Giocattolo, museo, vita, morte

Roberto Papetti è un giocattolaio che vive a Ravenna. Ha costruito, nel corso della sua vita, migliaia di giocattoli con cui ha intrattenuto e intrattiene bambini e adulti in manifestazioni in giro per paesi e città, scuole e centri per l’infanzia. In un libro pubblicato qualche mese fa, Tintinnabula (Artebambini, Bologna 2006), Papetti ripercorre le tappe della sua ricerca più che trentennale sui giochi e sui giocattoli, raccontando e illustrando con precisione le sue attività artigianali e presentando la sua creatura preferita: il GIOCATTOLO-MUSEO, o appunto “Tintinnabula”. “Tintinnabula” è il nome latino dei pupazzetti con le sonagliere, o delle sonagliere tout court, che si offrono, e si offrivano, agli infanti per stimolarne i sensi e la creatività, primi oggetti di gioco usati con tutto il corpo, con le mani e con la bocca. “Tintinnabula” è anche il nome scelto per quello che Papetti definisce un “luogo curiosamente ordinario”, il GIOCATTOLO-MUSEO dove “c’è un portone che si apre, ci sono scale, corridoi, stanze e laboratori totalmente occupati da giocattoli ‘ammucchiati’, come nelle stanze dei bambini di oggi. Questo infatti è il modello espositivo del nostro museo, il deposito dove i bambini crescono e gli oggetti usati e amati trasformano la stanza in un bazar archeologico… A prima vista sembra la caverna di Alì Babà piena di tesori, in realtà è un luogo che nasconde arcani da quattro soldi, una zucca pellegrina piena d’aria fritta e di lucciole”.

Il “Tintinnabula” è dunque un luogo dove sono esposti apposta per essere usati tutti i tipi di giocattoli che Papetti è riuscito a inventare e trovare, studiare e costruire, aggiustare, replicare in quasi tre decenni di lavoro presso il Centro sociale di Ravenna “La lucertola”. È innanzitutto un giocattolo, il “Tintinnabula”, a quanto scrive lo stesso Papetti, ma in più è anche un museo. Come è possibile? Un museo, infatti, è il luogo in cui per definizione non si può usare ciò che è esposto, si può solo contemplare quello che è inserito nel suo spazio sacro, deprivato di vita con i più diversi fini edificanti e morali: ecco allora il museo storico-estetico, il più comune e diffuso; quello demoscopico-antropologico; o quello ecologico (oggi molti luoghi sono dichiarati “patrimonio dell’umanità” e di fatto museificati). Ma con i giocattoli può funzionare l’idea del museo? Certo che sì; difatti esistono tantissimi musei del giocattolo. Ed è proprio qui che si è inserito Papetti con la sua attività e le sue riflessioni, per portare un po’ di sano scompiglio nell’ordine sacro del museo e per suggerire strade diverse per avvicinarsi alle cose e al passato, alla loro “infanzia” od origine.

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Papetti ha capovolto il meccanismo del museo, l’ha come smontato per cercarvi dentro l’anima, e ha scoperto che l’anima del museo non deve per forza consistere nella negazione dell’usabilità delle cose e nella loro morte o imbalsamazione. Papetti ci suggerisce che l’“infanzia” del museo è una specie di collezionismo vivo, dove gli oggetti messi assieme stanno assieme innanzitutto perché devono ancora essere usati – e, nella fattispecie, giocati – e soltanto in un secondo momento costituiscono una classe omogenea e ordinabile (in ogni caso, sempre mutevole e provvisoria, e mai troppo significante). Il GIOCATTOLO-MUSEO è un paradosso e una boutade al tempo stesso: perché regolarmente, a giocare con un museo, o con le cose che ci sono dentro, si finisce o in galera o al manicomio; e poi perché a museificare un giocattolo ci si rende semplicemente ridicoli, in quanto un giocattolo è fatto per essere usato sempre da nuovi giocatori e sempre in modi diversi – fino a che qualcuno non riesca ad arrivare al suo mistero più riposto, scassandolo o smontandolo.

Il GIOCATTOLO-MUSEO mi fa immaginare tutti i musei del mondo scassati o smontati dai loro visitatori. Quadri di Van Gogh smontati della cornice, per vedere di che materia è la tela o la pasta dei colori; attrezzi contadini riusati per sentire che rumori fanno o che movimenti del corpo richiedono; abiti antichi indossati per sfilate estemporanee. Scassando e smontando i musei, la conoscenza e il progresso dell’umanità ne guadagnerebbero tantissimo. Cadrebbero, allo stesso tempo, tutti i fini morali e precostituiti verso cui viene ordinato e diretto il nostro sguardo nel momento in cui mettiamo piede in una sala con quadri o sculture o ammennicoli vari; ci dimenticheremmo, probabilmente, dell’importanza della storia, dell’educazione e dell’esempio per le generazioni a venire. Riusciremmo, quasi certamente, a recarci perfino in un posto dichiarato “patrimonio dell’umanità” – che so, Venezia – e a passarci qualche giorno soltanto per accorgerci che è un posto come tutti gli altri, dove la gente nasce, vive e muore, senza mai rendersi conto di essere stata inscatolata ed etichettata. Il GIOCATTOLO-MUSEO fa pensare a quanto deviata e distante da un uso e da una percezione comuni sia sempre di più la nostra vita, sottoposta a continue eccezionalità, a continue sacralizzazioni, imbalsamazioni e museificazioni. In fondo, mettere qualcosa in un museo è un po’ come metterla in televisione, esporla all’eternità effimera della chiacchiera opinionistica.

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Tra breve potrebbe venire (ma forse è già venuta) a qualcuno, l’idea di mettere la vita stessa in un museo e smettere così definitivamente di farne qualsiasi uso e abuso. A quale fine? Al fine eccellente ed edificante di mostrarne la bellezza e la complessità, ma soprattutto l’imprevedibilità e la fuggevolezza, l’inafferrabilità, l’inconcludenza, etc; e dunque con questo sottinteso morale: che si stia attenti a non vivere troppo, a non esagerare. Una città come Napoli, ad esempio, potrebbe essere il posto giusto per un Museo della Vita così concepito. I suoi abitanti non sarebbero riluttanti, credo, a fungere da oggetti d’esposizione per l’edificazione dell’umanità. Assassini coraggiosi, amanti ardenti, automobilisti velocissimi, artisti bizzarri, politici mascherati da pulcinella, ragazzini travestiti da guappi, guappi travestiti da cantanti, preti svestiti e monache vaiasse – dove trovereste un Museo della Vita più variegato ed edificante di questo? L’unico problema sarebbe quello cui abbiamo fatto cenno sopra, e cioè che, una volta museificata, la vita, come tutti gli oggetti da museo, non sarebbe più vita, risulterebbe insopportabile, inutilizzabile, invivibile appunto. Gli uomini, sentendosi più importanti e osservati per il fatto di essere stati museificati, perderebbero naturalmente ogni afflato di schiettezza, e ogni veracità scomparirebbe dalle loro azioni, riducendo infine l’eccitante commedia della vita a una scialba recita per famiglie annoiate.

Ma non sarebbe, questo, un giusto prezzo da pagare, e un sopportabile fardello, per risultare infine, con il proprio esempio, edificanti per l’umanità intera? Non sono forse i reality-shows i più  e riusciti ed educativi musei della modernità, le are da cui chi ha smesso di vivere ci rivela quello che siamo?

Viene in mente, a questo punto, che forse l’unico museo veramente impossibile da realizzare sarebbe un Museo della Morte. Perché la morte mostra soltanto se stessa e la propria opacità a qualsiasi significato o insegnamento, senza fini secondi o morali. Proprio – stranamente! – come i giocattoli di Papetti e in particolare il suo GIOCATTOLO-MUSEO, che chiede soltanto di essere giocatoancora una volta, non avendo nulla da dire. Come nulla da dire, in fondo, ha la morte, che soltanto gli effimeri possono immaginare significativa o sognare di vincere e imprigionare.