Cicladi

di in: Paesologia

Il racconto greco comincia al crepuscolo, in un mese di settembre, su una terrazza, nel villaggio di Naoussa, nell’isola di Paros, nelle isole Cicladi, mare Egeo. Crepuscolo, ossia cielo trasparente che diventa lilla sulle colline brulle e pietrose, e sulle case, parallelepipedi bianchi con le finestre celesti, azzurre, blu. Vasi blu con piante fiorite, orci blu, sedie di legno impagliate e piccoli tavoli di ferro azzurri o blu o celesti. Bianco, blu, celeste, verde, lilla, turchese, come se dalle profondità del mare il colore stingesse sulle isole. E così la calce bianca viene usata per esaltare lo splendore di quelle tinte. Poi, presi da mania, o da follia, gli esseri umani dipingono di bianco i tronchi degli alberi, i muri, le pietre, strati su strati, cosicché le cose hanno morbide superfici calcinate e luminose a cui la luce in certe ore del giorno conferisce un riflesso appena azzurrato. Le lastre di scisto di cui sono fatte le strade vengono contornate di bianco, tanti riquadri, storte losanghe, esagoni irregolari, rettangoli, su cui camminare come su un gioco della campana. Ogni tanto, al centro di una pietra, un fiore bianco dipinto, un cuore, un sole. Chiese e piccolissime chiese che sembrano laccate, anche queste bianche con le cupole azzurre. Colline, e il mare.

Ad Atene, prima di andare al porto per venire a Paros, una corsa nel piccolo museo vicino all’Eretteo. Le splendenti divinità delle isole erano sempre là, eterne. 1960. Inverno. Le fotografie mostrano il mio viso di adolescente, capelli lunghi tenuti da un fermaglio, o raccolti, i lineamenti come un po’ gonfi, come mi fossi appena svegliata, un montgomery chiaro. Attonita, adorante, silenziosa. Vedevo per la prima volta quelle divinità ridenti e scherzose, sorridenti e distratte, indifferenti e beate, di un marmo luminoso. Gli dèi dell’Olimpo, non le sante e le vergini, le croci e il pianto. Il sorriso! Così le ho ritrovate, immote. Panneggi scolpiti nel marmo di Paros, capelli come ondine che increspano la superficie dell’acqua al minimo vento. Dee dagli occhi a mandorla e giovani possenti dèi dal corpo pesante e dal passo rigido, pronti al riso e al gioco, a divini amori e tradimenti, sensibili al suono delle cetra, esseri sovrannaturali con sentimenti simili a quelli degli umani ma estremi, e da dimenticare subito, con un balzo e uno scoppio di ilarità. E ancora una volta, come quando entrai nella grande sala dei marmi del Partenone al British Museum di Londra, provando un’emozione piena di reverenza e di stupore, mi appare chiaro che il sacro, il sovrannaturale, è per me l’universo divino là rappresentato e non altro.

Così come il mare non può che essere questo, delle isole greche.

Era il 1966. Isola di Corfù. Un risveglio nell’uliveto sulla baia dove avevamo passato la notte. Era l’alba e il mare era grigio chiaro, c’era solo quel fruscio languido e regolare dell’acqua che si infrangeva appena sulla riva con una lieve schiuma, e il canto degli uccelli, anche loro al risveglio. Cipressi verde scuro contornavano la piccola baia scoscesa. Pochi giorni prima un altro risveglio in Macedonia, con le donne che ridevano alla fontana vicino a cui ci eravamo stesi a dormire la notte senza esserci accorti che eravamo arrivati al centro di un villaggio. Monache avvolte in tessuti neri, con pesanti gonne di lana, custodivano i conventi sulle Meteore, in cima ai picchi di pietra grigia. La Grecia erano villaggi tra i cipressi e gli olivi, formaggio di capra, olive nere e vino resinato che sapeva di incenso, i templi e i piccoli musei, il palazzo di enormi pietre squadrate, con i passaggi coperti di lastroni,

a Micene, dove era custodita la maschera di Agamennone, sfoglia d’oro sbalzata su cui appare un volto irreale, distante, e i caffè sotto un grande albero dove gli uomini seduti sgranavano tra le dita i grani rossi o neri dei rosari. Tutto si fondeva con gli studi classici che facevo, era come un approdo e il mondo che si apriva si rivelava allo stesso tempo primitivo e bucolico, e placidamente sapiente.

Settembre, isola di Paros. Paroikia. Mezzogiorno, nell’antica basilica (pianta a croce greca) dedicata alla Vergine nella sua forma di Panaghia Ekatontapiliani, l’”onnipossente dalle cento porte”. La chiesa è splendente, carica di preziose immagini con cupi rossi e verdi smeraldini, altari dietro grate riccamente traforate, pesanti lampade di ottone e lampadari di vetro soffiato, icone di santi rivestite di lamine d’argento e d’oro, colonne di marmo di Paros provenienti dagli antichi templi a sorreggere le volte. Sorrisi dei santi nelle icone, benigne divinità remote, Arsenio, Atanasio, Santa Lucia con in mano un piattino su cui stanno due occhi stellati, danza delle fiammelle delle candeline lunghe e finissime, vibrare festoso dei pendagli di vetro delle lampade, sbuffi di incenso.

L’isola è come divisa in due mondi, quello marino, dei villeggianti, cappelli di paglia, pelle abbronzata, pezze colorate, collane che luccicano, sandali, zaini, aria stordita e vaga, stanze in affitto, caffè, ristoranti, botteghe tutte identiche. E il resto, cioè il mare e la terra, il carretto tirato dagli asini carico ortaggi e di uva che arriva guidato da un vecchio con berretto turco. Le donne siedono davanti alle case, mucchi rosa dei baccelli di fagioli e verdure da pulire, tinozze di panni attorcigliati da stendere, parlano velocemente, il greco è una lingua che sembra rotolare rapidissima tra affricate e sibilanti e il tono è sempre alto, quasi gridato, come dovesse sormontare l’improvviso e impetuoso vento meltemi, o la risacca. Pescatori che riparano le reti, piccolissimi paesi, numerosissime e isolate chiese sulle colline che profumano di timo e di origano e di menta fino a stordire, piccoli e grandi monasteri. E ancora il mare.

Se lo guardo, dallo scoglio dove ora mi trovo, il mare è una serie di strisce parallele increspate, perfettamente trasparenti vicino alla riva. Si inizia con un’acqua incolore attraverso cui vedo pietre con alghe brune e ciottoli bianchi e grigi, e nello scisto dei ciottoli venature argentate, una vegetazione marina che fa pensare a conchiglie e sono invece fiori bianchi in forma di coni. Segue una striscia trasparente turchese, poi verde, poi blu, azzurro, violetto. Nello sfondo, lontana, una corrente traversa l’orizzonte, come la coda perlacea di una cometa in un mare blu scuro.

A Chrisi Akti, la spiaggia d’oro, un’insegna di ferro raffigurante un’anfora reca la scritta “ceramica a 80 metri”. La casa è bianca, tra viti basse, piante selvatiche e muretti di pietra su uno sfondo marino di azzurro così splendente che solo guardarlo provoca malinconia. Una vecchia col fazzoletto nero in testa sistema un mazzolino di timo che ha appena raccolto e che qui è fiorito di viola acceso. Il forno per le ceramiche sta sotto una tettoia, una grande pietra tonda per lavorare la creta, piatti con dipinti pesci, polipi, stelle marine, maioliche turchese o verdi con nugoli di pesciolini che vanno. Ceramiche gialle con rami di olivo nel forno del ceramista di Lefkés, sulla montagna, e i pioppi locali sono raffigurati tutti curvi e aggraziati come se il vento li avesse definitivamente modellati, mentre i ceramisti di Yria lavorano in bassorilievo su superfici piane. Le colombe, i pesci, i polipi, le lune sono poi colorati di uno splendido turchese madreperlato.

Il mare di Molos è come un lago il cui colore cambia continuamente, una piscina naturale, una conca trasparente tra un molo di grosse pietre, una costa montuosa a sinistra e a destra un monte tutto percorso da muretti di pietre a secco, che lo ripartiscono in sezioni geometriche, bassi limiti che si capisce esistono da secoli, a definire le proprietà di pascolo. Sulle spiagge non c’è nessuno e si può nuotare per ore percorrendo il diametro del lago senza vedere altro che acqua, e sott’acqua un tranquillo mondo marino, e poi il cielo e quelle antiche venature del monte. Nello sfondo l’isola di Naxos.

Su una piccola duna, mi stendo al sole, vicino alle tamerici. Le formiche sulla sabbia si affannano, c’è un grande lavorio, devono trasportare il corpo di uno scarabeo. Si stanno organizzando, alcune spingono da dietro, altre vanno e vengono, un po’ aiutano, un po’ si allontanano, uno sforzo immane, come di un gruppetto di persone che dovessero trasportare una grande barca. Si muovono incessantemente qua e là, il risultato è che molte non fanno che girare su se stesse. Forse stanno solo pensando. Strisce leggere di alghe, come nastri inconsistenti, seccate al sole e che volano col vento disturbano l’operazione rovesciandosi sul difficile trasporto. E penso al nostro minimo posto nel creato e al sopruso, noi divenuti dominatori dell’universo, noi che abbiamo osato appropriarci della terra, del mare, di tutte le cose esistenti. Poi vedo un cane che segue solerte un trattore, e pecore che si raccolgono e si sparpagliano al fischio imperioso del pastore, mentre vicino a una casa un contadino sta spennando un pollo, ma è piccolo, come un pulcino. E’ un lampo pensare che fino a poco fa stava nel campo. E il sopruso appare mostruoso. Anche gli splendenti dèi richiedevano sacrifici e “vittime pingui” sugli altari, animali e esseri umani immolati alle divinità dell’Olimpo, sangue che macchiava il candore del marmo. Il fuoco si accendeva con rami profumati di timo.

La cagna che all’improvviso si presenta sembra davvero sorridere. Nera, orecchie pendenti con un originale ciuffo focato in punta. Si mette seduta vicino, sulla sabbia, la carezzo, la accolgo con molte dolci parole e lei davvero sorride, chiude gli occhi beata. Più tardi ritorna, le prendo la zampa, si stende vicina. E dorme, russando lievemente. Questo sonno degli animali fiduciosi! Un pensiero di fondo, insieme alla sensazione del sole e del mare, come un cruccio costante, un’inquietudine che a tratti diventa angoscia, e cioè come sia possibile allo stesso tempo la terribile violenza e la stordente bellezza, e come riuscire a sopportare che la vita sia così fatta, che siamo prede del destino, ma anche, ognuno a suo modo, carnefici, e che senza nessuna colpa alcuni possano essere le vittime, gli animali con noi e come noi, e gli alberi, i fiori, i luoghi. Forse c’entra lo splendore qui delle cose perché a volte lo splendore può essere simile a un’aggressione che mi lascia del tutto disarmata.

Più tardi vedo una ragazza bionda che cammina verso una casa, “Arapina!”, chiama, e la cagna nera accorre.

La luce delle Cicladi è forse unica, sebbene questa possa apparire un’affermazione banale. Tutto cioè appare intriso di luce come se la volta celeste proteggesse dal chiarore di un astro, che sarebbe altrimenti semplicemente accecante, assorbendo il colore dell’acqua o meglio l’infinito variare dei colori dell’acqua nelle ore del giorno e scolorandolo poi su ogni superficie, così da rendere l’alba di perla, il giorno di acquamarina e il tramonto di ametista o di quarzo rosa. Ma è soprattutto la trasparenza ciò che colpisce.

Dunque in primo luogo la luce netta che esalta i colori. “Isole bagnate di luce”, in cui il cielo è molto azzurro, il mare molto blu, o molto azzurro, o molto turchese, la case bianchissime. I fiori rossi di ibisco sono quasi luminosi e come fosforescenti, anche di mattina presto, e i lampioncini delle bouganville di un fucsia denso che esplode agli angoli dei muri in ciuffi, in mezzo a foglie di un verde smaltato. L’arancio delle lantane, il rosa dei gerani. Le foglie lucidissime dei grandi alberi di ficus.

In secondo luogo, le superfici dei muri. La calce bianca passata sulle pietre e sull’intonaco è così spessa che diventa lucente, così come lucenti sono i marmi che pavimentano certe strade o gradini. Tutto è sempre come illuminato da un faro.

In terzo luogo, i vicoli stretti, per ripararsi, credo, dal vento, che tuttavia vi soffia dentro potente in certi giorni, si ingolfa e procede impetuoso girando gli angoli, vicoli così intricati che non riesco ad orientarmi, giro su me stessa,mi perdo come in un vero labirinto, una cappella è il punto di riferimento, ma poi ce n’è subito un’altra e altre, molte. Tante sono le chiese vicine che le chiamano cusseghiares, le “comari”.

E infine, certo, questo mare. Mi tuffo nell’acqua fresca, tersa e ferma che in certe mattine è così calma e luminosa da farmi pensare al deserto, l’acqua mi sale su per il naso, riconosco l’emozione, come un odore, come una scia nel tempo. Nuotare lentamente sott’acqua.

Sono questo le Cicladi. Quale ho preferito? Santorini, una sorta di esperienza spirituale per l’impatto della sua dirompente bellezza, o le rocce rosa di Milos, oppure Mykonos dove la chiesa aveva la parete di fondo di legno laccato quasi nero e gli alti scranni laterali color corallo, lucidi di strati perfetti di vernice? Oppure Paros, dai giardini con alberi di fico, erba cedrina, in cui il profumo dei gelsomini e delle enormi gardenie fiorite riempie l’aria della sera, e in cui gli uomini lanciano sguardi languidi, come accadeva un tempo da noi.

L’isola di Sykinos, lontana da quelle frequentate, sebbene fosse agosto era quasi deserta. Per arrivare alla spiaggia prescelta bisognava camminare un’ora e anche più nei campi di stoppie. C’era, come sempre di agosto, il meltemi, vento che sollevava ondine increspate e strappava via in un istante i panni stesi sul filo se non erano ben fermati da molte pinze da bucato, e che comunque in pochi istanti li asciugava dopo averli strapazzati tirandoli in qua e in là furiosamente. Così il mare era sempre spumeggiante e solo esplorando a lungo la costa si poteva trovare una piccola spiaggia riparata. C’erano, nel fondo dell’acqua limpida, stelle marine rosso fuoco.

È pomeriggio e risalgo a zigzag la montagna verso il monastero, camminando tra le pietre e le erbe profumate, nel frastuono delle cicale. Il mare circonda tutto l’orizzonte. Il piccolo monastero è deserto, come fosse stato appena abbandonato o come se i monaci fossero tutti andati a coltivare l’orto o a raccogliere piante medicinali, perché davanti alle grate dell’iconostasi ci sono candele accese e su una finestrina, verso il mare, rami freschi di basilico in un barattolo di latta, un vetro contiene olio su cui galleggia la fiammella di un lucignolo. Non si vede mai nessuno nelle chiese e nei monasteri sulle colline, ma i libri sacri sono aperti sui leggii e il nastro rosso è ben tirato nell’angolo tra le due pagine, il profumo di salmastro si mescola a quello penetrante dell’incenso che ha intriso i legni.

Le chiese di Naoussa di domenica mattina. Nella prima, immagini di santi e un lampadario scuro, tutto intagliato, a molti bracci. Il pavimento è stato appena lavato, le pietre sono lucide di acqua. Nella seconda il lampadario è dorato, una tenda bianca con merletti a pizzi triangolari, pavimento di lastre di marmo venato, un tavolino vestito di bianco con un grande vaso di vetro blu sopra. E su fondo azzurro intenso l’immagine di Agios Nikitis a cavallo, cavallo arancione. La parete dell’iconostasi come sempre è tutta incrostata di preziosi decori. Qui, in alto, la vita di Cristo è scandita in dodici riquadri, sotto i quali corrono tralci di vite e grappoli d’uva. In quello della predicazione, un albero è raffigurato allo stesso modo in cui il ceramista di Lefkès raffigura i pioppi locali. Sotto, l’immagine di Maria con bambino, a sinistra le sfoglie d’argento degli ex voto. Certe chiese sembrano lindi salotti di case di campagna, i santi sono i ritratti degli antenati.

A Paroikia, dove arrivano a Paros le navi, la terrazza coperta del caffè guarda verso i faraglioni. Tavolini di marmo e una panca più indietro con comodi cuscini, lo spazio incorniciato è solo mare. Le navi vanno e vengono, girano il promontorio sulla destra e scompaiono nel mare aperto, o da lì appaiono. Quando inizia il tramonto, la pianista che siede al pianoforte smette di suonare, le luci si abbassano, quelle interne si spengono. In silenzio tutti contemplano la porzione di mare su cui la terrazza si affaccia, il sole che scompare richiede devota attenzione. Il disco rosso è di brace palpitante, zone diverse di rosso, dal rosso cupo al rosa, e ora è una sfera, puntuta come una cupola ottomana, che sprofonda lentamente all’orizzonte. L’acqua allora diventa di tutte le sfumature di azzurro e poi di grigio, di pallido viola, di madreperla, infine è color piombo, come una lastra grigia da cui si levano i faraglioni. Barche con fanali di un verde brillante. Ovviamente una stella. Dorata. Le grandi navi hanno festoni di brillanti, come navi di sogno che scivolano lente sull’acqua, ora di un inchiostro così scuro da parere oleosa.

Spiaggia di Glyfa. Hanno messo un grande ombrellone bianco sulla riva, tre comode poltroncine. Un parafuoco di cotone da campeggio, come un piccolo paravento, ripara la bombola su cui sta cuocendo qualcosa. Vicino c’è un tavolino basso con pentoline smaltate coperte. La tavola a cui sono seduti è apparecchiata, acqua, bicchieri, un barattolo di vetro con le olive. I tre signori, due uomini e una donna, chiacchierano, la radio sospesa alle stecche dell’ombrellone trasmette musica greca.Persone di mezza età, tre greci, che si godono il benessere di questo mare, l’allegra risata della signora punteggia i discorsi.

Delos, a cui si arriva da Paros in un paio d’ore di barca, è dedicata ad Apollo, figlio di Zeus. Isola disabitata, a parte la missione archeologica che continua ad esplorare i resti degli antichi edifici sacri. Il mito racconta che Leto vagava da un luogo all’altro, cercando il rifugio dove partorire, dovunque respinta per paura di Hera, sposa di Zeus. Solo una roccia nel mare in tempesta avrebbe potuto accoglierla. Tutte le dee dell’Olimpo si riunirono dunque sullo scoglio in attesa di quella nascita ma la dea del parto, Eleithya, non era stata chiamata. Solo dopo nove giorni e nove notti Iris, l’inviata degli dèi, la portò infine con sé, in soccorso. Nacque Apollo e lo scoglio, ora isola di Delos, divenne di colpo come oro, tanto riluceva che le dee ne erano accecate (“Oh Apollo! Brillante ornamento del cielo!”), dovunque spuntavano fiori. Le divinità stanno nel piccolo museo. I kouroi più antichi, con la cintura in vita, hanno capigliature tondeggianti e compatte, in altre statue le capigliature sono una miriade di treccine ondulate che ricadono sulle spalle e su tessuti tutti a fitte piegoline, un’espediente forse per dare movimento ai grandi blocchi scolpiti. Colombe, sfingi, leoni, cavalli. Un pavimento intatto, di colore bianco, rosso e arancio in un edificio sulla collina. La Casa dei Delfini ha lunette su cui i delfini sono armoniosamente intrecciati.

L’Ekatontapiliani, voluta da Elena, madre di Costantino, si vuole sia la chiesa più antica, oltre che di Paros, dell’intera Grecia. Non c’è campanile, le campane sono appese ai rami del grande pino tutto coricato dal vento che sta al centro del chiostro. Le candeline di cera grezza accese davanti alle icone stanno dentro grandi tamburi di ottone pieni di sabbia granulosa, su piccole colonne. Chissà se questo uso del fuoco, fiamme che illuminano, braci su cui far cadere grani di resina e di incensi, prosegue quello dei sacrifici e delle offerte profumate agli altari degli dèi. Ne accendo comunque una anche io.

Ma sull’altare di Apollo a Delos era vietato sacrificare vittime animali. Pitagora vi aveva deposto orzo, frumento e dolci. Al signore dell’Età dell’Oro, Apollo “dispensatore di frutti”, si offrivano erbe spontanee, malva e asfodelo.