poemetti pasoliniani degli anni Cinquanta oggi si leggono con fatica e disagio, peccano di patetismo e di retorica. Sono preoccupati di portare la poesia al livello della prosa argomentativa e del monologo teatrale. Ma il risultato è nello stesso tempo impressionante e insoddisfacente».

Ma ecco addirittura il Curatore che all’Autore ha eretto il monumento in dieci Meridiani che fa di Pasolini l’unico scrittore italiano (di tutti i tempi) che nella collana ammiraglia della nostra editoria sia rappresentato con gli Opera omnia, ma proprio omnia: cioè Walter Siti. Il quale ha scritto nell’antiporta stessa, di questo monumento, una frase estremamente vera: «Pasolini ha scritto molti brutti versi – ma ci ha dato anche, credo, almeno in Trasumanar, il ritratto vivo e intenso d’una poesia che desidera essere brutta, per impulso suicida e per lucidità di fronte ai mutamenti». Per poi definirlo, nell’altro testo liminare del monumento, «lo scrittore dell’imperfezione»: affetto da «inconcepibile pressapochismo», «fretta», «cialtroneria», «bulimia intellettuale», «disinvoltura (o a dir meglio […] sfacciata improntitudine) culturale», eccetera eccetera.

Ma lo stesso Siti ci dà la chiave di quella che insomma, tutto ciò malgrado, sarebbe la grandezza di Pasolini nel nostro secondo Novecento. Essa si manifesterebbe malgrado le sue opere: «la vera “opera” di Pasolini è l’insieme delle sue opere, dai cui interstizi figurali traspare il volto stesso dell’autore». I singoli testi sono per Siti «opere transtestuali»: tali cioè da completarsi a vicenda e che, sebbene scritte e pubblicate separatamente, «devono essere lette insieme». Parla chiaro la suddivisione (nient’affatto rigorosamente tematica) da parte di Pasolini, del tumultuante materiale dei suoi tre ultimi anni di lavoro giornalistico, fra Scritti corsari (pubblicato nel ’75, vivente l’autore), il “semipostumo” Lettere luterane (èdito nel ’76 ma licenziato dall’autore) e il postumo, a tutti gli effetti, Descrizioni di descrizioni (èdito nel ’79 riordinando una cartella pure lasciata dall’autore). E non è poi un caso che l’opus magnum di questa stagione, Petrolio, fosse progettato per restare in stato di semilavorato scartafaccio. (Giungendoci dunque doppiamente incompiuto, intenzionalmente e non: parte non ultima del suo fascino si deve a questa condizione – ancora una volta – unica.).

Ma anche in altro senso l’ultimo Pasolini si presenta incompiuto. Berardinelli ha sottolineato come (dopo una lunga stagione di processi reali) principale mossa retorica di Pasolini, nell’ultimo periodo, fosse quella di presentarsi come perseguitato, processato, vittima sacrificale: «Attirarsi accuse e difendersi dalle accuse, giustificarsi di fronte alla legge, mettere in discussione i fondamenti della legge positiva […] La condizione di imputato era ormai forse il movente più forte della sua opera. La sua maschera letteraria, la sua scrittura, si era fissata una volta per tutte: confessione pubblica, difesa e accusa». Naturalissima e “parlante”, dunque, la scelta delle due predilette maschere proiettive di Socrate e di Cristo.
Alla condizione di imputato fa certo pensare il tono del Pasolini giornalista degli ultimi anni, in particolare sul «Corriere della Sera»: per antonomasia organo di quella stessa borghesia così spesso eletta a idolo polemico da chi inopinatamente, il 7 gennaio 1973, prende a scrivere sulle sue colonne. Si estremizza, qui, il carattere di «intertesti» delle scritture pasoliniane: «performances linguistiche dal valore anzitutto pratico, che cioè chiedevano ai destinatari di essere tradotte in azioni tese a modificare la società» (Tricomi). L’opera si prospetta come “da farsi”, dunque, non solo per la materiale incompiutezza: ma, costitutivamente, in virtù del suo continuo appellarsi alla cooperazione del lettore. Questo lettore va provocato sino allo stremo: perché la sua reazione è parte integrante dell’opera che lo scritto di Pasolini, più che costituire, innesca. Alla reazione dei suoi lettori, a sua volta, reagisce l’autore; il quale concepisce molti degli articoli di questa stagione come repliche: tali letteralmente – rispondendo cioè a interventi che, sullo stesso Corriere o altrove, sono stati da lui, appunto, provocati – oppure in senso lato, ossia rispondendo colpo su colpo ai mille stimoli che il costume contemporaneo offre allo sguardo del commentatore, del moralista, del corsaro insomma.

 

*

Uno scandaloso rimpianto

L’ultimo (e probabilmente maggiore) libro di versi di Pasolini, La nuova gioventù, si conclude con un dittico di testi lunghi, uno in italiano e l’altro in dialetto. Versi sottili come righe di pioggia mette subito in scena l’Io perseguitato, da condannare / severamente:

Bisogna condannare
severamente chi
creda nei buoni sentimenti
e nell’innocenza.

Bisogna condannare
altrettanto severamente chi
ami il sottoproletariato
privo di coscienza di classe.

Bisogna condannare
con la massima severità
chi ascolti in sé e esprima
i sentimenti oscuri e scandalosi.

Queste parole di condanna
hanno cominciato a risuonare
nel cuore degli Anni Cinquanta
e hanno continuato fino a oggi.

Frattanto l’innocenza,
che effettivamente c’era,
ha cominciato a perdersi
in corruzioni, abiure e nevrosi. […]

Naturalmente, chi condannava
non si è accorto di tutto ciò:
egli continua a ridere dell’innocenza,
a disinteressarsi del sottoproletariato […]

è felice del progressismo […]

È felice del laicismo
per cui è più che naturale
che i poveri abbiano casa
macchina e tutto il resto.

È felice della razionalità
che gli fa praticare un antifascismo
gratificante ed eletto,
e soprattutto molto popolare.

Che tutto questo sia banale
non gli passa neanche per la testa:
infatti, che sia così o che non sia così,
a lui non viene in tasca niente.

Parla, qui, un misero e impotente Socrate
che sa pensare e non filosofare,
il quale ha tuttavia l’orgoglio
non solo d’essere intenditore

(il più esposto e negletto)
dei cambiamenti storici, ma anche
di esserne direttamente
e disperatamente interessato”.

Ed ecco Saluto e augurio, col quale il libro – e con esso la scrittura poetica del suo autore – termina:

A è quasi sigùr che chista
a è la me ultima poesia par furlan;
e i vuèj parlàighi a un fassista
prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn. […]

«Ven cà, ven cà, Fedro.
Scolta. I vuèj fati un discors
ch’al somèa a un testamìnt.
Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns

su di te: jo sai ben, i lu sai,
ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu,
un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir:
ma encia si ti sos un muàrt, ti parlerài. […]

Difìnt i ciamps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
il vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat

tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja. […]

Difìnt, conserva, prea! La Repùblica
a è drenti, tal cuàrp da la mari […]

Tu difìnt, conserva, prea:
ma ama i puòrs: ama la so diversitàt […]

Ama il soreli di sitàt e la miseria
dai laris; ama la ciar da la mama tal fì.

Drenti dal nustri mond, dis
di no essi borghèis, ma un sant
o un soldàt: un sant sensa ignoransa,
un soldàt sensa violensa.

Puarta cun mans di sant o soldàt
l’intimitàt cu ’l Re, Destra divina
ch’à è drent di nu, tal siùn. […]

Ciàpiti tu chist pèis, fantàt ch’i ti mi odiis:
puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo i ciaminarai
lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri

la vita, la zoventùt.»

(È quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia in friulano: e voglio parlare a un fascista, prima che io, o lui, siamo troppo lontani. […]

«Vieni qua, vieni qua, Fedro. Ascolta. Voglio farti un discorso che sembra un testamento. Ma ricordati, io non mi faccio illusioni

su di te: io so, io so bene che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò. […]

Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie, abbandonate. Difendi il prato

tra l’ultima casa del paese e la roggia. […]

Difendi, conserva, prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre. […]

Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. […]

Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio.

Dentro il nostro mondo, di’ di non esser borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, un soldato senza violenza.

Porta  con mani di santo o soldato l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno. […]

Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo sempre

la vita, la gioventù.»)

Davvero l’ultimo Pasolini si deve leggere tutto insieme. Qui, intanto, seguendo la successione fra la proiezione di sé quale misero e impotente Socrate e l’allocuzione a un Fedro. Ma soprattutto questi due testi (e più in generale la sezione esplicitaria della Nuova Gioventù, «Tetro entusiasmo») sono la chiave di tutta la scrittura “corsara” e “luterana”. Acquista infatti un senso molto diverso, dopo aver letto questi versi, rileggere uno dei più celebri – diciamo pure famigerati – “pezzi” di Scritti corsari, quello che il 9 giugno 1973 prende spunto dalla pubblicazione di Un po’ di febbre di Sandro Penna:

Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata […] La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. […] Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa – e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione – è nato uno scandaloso rimpianto: quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra”.

Pasolini sapeva bene che questo rimpianto – anche per i toni addirittura estatici, abbandonati che ostenta – non poteva che essere scandaloso. Voleva ardentemente che lo fosse. E lo fu. Tra i primi a reagire fu Edoardo Sanguineti, il 27 dicembre dello stesso anno:

Com’era verde, però, la nostra valle! Com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale venivano su come tante querce. E che bella razza che erano, per forza, con i debolucci e i denutritelli che si autoeliminavano in culla […] Certo che ha ragione il P.P.P., «che Paese meraviglioso che era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo!» […] è proprio il P.P.P. che ce li ha guastati, a colpi di Decameron e di Canterbury, facendone dei «miseri erotomani nevrotici», quando stavano così bene prima, con il Mistero del Sesso represso bene, e represso «con la gioia» […] E io allora gli dico, ai sottoproletari di qui, di adesso, ma sul serio: quello che non vi hanno fatto gli Almirantini, stateci un po’ attenti, che ve lo stanno preparando i Pasolini”.

E non è un caso che, a distanza di vent’anni e più, due altri protagonisti – da Pasolini certo meno distanti di Sanguineti – ricordino proprio quest’aspetto. Differente il loro giudizio sul personaggio ma simile il moto appunto di scandalo, all’inizio, che si argomenta si complica e quasi si capovolge, poi. Nel ventennale della morte di Pasolini ha scritto Elio Pagliarani:

La rabbia che mi facevi con l’esempio dei contadini friulani
che stavano meglio prima, negli anni Trenta/Quaranta
l’angoscia della tua voce
incrinata spezzata da un vento gelido di morte che mi pareva a effetto, e pensai
«perché mi parli dell’India con toni così drammatici e agitati, quando non
c’è pubblico» – in piazza del Popolo, semideserta, quando mi raccontavi del tuo
(primo?) viaggio in India, con toni drammatici e agitati

potrò perdonarti di aver detto la verità, che questo benessere è una rovina
che tu avevi prevista, che l’uomo più sta bene più è egoista
potrò mai perdonarmi
che quel grido quel vento altro che a effetto, altro che artificiale
erano le tue stimmate
era nelle tue viscere
ti era consubstanziale.

(Solo dopo aver trascritto epigrammi da Savonarola
La carne è un abisso che tira in mille modi.
Così intendi della libidine dello Stato /
mi resi contoche dialogavo ancora con te).

E Giovanni Raboni, nel suo ultimo Barlumi di storia:

Ricordo troppe cose dell’Italia.
Ricordo Pasolini
quando parlava di quant’era bella
ai tempi del fascismo.
Cercavo di capirlo, e qualche volta
(impazzava, ricordo,
il devastante ballo del miracolo)
mi è sembrato persino di riuscirci.
In fondo, io che ero più giovane
d’una decina d’anni,
avrei provato qualcosa di simile
tornando dopo anni
sui devastati luoghi del delitto
per la Spagna del ’51, forse
per la Russia di Brenev…
Ma ricordo anche lo sgomento,
l’amarezza, il disgusto
nella voce di Paolo Volponi
appena si seppero i risultati
delle elezioni del ’94.
Era molto malato,
sapeva di averne ancora per poco
e di lì a poco, infatti, se n’è andato.
Di Paolo sono stato molto amico,
di Pasolini molto meno,
ma il punto non è questo. Il punto
è che è tanto più facile
immaginare d’essere felici
all’ombra d’un potere ripugnante
che pensare di doverci morire.

In questo Raboni si sbagliava. La fascinazione di Pasolini per la Destra divina non era solo legata alla sua onnipresente nostalgia per l’Eden rurale pre-moderno. Come ci mostra La nuova gioventù, al giovane fassista sono sì quei valori che Pasolini tramanda e raccomanda (i ciamps, il prat, l’intimitàt cu ’l Re – ossia appunto quella che nell’articolo “su Penna” definisce l’intensità e l’umile volontà di vita dei sottomessi ragazzi di campagna: contrapposta all’ansia di ribellione e appropriazione dei detestati giovani del Sessantotto, piccolo-borghesi banalmente laici e antifascisti). Ma non per il passato: per il futuro. Il suo è un discors / ch’al somèa a un testamìnt, dunque l’immagine di sé del finale (jo i ciaminarai / lizèir ecc.) vale come ennesima prefigurazione della propria morte. Se così stanno le cose, nel consegnare idealmente al fassista l’Italia, l’antica e umile Italia, Pasolini pensa precisamente che in questa prospettiva ci dovrà morire. Ed è una prospettiva che accetta con lietezza: lizèir appunto. Dice Tricomi che «era inevitabile che Pasolini affidasse in eredità le sue opere a un fascista»: perché «tutti i suoi ultimi testi […] sono violenti atti di accusa contro una sinistra» che ha consegnato alla destra «la tutela, o anche solo l’esplorazione, di discorsi e valori che gli uomini continuano a sentire attuali».
Sono questi discorsi e valori, appunto, i temi scandalosi del Pasolini “corsaro” e “luterano”. Col nuovo anno 1975, che per lui sarà l’ultimo, Pasolini – forse per la prima volta da quando è adulto – smette di scrivere versi e spalanca il suo laboratorio sulla più “pubblica” delle sedi: la prima pagina del «Corriere».

 

Una questione privata

Su questo (in tutti i sensi) “estremo” Pasolini vigono due tabù. Il primo tace la sua continua sovrapposizione di propositi pubblici e ossessioni private. Solo di recente Marco Belpoliti ha sottolineatocome «nella vulgata che è stata fatta del Pasolini corsaro, critico rispetto alla società dei consumi, rispetto alla distruzione delle lingue locali, rispetto alla mutazione antropologica, rispetto alla distruzione del paesaggio e della cultura tradizionale dell’Italia, si è quasi sempre sorvolato sul tema dell’omosessualità e sull’elemento estetico. In realtà il centro della sua argomentazione è proprio qui». Tanto per essere chiari, quando Pasolini dice che i ragazzi sono diventati brutti non usa solo una metafora.

La collaborazione al «Corriere» comincia con uno degli articoli più celebri, Contro i capelli lunghi, che inaugura anche Scritti corsari. Marco Bazzocchi ha mostrato come quella dei capelli corti sulla nuca sia una ricorrente ossessione figurativa, sin dai più antichi scritti di Pasolini: connotato erotizzante primo, per lui, della corporeità dei ragazzi. Quello infatti che, all’inizio della Seconda forma della Nuova gioventù, introduce il zòvin al quale jo i ghi regali / chistu libri: «Se duciu i zòvins / comunis’c a si tajàssin / i ciavièj, ghi colarès / la mascara ai zòvins fassis’c» (“Se tutti i giovani comunisti si tagliassero i capelli, cadrebbe la maschera ai giovani fascisti”). Anche il tema dell’indistinguibilità fra Destra e Sinistra ha insomma un movente primo privato. È, soprattutto, un’ossessione erotica.

La nuova gioventù non solo lo ammette: lo grida. Il misero e impotente Socrate, infatti, non è solo intenditore (in quanto a essi esposto e insieme da essi negletto) dei cambiamenti storici: ma ha la maledizione (e dunque l’orgoglio) di esserne direttamente / e disperatamente interessato. Ma Pasolini non manca di segnalare tale condizione – appunto con orgoglio – anche nel repertorio “corsaro”, specie alla climax di tragica urgenza rappresentata dalle Lettere luterane: «Il lettore mi perdoni se parto “giornalisticamente” da una situazione esistenziale. Mi sarebbe difficile farne a meno»; «mio radicale rovesciamento di giudizio sul sottoproletariato (cosa che implica per me una tragedia personale)»; «la mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale – che oppongo ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalistici e dei politici che non vivono queste cose»; e, in forma di preterizione: «non esibirò a questo punto la mia patente di intenditore in concreto: patente ottenuta attraverso il mio modo di esistenza» – per poi però esibirla eccome, e ribadire: «Premesso tutto questo (privato e perciò concreto)».

Non è un caso che nel testo nel quale più in profondità venga svolto un discorso sull’omosessualità (la recensione al libro di Marc Daniel e André Baudry, Gli omosessuali), appaia proprio la coppia Socrate-Fedro sulla quale, s’è visto, di lì a poco si concluderà La nuova gioventù: «il libertinaggio non esclude affatto la vocazione pedagogica. Socrate era libertino: da Liside a Fedro, i suoi amori per i ragazzi son stati innumerevoli. Anzi, chi ama i ragazzi, non può che amare tutti i ragazzi (ed è questa, appunto, la ragione della sua vocazione pedagogica)». È quanto più si avvicini all’esplicitazione del cortocircuito privato sotteso alla polemica pubblica di Pasolini. E non è un caso che le Lettere luterane si aprano col trattatello pedagogico per Gennariello.

Il privato di Pasolini non è neppure genericamente comunitario, seppur in forma particolaristica (quella da lui non a caso a più riprese rivendicata), relativo cioè ai diritti degli omosessuali in generale. È privato, invece, in senso stretto: strettamente personale. Quando leggiamo certi passaggi di pura stizza anti-eterosessuale («Tutte quelle sciocche coppie che se ne andavano tenendosi all’infinito strette per mano, con aria di vicendevole, romantica protezione e ispirata certezza del domani»), non siamo solo indotti – dal suo stesso ampliamento concettuale della categoria – a considerarle forme di razzismo sessuale (della specie, cioè, che lo spinge a definire razze borghesia e sottoproletariato; scagliando, contro coloro che lui stesso ha definito razzisti, una frase di struttura didascalicamente razzista: «Tutti i borghesi sono infatti razzisti, sempre, in qualsiasi luogo, a qualsiasi partito essi appartengano»). Ma, scavando un po’ nei retroscena, capiamo come siano appunto interessi privati di Pasolini a guidarlo nelle sue prese di posizione pubbliche. Quelle cioè presentate come interessanti – se non a tutti gli effetti valide – per tutti noi.

In una lettera dell’agosto 1971 Pasolini confessa a Paolo Volponi di essere «quasi pazzo di dolore»:

Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui.

Dove bisognerà notare, anzitutto, l’apparire di un modulo concettuale (il desengaño che stinge anche retrospettivamente, su un passato creduto felice, i propri colori luttuosi) destinato a tornare, appunto, negli scritti pubblici – cioè in una delle più celebri lettere luterane, quella uscita appena postuma col titolo Abiura dalla «Trilogia della vita» («oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato»).

Ma lo squarcio sul privato pasoliniano ci dice ben altro. Specie se dopo questa lettera ne leggiamo un’altra, non datata ma da attribuire allo stesso ’71, emersa solo due anni fa. Non indirizzata direttamente a Davoli, bensì alla fidanzata Patrizia:

Cara Patrizia,
io non ti conosco se non di vista, non so bene com’è il tuo carattere, se puoi capire o non capire certe cose. Ma forse sai che la mia amicizia per Ninetto è più di un’amicizia: non è amore nel senso volgare di questa parola, il sesso non c’entra. Per Ninetto io provo solo un grande affetto, un immenso affetto, che ha sostituito addirittura quello per mia madre. Ninetto ormai costituisce la mia vita, che senza di lui mi è diventata inconcepibile. Tu sai che chi ama è egoista, e vorrebbe tutta per sé la persona amata. E così io con Ninetto: lo amo, e perciò lo vorrei tutto per me, com’è sempre stato in questi otto anni che ci conosciamo. Pensare che lui stia con un’altra persona, che dedichi a lei i suoi sentimenti e il suo tempo, mi fa soffrire in modo che non ti so descrivere: mi fa soffrire fino a desiderare di morire. Io voglio che tu sappia questo, e che tu lo sappia chiaramente. […] Tu sai che mia madre ha ottant’anni: fra un po’ sarò solo al mondo. Io muoio al pensiero che Ninetto non sia più il mio Ninetto. Ma naturalmente non posso chiedergli di lasciarti, sarebbe disumano da parte mia, e anche inutile. Come non chiedo a te di lasciare lui: io non posso farlo. Ma siccome questa è una vera tragedia, e tu ci sei coinvolta, è bene che tu sappia tutto.

Ma ecco il velen dell’argomento (si ricordi l’altra a Volponi: Ninetto è «disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei») (corsivi miei):

Quando ci saremo lasciati, cosa farà Ninetto? Te lo sei mai chiesta? Bisogna che tu ti faccia questa domanda. Sarebbe immorale che io vi mantenessi. Io potrò sempre aiutare la famiglia di Ninetto, che non abbandonerò mai, sarebbe troppo vile da parte mia. Ma una volta che Ninetto mi abbia lasciato, e stia con te e ti sposi, non mi si potrebbe proprio chiedere di fare per lui quello che faccio ora […] Allora lui dovrebbe cominciare tutta una nuova esistenza, a cui, per colpa mia, non è più abituato; dovrebbe lavorare, e accontentarsi della semplice vita di chi fa un umile lavoro. Sarebbe capace Ninetto di questo? Io credo di no, e non perché sia un cattivo ragazzo, ma perché ormai chiunque al suo posto farebbe così. Io credo che per reazione Ninetto farebbe delle sciocchezze, e forse, perché anche lui sarebbe disperato, farebbe anche delle «sciocchezze» abbastanza gravi […] Perché se Ninetto lascerà me per te, poi non te lo perdonerà mai, e te lo rimprovererà per tutta la vita; e così se lascerà te per tornare da me, finirà col portarmi rancore per averti perduta. Non so più cosa dire, non so più cosa fare. Senza tua colpa, sei stata la mia rovina, e senza tua colpa, sarai forse la rovina di Ninetto. Speriamo che non sia così… Tuo Paolo.

Il Pasolini pubblico adotta armi retoriche tali che Berardinelli ha potuto dire, metaforicamente, che egli «ci disarma e ci ricatta». Ma nel suo privato, evidentemente, l’arma del ricatto era tutt’altro che metaforica.

In considerazione della tragedia personale che aveva appena vissuto acquistano senso assai diverso le considerazioni di Pasolini sul divorzio, in occasione del referendum del ’74: laddove si schiera a favore della legge Fortuna-Baslini (la quale se non altro concede a Ninetto di tornare sui suoi passi…) ma non rinuncia a indicare nell’abbandono popolare dei precetti cattolici un principio edonistico: e dunque «per qualcosa di peggio della religione, indubbiamente». Ma a cambiare “tono”, soprattutto, sono quelle ben più nette (e note) sull’aborto. Quello che è in assoluto il più scandaloso degli Scritti corsari, Sono contro l’aborto appunto, esce sul «Corriere della Sera» il 19 gennaio 1975.

La «lotta per la legalizzazione dell’aborto» poggia su princìpi «non reali»: Pasolini se ne dice convinto «per una serie caotica, tumultuosa e emozionante di ragioni». È una delle rare volte in cui l’autore denunci il proprio stile retorico: che accumula a pioggia – in una sorta di asindeto concettualeuna serie caotica, tumultuosa ed emozionante di argomenti tali da contraddirsi l’un l’altro nel giro di poche righe. Coloro che polemizzano con lui, anche per i limiti di spazio loro concessi, riescono magari a smontare uno di questi argomenti: ma replicando Pasolini ha buon gioco a far notare come l’antagonista perda di vista «l’Insieme» per accanirsi sul singolo anello che, nella catena argomentativa, non tiene.

E invece occorre proprio smontare Pasolini: rallentare il suo furor pindarico; focalizzare un punto, decisivo. È contro l’aborto perché esso è «una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli». E questa libertà è voluta, si capisce, «dal potere dei consumi» ossìa «dal nuovo fascismo». L’aborto è l’arma definitiva che renderà il «piccolo patto criminale» della coppia eterosessuale una «condizione parossistica». Non si fatica a vedere a questo punto, dietro la proiezione simbolica della coppia o coppietta (come sprezzante la ribattezza), una specifica coppia eterosessuale: quella a lui particolarmente sgradita.

Furono in pochi all’epoca, fra coloro che da sinistra gli replicarono sul «Corriere»e altrove, ad avere il coraggio di chiamare in causa la dimensione omosessuale – diciamo pure l’ideologia omosessuale – a proposito dello scritto di Pasolini. Autocensura probabilmente dovuta alla furente insultistica fascista o fascistoide che accompagnava, almeno dai primi anni Sessanta, ogni uscita pubblica di Pasolini: e che non mancava mai di fare becere allusioni, appunto, alla sua condotta sessuale. Non si poteva considerare propriamente di sinistra Goffredo Parise, che non amava affatto Pasolini pur condividendone molti presupposti; per la medesima testata scrisse un articolo intitolato Aborto e omosessualità ma probabilmente scelse di non inviarlo al giornale (in ogni caso non venne mai pubblicato). Annota Parise che sino all’intervento di Pasolini l’omosessualità «è stata lasciata in disparte nel suo peso […] politico», mentre essa si configura ormai come «terza forza sessuale, per così dire terza forza biologica». Proprio in nome della biologia conclude Parise, schierandosi a sua volta contro la legalizzazione dell’aborto: «non per le motivazioni di Pasolini, né per quelle della Chiesa cattolica […], quanto per un viscerale e ogni giorno commosso abbandono alla forza delle cose, alla forza della vita».Non poteva essere però Parise, irrazionalista in servizio permanente effettivo, a fungere da effettivo disinnescante del razionalismo perverso – indistricabile commistione di andamento raziocinante, persino sillogistico, e salti analogico-paradossali – che è il marchio di fabbrica del Pasolini intellettuale. Poteva riuscirci invece un altro razionalista perverso – che la razionalità classica perverte, però, in direzione opposta a quella perseguìta da Pasolini: Giorgio Manganelli. Il quale infatti interviene dopo appena tre giorni, il 22 gennaio, sempre sul «Corriere», con un articolo intitolato Risposta a Pasolini:

Da qualche tempo mi accade di leggere le prose teoretiche di Pier Paolo Pasolini con una sorta di devozionale raccapriccio; non oserò dire che scrive male, tenuto conto anche della media nazionale, ma che scrive, all’incirca, come un sociologo che, dopo passionali e discontinui studi giuridici, abbia scoperto e incautamente amato una letteratura, degli autori non indiscriminatamente consigliabili, tanto per fare un esempio, Giovanni Papini, Luigi Russo e l’ultimo Pier Paolo Pasolini. Mi rendo conto di esser caduto in un errore di logica, ma di un genere così squisitamente pasoliniano, da non trovar cuore per emendarlo. […] Il problema dell’aborto, ovviamente, pone in primo luogo il tema della mamma; Pasolini afferma di vivere «nei sogni e nel comportamento quotidiano» la sua vita prenatale, quella che egli chiama «la mia felice immersione nelle acque materne». Sarà, ma la mia memoria amniotica è piuttosto corta; che allora fossi felice, chissà mai, senza nemmeno un libro da leggere; in ogni caso, molti, ed io di questi, se invece di essere partoriti fossero stati abortiti, non se ne sarebbero avuti a male.

Sono, questi, i consueti sali del Manganelli corsivista, sulfureo e sarcastico.A sua volta maestro riconosciuto nell’uso del paradosso, ha buon gioco a districarsi in quelli che chiama slalom (o, in clausola, dribbling) argomentativi di Pasolini; comprende sùbito il problema tecnico – retorico – di fermare la vorticosa macchina argomentativa di Pasolini: onde poterla contraddire punto per punto («Il lettore ha l’impressione di tentare l’autostop durante gli ultimi tre giri sulla pista di Indianapolis: estremamente frustrante»).

Come ha notato Berardinelli (che da parte sua di quest’arte è l’unico erede credibile), supremo artificio retorico di questo Pasolini è quello di mostrare come truismi – argomenti autoevidenti – quelli che al contrario sono, appunto, dei paradossi. La «semplicità contundente dell’argomentazione» fa sparire «ogni gioco di sfumature, di attenuazioni, di correzioni, incisi, luci e ombre»: talché, «in questi nuovi poemetti civili o incivili in prosa, tutto è disperatamente e rigoristicamente in piena luce». Ma questo descritto è, in realtà, mero effetto ottico, trompe-l’oeil retorico: s’è visto quanta parte del pasoliniano complesso di volizioni e intenzioni resti immerso, tutt’al contrario, nella più fonda oscurità. Manganelli capisce allora che a sua volta deve dismettere sofismi e sottigliezze e, come dice – con espressione davvero non sua –, stare sul terra terra. Cioè ricondurre il discorso, appunto, a una semplicità contundente (che oltretutto non manca neppure di far ricorso alla patente d’intenditore in concreto, cioè all’esempio personale):

Ora qualcuno potrebbe mettersi in testa che costringere una donna, che già deve varcare la soglia infera del trauma dell’aborto, a comportarsi come un animale braccato, a rischiare la vita, e infine ad essere dichiarata “delinquente” a nome del popolo italiano sia un comportamento abbastanza repressivo. Macché: come saviamente argomenta il Pasolini, la “maggioranza” vuole l’aborto, perché la coppia eterosessuale ha scoperto il coito consumistico, lo vive come dovere sociale della propria figura di consumatore. È del tutto evidente che Pasolini considera l’aborto come una attività psicologicamente distensiva, una faccenda da carosello. Essendo stati esentati dall’arbitrio della natura da codeste scelte, una tal quale prudenza non sarebbe di troppo. Diciamo, di indiretta scienza, che l’aborto non ha mai fatto ridere nessuno; alcuni anni fa, mi accadde di assistere ad un suicidio nell’Aniene di una domestica: incinta; quando ero insegnante, una mia allieva si gettò da un quarto piano: incinta; chissà quale illusione le aveva persuase di essere oggetto di una “brutale repressione”; forse una cultura che tratta da “puttana” la ragazza madre, che le porta via i figli per infilarli in quelle case di riposo per angeli che sono i nostri brefotrofi, che garantisce una vita di disprezzo, di frustrazione, di irrisione, non ha tutte le carte in regola per discutere della sacra vita.

Il giorno stesso nel quale esce questo pezzo di Manganelli, gli scrive Calvino:

Caro Giorgio, sento proprio il bisogno di scriverti per dirti quanto sono stato contento a leggere la tua risposta a PPP sul «Corriere» di oggi. Sei stato proprio bravo, hai trovato il tono giusto, e hai detto le cose più serie con una levità di mano miracolosa. Ecco qualcosa che non sarei mai riuscito a fare, quando ho letto quell’articolo domenica m’ero tanto arrabbiato che sentivo che non avrei mai potuto polemizzare senza scendere su un livello che avrebbe fatto il suo gioco, e mi sono detto: no, con Pasolini l’unica è fare come se non esistesse. Invece tu sei riuscito a dire quello che c’era da dire cominciando con l’humour e poi in un crescendo e pur sempre con la grinta necessaria.

È un fatto che Pasolini, a Manganelli, evita di rispondere.

 

 

La mia paradossalità non è che formale

Secondo e maggiore tabù, riguardo a questo Pasolini, è il prenderlo alla lettera. Chi lo fa, tra i suoi interlocutori, viene da lui stesso brutalmente ridicolizzato. Una volta Luigi Firpo, per esempio, è messo alla berlina per non aver colto una sua «evidente ironia». Inoltre, nei casi di maggior tensione retorica, Pasolini bada a presentare le proprie provocazioni – all’atto stesso di pronunciarle – come «umoristiche». Nella celebre lettera luterana Il Processo (24 agosto 1975) avverte: «l’immagine di Andreotti o Fanfani […] ammanettati tra i carabinieri, sia un’immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora. Al fine di rendere il mio discorso comico oltre che sublime (come ogni monologo!), e soprattutto didascalicamente molto più chiaro». Eppure sfido qualsiasi lettore di questa o delle altre Lettere a ricordarle per la loro comicità. (Specie ove si insista, com’è oggi persino topico, a leggere questo Pasolini in chiave “profetica”: col senno di poi, insomma, della detenzione e “processo” brigatisti ad Aldo Moro – o della stagione di Mani Pulite).

Se resiste una vulgata critica positiva, rispetto a un’opera pasoliniana, è proprio quella della radicale eteronomia, del valore pratico insomma, della sua produzione “corsara” e “luterana”. Chi ha formulato meglio detta vulgata è, al solito, Berardinelli: «lo stile, la forma sono un indice puntato verso qualcosa. Qui la letteratura è ben lontana dall’essere “uso autoreferenziale” del linguaggio: non è infatti indifferente al conflitto tra vero e falso, fra giusto e ingiusto, fra innocente e colpevole». Eppure Berardinelli, e con lui tanti altri lettori ammirati di questo repertorio, fanno esattamente il contrario di quanto da quest’assunto dovrebbe logicamente discendere (mutuando insieme allo stile, forse, anche un tipico modo di ragionare di Pasolini…): si limitano a ripetere – giustamente – che la polemica di Pasolini è servita a problematizzare dati concettuali che, nella modernità, apparivano automatizzati e ormai schematici (come appunto ciò che è davvero Sinistra e ciò che è davvero Destra: questione quanto mai attuale, in questi anni e settimane) ma evitano di fare il passo successivo: di affrontare, cioè, il problema di cosa – nel quantitativamente strepitoso ideario pasoliniano – sia vero e cosa falso, cosa giusto e cosa ingiusto. Se non, addirittura, cosa innocente e cosa colpevole.

Un tentativo isolato e coraggioso, in questa direzione, è un recente libro dell’economista Giulio Sapelli, che individua la chiave concettuale di Pasolini nella distinzione, anti-illuministica, fra Sviluppo e progresso (è il titolo di uno degli Scritti corsari, pubblicato direttamente nel volume del ’75 come sua chiave d’accesso;è qui che Pasolini ammette la propria distanza dal marxismo-leninismo classico: una delle sue parole d’ordine destinate a maggiore e più stucchevole fortuna postuma, quella del genocidio delle culture subalterne, deriva per esempio da un’intenzionale mislettura del Manifesto del Partito Comunista: nel quale Marx esprime un giudizio positivo sul fenomeno…). Sapelli ha un merito fondamentale: quello di entrare nel merito di ciascuna sua tesi senza peritarsi di distinguere fra vero e falso, fra giusto e sbagliato. E focalizza in particolare un’intuizione economica, non meno che geniale, di Pasolini: il quale è a suo giudizio il primo che abbia capito che «l’industrializzazione italiana è un processo che si compie attraverso l’espansione del consumo di beni privati piuttosto che di beni pubblici». L’industrializzazione non ha portato con sé «la creazione di infrastrutture, come scuole, ospedali, ferrovie», ma ha incoraggiato un affluire straripante di «beni di consumo immediati».

Il tormentone polemico dei blue jeans Jesus, che tappezzano le città italiane con lo slogan chi mi ama mi segua, è un esempio perfetto di questa sostituzione di un bene di consumo a un “valore” come quello incarnato, appunto, da “Gesù”. Ed è quanto mai significativo che la chiave della polemica pasoliniana sia – in una sorta di simmetria speculare rispetto ai suoi stessi nodi irrisolti – proprio la contestazione di un’indebita confusione tra pubblico e privato. Come spesso accade ai grandi moralisti l’innegabile acutezza clinica di Pasolini nell’indicare i mali della comunità deriva dal suo conoscere, quegli stessi mali, in modo personale: privato e perciò concreto.

Ma, al contrario di quanto faccia Sapelli, nella critica pasoliniana è divenuta pressoché normativa (come a sua volta autoevidente) un’indicazione di Berardinelli: «Le argomentazioni di Pasolini chiedono assenso o dissenso. I suoi ragionamenti si svolgono a partire da un dato passionale […] e quindi non possono essere razionalmente confutati». Indicazione che è, invece, perfettamente paradossale: come paradossale è questo quindi. Se Pasolini ci chiede assenso o dissenso – se questa è addirittura la sostanza stessa delle sue scritture estreme – non si vede perché egli non possa essere confutato. Ognuno, ovviamente, col proprio modo di pensare: passionale o razionale che sia.

Rispettarlo, al contrario, esige precisamente che, di volta in volta, si contrastino (o assecondino) le sue intenzioni. È lo stesso Pasolini a pretenderlo. Nelle repliche a interlocutori come Calvino o Moravia è evidente la sua soddisfazione per essere stato preso sul serio («Moravia mi onora delle sue illazioni») o la più urgente pretesa di esserlo (a Calvino: «tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia»). Non c’è, in questi scritti, nulla di ludico o giocoso (neppure di menippeo-grottesco come invece – traducendo in forma romanzesca o antiromanzesca questi stessi materiali – in Petrolio): Pasolini fa sul serio, tragicamente sul serio; e lo sa.

Siamo con ciò arrivati quasi al capolinea. All’ultima, e in certa misura quintessenziale, polemica pasoliniana: quella sul delitto del Circeo. È in quest’occasione che il meccanismo retorico del paradosso si autodenuncia: già col titolo, Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia. Le due modeste proposte – «1) Abolire immediatamente la scuola media d’obbligo, 2) Abolire immediatamente la televisione» – vengono presentate come paradossali all’atto stesso di enunciarle («Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere»); ma in effetti il riferimento diretto al contenuto della Modest Proposal del 1729, che in tono freddo e asettico, per risolvere il problema della sovrappopolazione e della fame in Irlanda, proponeva – come si ricorderà – di mangiare i bambini delle famiglie povere («Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione»), è l’unico passaggio che, nello scritto pasoliniano, possa destare un qualche accenno di sorriso.

La polemica sulla scuola dell’obbligo non era certo, all’altezza di quel 18 ottobre 1975, una novità. Nell’Abiura dalla «Trilogia della vita» si legge infatti che «la televisione, e forse ancora peggio la scuola d’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie»; mentre nella replica a Firpo del 9 settembre aveva asserito, reciso, che «solo un laicismo e un progressismo a buon mercato possono indurre a pensare che la scuola media d’obbligo così com’è hic et nunc in Italia non sia un crimine».

Due modeste proposte insomma, nelle intenzioni di Pasolini,non è in alcun modo (come lo definisce Sapelli) «uno scritto quasi dadaista». Non è vero che «le sue proposte non vanno intese come indicazioni politiche concrete». Non è solo «il segnale di una disperata riflessione». Non è una provocazione sofistica, non è una “contro-verità”, non è uno choc demistificante e liberatorio. Non è insomma, in alcun modo, un paradosso. È una dichiarazione d’intenti politica: una proposta fattiva, effettiva, concreta. All’assoluta serietà di chi fa questa proposta non osta in alcun modo che egli stesso sia perfettamente consapevole, com’è ovvio, della sua irrealizzabilità. Tutto il sistema, non solo retorico ma immaginativo e morale, di questo Pasolini – il suo Insieme – si regge sulla pretesa, da parte sua, di affermare delle verità che non solo si aspetta, ma in qualche modo esige non verranno accettate come tali. È emblematico del suo modo di intendere «questi miei maledetti articoli» la successiva risposta a Moravia (Le mie proposte su scuola e tv, 29 ottobre). Il quale quattro giorni dopo le Modeste proposte,il 22 ottobre sullo stesso «Corriere», aveva risposto E se abolissimo davvero la scuola media?: aveva cioè preso assolutamente sul serio Pasolini (nella fattispecie sostenendo che si dovrebbero conservare la scuola elementare e l’università, mentre la scuola media potrebbe essere sostituita con «un rapporto più diretto con la realtà della vita e del lavoro»; quanto alla televisione, si dovrebbe sopprimere la parte dedicata «allo svago e al passatempo» per farne un’istituzione «esclusivamente educatrice e divulgatrice»). Con malcelato divertimento per lo scomposto entusiasmo dell’amico (il mito dell’infallibile intelligenza moraviana è persino più duro a morire di quello dell’infallibile veridicità pasoliniana), Pasolini precisa (corsivi miei tranne il primo):

Intanto va detto che le mie «due modeste proposte» di abolizione intendevano chiaramente riferirsi a una abolizione provvisoria. Dicevo, per la precisione: «in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo – ed è questo il nodo della questione». In altre parole chiamavo in causa il Pci, le migliori forze di sinistra ecc., il cui interesse per una radicale riforma della scuola e della televisione non dovrebbe essere messo in dubbio: se è essenziale alla trasformazione dello «sviluppo». In attesa di una tale radicale riforma, sarebbe meglio abolire (lo so che è utopistico, ma ne sono lo stesso fermamente convinto) sia la scuola d’obbligo che la televisione: perché ogni giorno che passa è fatale sia per gli scolari che per i telespettatori… […] Infatti la mia proposta di «abolizione» – ancora una volta – non è che la metafora di una radicale riforma

Metafora? È una semplice metafora anche quella del 18 luglio precedente? Quando, a proposito di quello che di lì a poco battezzerà icasticamente Il Processo, Pasolini sostiene che essendo «l’Italia di oggi […] distrutta esattamente come l’Italia del 1945 […] come quelli del 1945 gli uomini di potere italiani […] sarebbero degni di un nuovo Piazzale Loreto»? È un discorso comico quello su Andreotti o Fanfani ammanettati? E allora perché si paragona il loro caso a quelli di Nixon negli USA e Papadopulos in Grecia, ribadendo che «una vera democrazia debba giungere alle estreme conseguenze sia pur formali, cioè al processo»? È un Processo metaforico o concreto, quello di cui si sta parlando?

È questo l’ultimo, il più potente strumento retorico del “corsaro”. L’asindeto concettuale è multanime, autocontraddittorio per una ragione precisa. Perché deve mettere assieme pezzi di ragionamento svolti in chiave paradossale con pezzi di ragionamento svolti in chiave seria. Quello di Pasolini è un paradosso, sì, ma – per così dire – di secondo grado. Un meta-paradosso: perché fonde inscindibilmente il ragionamento paradossale e il suo contrario speculare. Per questo è così difficile, e anzi in certo modo impossibile, contraddirlo: perché – a meno che non gli si ritorca contro un discorso uguale e contrario, sostanziato della stessa ancipite natura, come solo Manganelli è riuscito a fare – si andrà sempre a sbattere contro quella parte del ragionamento che segue una logica inversa alla parte che si contraddice. Se si analizza con rigore Due modeste proposte non si può che concludere che, se la forma retorica adottata è quella perfettamente paradossale à la Swift , la sostanza non lo è assolutamente. Non è affatto corrispondente all’antitesi della lettera, la sua intenzione: che è per l’appunto avversa alla scuola dell’obbligo e alla televisione (sia pure in misura meno radicale di quanto dica la lettera: è procedimento, dunque, piuttosto iperbolico che paradossale). E almeno una volta l’ha ammesso, Pasolini, con singolare limpidezza. In Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio: «la mia paradossalità non è che formale».

 

Con te e contro di te

«A dieci anni dalla sua morte, Pasolini è diventato un passaggio obbligato dell’immaginazione culturale italiana. Da alcuni viene considerato lo scrittore più importante, in Italia, degli ultimi tre o quattro decenni […] Nel linguaggio giornalistico le metafore con cui Pasolini sosteneva la sua requisitoria contro la classe politica e contro lo sviluppo sono diventate proverbiali: il Palazzo del Potere, la Scomparsa delle Lucciole, il Processo alla Democrazia cristiana. Metafore svuotate dall’abuso che, insieme all’omaggio e al riconoscimento postumo, hanno permesso anche un rapido esorcismo. Così l’incubo (quel vero e proprio incubo che era il Pasolini polemista) si è trasformato in un mito facilmente consumabile. E nell’oggetto di un culto ipocrita, doveroso, retorico. In realtà, basta rileggere qualcuno dei suoi ultimi articoli per capire che Pasolini non meritava di essere avvolto dopo la sua morte nell’ufficialità contrita che circonda il suo nome».

Eravamo negli anni Ottanta quando Alfonso Berardinelli scriveva queste parole. Tutte da condividere. Dopo di allora, periodicamente, l’infinita e infinitamente variegata schiera dei suoi orfani non ha mai mancato di “riscoprire”, “rivalutare”, “riaffermare” chi mai, a partire dal giorno seguente la sua orribile morte, è uscito dal centro esatto del nostro dibattito culturale, politico e letterario. Nonché dal centro del mediatico cicaleccio celebrativo-nostalgico-scandalistico. Quello che, un decennale dopo, anche un pasolinofilo fervente come Enzo Golino non ha potuto non definire «Premiato Pasolinificio s.p.a.». E che ora Franco Cordelli ha potuto definire «una marca, un logo»: proprio come i jeans Jesus.

Una voce decisamente fuori del coro del Pasolinifico s’è ascoltata un quinquennio dopo lo scritto di Golino (gli anniversari del 2 novembre 1975 hanno accelerato, col passar del tempo, la loro decorrenza; è alle viste, ormai, la celebrazione annuale): quella di un giovane poeta e critico italiano che lavora negli Stati Uniti, Alessandro Carrera. È uno sfogo da saturazione, il suo, non privo di accenti “pasolinianamente” estremi. Avendo assistito all’ennesima liturgia, il 2 novembre 2000 all’Istituto Italiano di Cultura di New York, Carrera si dice sbalordito dal «tentativo», da parte di Enzo Siciliano e dell’avvocato Guido Calvi, «di far quadrare l’eredità di Pasolini con un’Italia che oggi lo onora, ma nella quale non sappiamo se Pasolini si sarebbe riconosciuto». Si dovrebbe in effetti chiedere a Siciliano, già Presidente della RAI, se condivida le sue idee sulla televisione pubblica. O ai tanti scrittori che Pasolini venerano e hanno eletto a modello, e che spesso insistono a raccontarci storie sulla scuola dell’obbligo, se come lui pensino che essa vada abolita (sia pur “provvisoriamente”).

Cita Carrera, per fare solo un esempio dell’attuale assoluta e frontale irricevibilità del pensiero pasoliniano, uno scritto dell’11 luglio 1974 compreso in Scritti corsari:

Ciò che più impressiona camminando per una città dell’Unione Sovietica è l’uniformità della folla: non si nota mai alcuna differenza sostanziale tra i passanti, nel modo di vestire, nel modo di camminare, nel modo di essere seri, nel modo di sorridere, nel modo di gestire, insomma, nel modo di comportarsi. Il «sistema di segni» del linguaggio fisico-mimico, in una città russa, non ha varianti: esso è perfettamente identico in tutti. Qual è dunque la proposizione prima di questo linguaggio fisico-mimico? È la seguente: «Qui non c’è differenza di classe». Ed è una cosa meravigliosa. Malgrado tutti gli errori e le involuzioni, malgrado i delitti politici e i genocidi di Stalin (di cui è complice l’intero universo contadino russo), il fatto che il popolo abbia vinto nel ’17, una volta per sempre, la lotta di classe e abbia raggiunto l’uguaglianza dei cittadini, è qualcosa che dà un profondo, esaltante sentimento di allegria e di fiducia negli uomini. Il popolo si è infatti conquistato la libertà suprema: nessuno gliel’ha regalata. Se l’è conquistata. Oggi anche nelle città dell’Occidente – ma io voglio parlare soprattutto dell’Italia – camminando per le strade si è colpiti dall’uniformità della folla […] Ma mentre in Russia ciò è un fenomeno così positivo da riuscire esaltante, in Occidente esso è invece un fenomeno negativo da gettare in uno stato d’animo che rasenta il definitivo disgusto e la disperazione. La proposizione prima di tale linguaggio fisico-mimico è infatti la seguente: «Il Potere ha deciso che noi siamo tutti uguali».

«Si stenta a crederlo», commenta Carrera, «ma Pasolini sta proprio parlando della Russia di Breznev, del regime più asfissiante e “omologante” che mai mente di tiranno abbia potuto concepire» (e sì che, dopo il suo articolo e persino citandolo, un critico amico dello stesso Carrera ha avuto il coraggio, in un suo libro, di provare ad annettere Pasolini al liberalismo “terzista” più à la page, assimilandolo ad autori come Chiaromonte, Silone e Orwell). E conclude, Carrera: «Pasolini […] ipnotizza, incanta, fa credere che si possa ricavare qualche punto fermo dai suoi frenetici sermoni su comunismo e religione, su fascismo e democrazia, su progresso e regresso, sulla povertà e sulla ricchezza». Mentre «non abbiamo bisogno di essere d’accordo con qualunque cosa abbia farneticato (e ha farneticato molto) per ammirare la sua grandezza».

Forse è vero che la grandezza di Pasolini scrittore vada cercata proprio – oltre che nelle splendide poesie in friulano, in molti saggi folgoranti di Empirismo eretico e in ampie tormentose parti di Petrolio – nei suoi ultimi scritti giornalistici. A patto di leggerli come nuovi e straordinari poemetti in prosa: formalmente antitetici alla nobile tradizione del genere, ma non meno di essa impossibili da usare praticamente. Punteggiati da esplosive verità diagnostiche, è vero, sui mali che ci affliggono. Ma intessuti, pure, di un’incredibile mole di irricevibili assurdità: proposte con assoluta convinzione, invece, come cure – di quei mali – valide per tutti.

A vent’anni, in una lettera all’amico Luciano Serra, scriveva Pasolini che i poeti sono «gli unici grandi educatori dell’umanità»: e a questo ha continuato a credere, forse, per il resto della sua esistenza. Per parte mia non da oggi so bene che – pur ammirandoli, amandoli magari alla follia – non è davvero il caso di farsi educare, nonché da Pasolini, da poeti da lui a sua volta molto amati (e di lui infinitamente più grandi) come Dino Campana o Ezra Pound.

NOTA

Gli scritti di Pasolini vengono citati direttamente nel testo dall’edizione in dieci volumi diretta da Walter Siti per i Meridiani Mondadori: RR 1 e 2 = Romanzi e racconti, due tomi a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, 1998; SPS = Scritti sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, saggio introduttivo di Piergiorgio Bellocchio, 1999; P 1 e 2 = Tutte le poesie, due tomi a cura di Walter Siti, saggio introduttivo di Fernando Bandini, 2003. Gli altri volumi dell’edizione sono Saggi sulla letteratura e sull’arte, due tomi a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, saggio introduttivo di Cesare Segre, 1999; Per il cinema, due tomi a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, scritti introduttivi di Bernardo Bertolucci, Vincenzo Cerami e Mario Martone, 2001, e Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, interviste a Luca Ronconi e Stanislas Nordey, 2001. Empirismo eretico (che comprende fra l’altro Osservazioni sul piano sequenza, del ’67) venne originariamente èdito nel 1972 da Garzanti; La nuova gioventù uscì da Einaudi nel 1975; pure del ’75 è la prima edizione, da Garzanti, di Scritti corsari; del ’76 e del ’79, entrambe da Einaudi, quelle di Lettere luterane e Descrizioni di descrizioni (quest’ultimo poi ristampato da Garzanti). La lettera del ’42 a Luciano Serra è nell’edizione a cura di Nico Naldini delle Lettere 1940-1954, Torino, Einaudi, 1986, p. 128 (su di essa ha richiamato l’attenzione Piergiorgio Bellocchio introducendo a SPS: pp. XV-XVI); quella del’71 a Paolo Volponi è contenuta in Lettere 1955-1975, Torino, Einaudi, 1988, p. 707; quella s.d. alla fidanzata di Ninetto Davoli è stata pubblicata nelle Note e notizie sui testi relative alla raccolta inedita L’hobby del sonetto (1971-73): in P 2, pp. 1743-45.
Sono altresì citati Antonio Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio,Roma, Carocci, 2005; Alfonso Berardinelli, Pasolini e la classe dirigente italiana, introduzione a Lettere luterane, Torino, Einaudi 2003, pp. V-XIII; Walter Siti, Tracce scritte di un’opera vivente, in RR 1, pp. IX-XCII; Id., L’opera rimasta sola, in P 2, pp. 1897-946; Alfonso Berardinelli, Pasolini, stile e verità, in Id., Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri , 1990, pp. 149-69; Edoardo Sanguineti, La bisaccia del mendicante [1973], in Id. Giornalino 1973-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp. 51-4 (ma si veda pure l’intervista rilasciata a Paolo Di Stefano , Radicalismo e patologia, nella sezione dedicata a Pasolini di «MicroMega», 4, 1995, pp. 213-220); la poesia di Elio Pagliarani è uscita su «l’Espresso» il 22 ottobre 1995 (ed è compresa nel suo volume Tutte le poesie 1946-2005, di prossima pubblicazione presso Garzanti); quella di Giovanni Raboni in Id., Barlumi di storia, Milano, Mondadori, 2002; Marco Belpoliti , Pasolini corsaro e luterano, in «Nuovi argomenti», 21, gennaio-marzo 2003, pp. 140-61; Marco A. Bazzocchi, Capelli, in Id., Pier Paolo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori , 1999, pp. 67-8 (si veda poi, dello stesso autore, Parlano i capelli, in Id., Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, ivi 2005, pp. 1-33); Aborto e omosessualità di Goffredo Parise lo leggo citato in Marco Belpoliti , Settanta, Torino, Einaudi, 2001, pp. 80 sgg. (sulla sua ideologia biopoliticheggiante cfr. Domenico Scarpa , «In the blood, in the mood»: Parise tra Darwin e Montale, in Les illuminations d’un écrivain. Influences et recréations dans l’oeuvre de Goffredo Parise, a cura di Paolo Grossi, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2000); la Risposta a Pasolini di Giorgio Manganelli si potrà leggere integralmente, fra breve, nel numero monografico (il 25) che dedicherà a Manganelli la rivista «Riga» diretta da Marco Belpoliti ed Elio Grazioli ; la lettera di Italo Calvino a Manganelli del 22 gennaio 1975 è in Id., Lettere 1940- 1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 1262; il libro di Giulio Sapelli (in realtà appunti da un suo corso universitario), Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, è appena uscito: Milano, Bruno Mondadori , 2005; il saggio di Enzo Golino, Tra lucciole e Palazzo. Pasolini e Moro, è uscito su «MicroMega», 3, 1994 (ma cito dalla versione ampliata, dal titolo Al di là della poesia, in Id., Tra lucciole e Palazzo. Il mito Pasolini dentro la realtà, Palermo, Sellerio, 1995, pp. 15-72); esplicitamente o meno, sono infine citati Franco Cordelli , Un fantasma sfuggente ridotto ad una merce, «Corriere della Sera-Roma», 16 settembre 2005; Alessandro Carrera, Pro e contro Pasolini. Per farla finita con l’«umile Italia», in «Poesia», 145, dicembre 2000, pp. 73-6; Filippo La Porta, Pasolini. Uno gnostico innamorato della realtà, Firenze, Le Lettere, 2002.