Letteratura come imbroglio

La nostra epoca è cominciata con la morte di Dio e, passando per la incomunicabilità dell’esperienza, è giunta ad assassinare l’arte dell’imbroglio.

di in: Critica letteraria

Somnia quae mentes ludunt volitantibus umbris”

Petronio Arbitro

Sulle “vie dello spirito”

Nel secondo atto de “L’Opera buffa del giovedì santo” di Roberto De Simone (Einaudi, 1999), fa la sua comparsa, per le strade di una Napoli mitica e sospesa, un mendicante finto cieco di nome Pacicco, che si accompagna a un ragazzo apprendista pezzente di nome Palummiello. Palummiello non sa chiedere l’elemosina, e Pacicco si arrabbia. Gli fa una piccola lezione: “No, nun ce sta cumpenetrazione. Io, quanno faccio ‘o cecato, me sento veramente cecato. Ci soffro! Entro nella pezzenteria della parte. Ce chiagno! E quella è arta. Accussì te cride ca ‘a gente mette mano a sacca? La gente paga solo chi sa fare bene una parte. Po’ tu può essere pezzente overamente e nun ‘o sai fa’ artisticamente, nun accucchie niente. Penza ca ce stanno cecate overo, ca vèneno addù me, pe’ se ‘mpara’ comme se fa ‘o cecato favezo”.

Se, camminando oggi per le strade delle nostre città, incrociamo un mendicante che ci chiede l’elemosina, molto probabilmente gliela neghiamo pensando al fatto che arricchisce la camorra, finanzia la criminalità organizzata, sfrutta i minorenni, e così via. Non facciamo il minimo caso all’“arte” che si manifesta attraverso i suoi gesti, la sua voce, il suo modo di vestire e di presentarsi. Non abbiamo più sensibilità per gli imbrogli, e quindi è come se non avessimo più occhi e orecchie in generale per il teatro del mondo, perennemente orientati da qualcosa che ci hanno già detto, in maniera autorevole, televisioni, giornalisti, studiosi dei fenomeni sociali. Nasce forse dal declino di una tale “arte” – l’arte dell’imbroglio – la passione tutta moderna per la “verità”, l’ossessione del cittadino del mondo civile di voler sapere come stanno “veramente” le cose dietro le quinte della politica, dell’economia, perfino ormai delle case dei propri vicini. I libri di maggior successo sono libri che svelano i segreti di ogni cosa: dell’attentato dell’11 settembre, delle origini dei successi politici di Berlusconi, della vita privata di quella tale star del “Grande fratello”.

Ma c’è un personaggio romanzesco che ci consente di estendere queste considerazioni sull’arte dell’imbroglio a tutti i comportamenti umani. È la Susanna Zarri di “Sogno della classe scolastica”, racconto che chiude il primo dei tre volumi dei “Costumi degli italiani” di Gianni Celati (Quodlibet, 2008). Evocata da un tempo non meno mitico di quello della Napoli de “L’Opera buffa”, Susanna Zarri è la belloccia del Liceo, “lo spasimo di battaglioni di compagni” di scuola. È dedita ad arti da Circe, incantatrice impeccabile e suscitatrice di eccitazioni incontrollabili, al punto che, dopo anni passati a sognarla, i suoi spasimanti finiscono per non vedere più niente della cosiddetta realtà e per darsi al suo culto, abbandonandosi a una vita da barboni, vagabondi e nullafacenti. La “funzione” (dice così Celati) della Susanna Zarri nella vita è “la funzione benefica dei bari, dei bugiardi, degli impostori, dei furfanti… E non c’è dubbio che la Zarri abbia guidato i suoi antichi spasimanti sulle vie dello spirito, più che se fosse stata una ragazza che non dice bugie. Li ha guidati a non dispiacersi più d’essere imbrogliati, truffati, derubati…”. La parola che risuona in modo particolare, in questo fraseggio, è la parola “spirito”, anche perché, riferita qui alla Zarri e agli imbrogli, poco più sopra la ritroviamo, con una connotazione completamente diversa, in bocca all’austero Preside Di Cece, intento a salvare dall’affondamento nel cesso i volumi di Dante, Petrarca, Virgilio: “Avanti! Salviamo i classici! Salviamo lo spirito prima che diventi tutto merda!”, urla Di Cece. 

“Ma io non ho voglia di aiutarli”, replica perentorio il narratore Celati, che preferisce correr dietro alla sua compagna di classe Veratti, come gli adepti della Zarri indulgono agli incantamenti della loro Circe ragazzina. Questo narratore Celati, sempre presente nei suoi racconti come personaggio (autore fallito di romanzi fin da giovane), è come se qui dichiarasse, abdicando alla responsabilità di salvatore delle patrie lettere, che per lui le uniche “vie dello spirito” percorribili sono le “vie dell’imbroglio”, lungo le quali si può ancora scampare alla vita incanalata nella quale confluiamo spesso senza fiatare. Del resto, se lo “spirito” rimpianto dal Preside Di Cece galleggia ormai sugli escrementi, lo “spirito” cui allude la Zarri, invece, e che insuffla il suo narratore, è un largo respiro: il respiro del cuore che palpita e del pensiero parlante che fiorisce davanti alle immagini cangianti dell’illusione e del sogno (mentre davanti ai concetti della “verità” il pensiero resta sempre immobile e il cuore si intorpidisce).

Sulla memoria truffaldina

Seconda lezione di Pacicco all’apprendista Palummiello: “E poi la pezzenteria di Napoli tiene una grande tradizione, famosa in tutto il mondo. Gli stranieri vèneno a Napoli prima di tutto pe’ vvere’ la miseria e la pezzenteria. Ma , intendiamoci, la pezzenteria nostra, cioè quella finta, artistica, non quella vera. Chella overa sta a tutte parte. Ma qui a Napoli c’è l’arte… vera arte che andrebbe sostenuta dallo Stato!”. La genealogia della teatralità pezzente di Pacicco si può far risalire facilmente a una antichissima tradizione illusionistica napoletana, i cui punti di riferimento sono Pietro Trinchera, Giambattista Basile e Giordano Bruno. Ma il narratore appassionato di imbrogli e la Susanna Zarri , da dove saltano fuori? Anch’essi, probabilmente, da una tradizione altrettanto antica, che fa capo alla teatralità dei poemi cavallereschi, ma anche agli studi pluridecennali di Gianni Celati sugli usi e costumi della popolazione italica e sulle “finzioni a cui credere”. Nei “Costumi degli italiani” è la società, esplicitamente enunciata nel titolo, a vedersi restituita una delle sue “funzioni” fondamentali: quella di essere ricostruita e raccontata a partire da una memoria che potremmo definire truffaldina, perché finge deliberatamente. Questa memoria è solo in apparenza individuale: in realtà attinge all’universo collettivo delle immagini che stanno “fuori di noi”, come dice Celati stesso a proposito di Céline in una recente introduzione a “Da un castello all’altro” (Einaudi, 2008). Essa è lo strumento prediletto dal narratore appassionato di imbrogli, che si fa possedere senza troppi patemi da una Musa siffatta, la quale si esprime per mezzo di sogni, ricordi imprecisi e senza autorità storica, visioni, etc. La memoria truffaldina (la fantasia tout court?) – a differenza di tutti i tipi di memoria che pretendono e impongono la propria verità e le proprie raffinate “finzioni” –  ha una capacità magica perché, come se appartenesse a uno sciamano, è in costante rapporto con un altro mondo, un medio dove gli avvenimenti personali e quelli storici sono diventati un’altra cosa, grazie al tempo che vi si è depositato sopra, e sono adesso della stessa materia dei sogni: sono, appunto, un pensiero materiale (Averroè) costituito di pure immagini, un pensiero che si vede e si sente. Il narratore appassionato di imbrogli, in questo senso, è un narratore materiale, non materialista. Egli, grazie alla memoria truffaldina, pesca i suoi oggetti in un medio che gli è estraneo e che funziona per annusamenti, impressioni quasi, intuizioni; quindi, sempre alquanto svogliatamente (“Ma io non ho voglia di aiutarli…”), mette in atto la realtà storica, la illumina, dispiegandola in tutta la sua potenza fatta di niente e di garbugli, di evanescenze e di uomini che scorrono sul tapis roulant della vita quotidiana ed eterna. Sembrerà paradossale, ma è soltanto quando la descrizione del mondo avviene con queste modalità da baro, che noi riconosciamo fino in fondo i luoghi e i tempi nei quali viviamo o abbiamo vissuto: riconosciamo il Preside Di Cece, che è il carattere poetico e universale di tutti i Presidi (di Liceo) del mondo, lo scrittore Tritone, prototipo degli scrittori affermati e famosi, la signorina Veratti , che tutti, quando eravamo ragazzi come Pucci, abbiamo sognato almeno una volta di sposare. E ricordiamo, insieme al narratore appassionato di imbrogli, la disperazione dell’età giovanile, l’ossessione per il sesso e la convinzione precisa che tutto è marcio.

L’illusionismo di un tale narratore fa il paio esatto, come dicevamo, con gli inganni messi in atto dai suoi personaggi migliori, dei quali è l’emblema; in questi tempi di verità dispiegate, a livello sociale e letterario (anche la letteratura è oggi niente altro che una questione di “verità”), è inutile dire quanto ci faccia bene e ci dia sollievo. Ogni volta che leggiamo questi racconti, grazie alla sapiente arte dell’imbroglio che li anima, non sappiamo mai quale nobile scopo letterario vi si nasconda dietro. La memoria truffaldina, infatti, agisce con astuzia, e ci chiama a partecipare non alla scoperta di una qualche verità nascosta, bensì alla spogliazione della responsabilità e alla scoperta di una concatenazione di eventi che nessuno saprebbe dire se siano realmente accaduti, ma che pure sono così vivi da valere più di qualsiasi verità. Il nostro sguardo, così, si distrae e svicola con gioia verso immagini che obbligatoriamente la Storia, e non solo (oggi, grazie al tempo reale, tutto è immediatamente Storia), rimuove dai suoi discorsi. Nessuno potrebbe spiegare altrimenti le narrazioni dei “Costumi degli italiani” che come fandonie, invenzioni, divagazioni, fatte di niente altro che di ricordi sbagliati. Riescono a incantare il lettore in una maniera forse primitiva, certamente diversa da come abitualmente lo incantano libri come “Gomorra”. Questi libri qua, in effetti, non incantano per niente il lettore, piuttosto lo stordiscono come una droga sintetica, al fine di risucchiarlo in un dispositivo di controllo della sua mente e della sua vita, previsto e organizzato da tutt’altri che dallo scrittore medesimo; che allora del mago che allestisce imbrogli, o del maestro d’arte che illumina, ha davvero ben poco, essendo soltanto – lui e i suoi narratori e personaggi – un esecutore materiale di delitti altrui.

Sulla nostra epoca

La nostra epoca è cominciata con la morte di Dio e, passando per la incomunicabilità dell’esperienza, è giunta ad assassinare l’arte dell’imbroglio. Nonostante la società dello spettacolo e le merci finte, nonostante le mascherate ininterrotte e il culto dell’immagine, il nostro mondo non capisce gli imbrogli, non ha più orecchio per l’arte che li anima, l’arte di fingere e falsificare semplicemente per rendere più credibile ciò che ci circonda. Per le folle moderne qualsiasi cosa va bene purché faccia riferimento alla “realtà”, alla “vita reale”, e cioè alla “verità” che qualcun altro ha deciso essere in un certo momento importante per tutti (lo stipendio troppo basso, la sicurezza, l’inquinamento…). Con la società di massa nell’epoca della sua massima espansione, scompare anche l’arte di incantare il pubblico con invenzioni strabilianti, che trasportano in altri mondi allo scopo di farci capire  meglio il mondo falso nel quale viviamo. Personaggi come la Susanna Zarri e Pacicco, o narratori come Celati, dovremmo tenerceli stretti. E invece… Invece preferiamo leggere libri senza costrutto che a ogni pagina hanno qualche segreto inaudito da smerciare: “il contenuto del prossimo romanzo in uscita di quel famoso scrittore è segretissimo, perché vi si svelano i meccanismi del sistema…”. Nel mondo delle fiction odierne, troviamo interessante una storia soltanto per la quota di “verità” che vi sta nascosta dietro, per il brandello di attualità a cui si riferisce un best seller o un romanzo o perfino una raccolta di versi. Perciò non riusciamo più ad abbandonarci a niente, ma soprattutto non riconosciamo più l’arte sopraffina e magica dell’imbroglio che dà sollievo alla vita e al pensiero. Leggiamo (o non leggiamo) perché non crediamo più a niente, e per continuare a non credere più a niente. Non assomigliamo affatto all’ultimo strambo personaggio celatiano, il bancario Bacchini: mai nessuna titubanza, e nessun dolore per il dentro e il fuori che non combaciano nella vita. Così ci hanno detto di marciare, così marciamo. E così, quasi sicuramente, marciremo.