Caratteri originali

Estratti da "In piedi e seduti" e "Parliamo dell'elefante" (1919-1945) di Leo Longanesi a cura di Enrico Sgnaolin

di in: Inattualità

Ieri sono andato al corso in una di quelle mascherate di carattere; eravamo in una torre sopra un elefante che, spinto da uomini nascosti sotto, pareva che camminasse da sé: la mascherata era bella; noi tutti eravamo vestiti da guerrieri, e si gettò confetti di gesso a piene mani, ed a piene cazzuole”.

Ugo Foscolo

Il primo incontro con Longanesi è avvenuto all’università, quando un amico bibliotecario mi ha passato un libro ingiallito. Aveva pagine secche e dure, e qualche macchia sparsa qua e là. Sonnecchiava da molto tempo nei fondi magazzino della biblioteca. Ricordo di essere stato colpito dalla giustezza delle parole, dall’understatement non italiano (che avrei ritrovato più tardi nella Carte di Meneghello, ma  più implicito e prossimo allo snobismo), dalla scrittura limpida, dalla diffidenza per le frasi fatte, anche le più apparentemente innocue.

Longanesi era capace di essere feroce senza esagerare, di non affondare il colpo più del necessario. Ciò non significa che avesse sempre ragione, ma il “gesto” era compiuto con  una misura che, nemico o amico, non si poteva negare.

In quel libro era anche raccontato un sogno, uno strano  sogno che mi aveva colpito tantissimo e a cui ho continuato a pensare mentre progettavo questo zibaldone. E’ l’unico sogno che Longanesi trascrive nei suoi diari. Non sarà certo l’unico che ha fatto; e allora perché, in mezzo a tante acute osservazioni sui costumi degli italiani, decide di trascrivere proprio questo?

Nel sogno due amici si ritrovano in una chiesa che sembra abbandonata all’oscurità e alla polvere. Un nero cappello  da prete tesse un’immensa tela di ragno sopra i loro capi. Ipnotizzati dal suono di un organo, rimangono incollati al suolo. Solo Longanesi riesce a fuggire, mentre sente sotto i  piedi il freddo marmo di una tomba; fugge, appena in tempo per scorgere l’amico imprigionato per sempre nella ragnatela.

Forse il sogno è un vertiginoso concentrato del costume italiano. Ci sono: la chiesa, un prete , la morte,  due uomini che cercano di sfuggire all’imbroglio di una musica che sembra avere il potere di mascherare, anzi trasformare ai loro occhi la realtà del luogo in cui si trovano: oscuro, sporco, forse pericoloso. Come nei giardini labirintici dei poemi, solo uno dei due eroi riesce a sfuggire, l’altro rimane vittima di un inganno che  fa scambiare il fango per l’oro.

Ma come riesce a salvarsi Longanesi? Questo non ce lo dice. Eppure la proiezione onirica ricorda l’incontro di Mastroianni con il Papa, in Otto e mezzo. E’ come se la natura reale del costume italiano si potesse cogliere al meglio solo muovendosi su una cornice da ombre cinesi, dove il realismo psicologico e la categoria sociale sono trascesi fondendo il tipo caratteriale ( o la maschera più o meno stereotipata, la parte da commedia dell’arte) con una sorta di gigantismo onirico. Il sogno, espandendo i dati della realtà,  li  porta in una dimensione di estrema visibilità, che supera il bisogno di un significato immediatamente decifrabile. E’ un comunicare per immagini, situato su un piano in movimento (con coordinate che vanno oltre la storia, e slittano continuamente, animate da un vita propria). Allo stesso tempo, è l’espressione più autentica del rapporto col potere, il quale agisce non solo determinando le circostanze materiali, ma inquinando il rapporto comunicativo con l’esterno  – sempre sfuggente – che avviene attraverso  l’immaginazione, introducendo distorsioni e labirinti, ombre e incubi.

L’incubo del ragno può essere dunque visto come una chiave di lettura, un suggerimento per usare qualcosa di diverso dalla nostra “intelligenza”  nel leggere queste pagine, evitando il rischio che, come polvere antica, si sollevino per poi ricadere indolenti a terra.

In questa prospettiva, lo zibaldone longanesiano è una tavolozza d’artista, i cui colori , materici e onirici, non sono che una serie di spunti che ognuno può, anzi deve, usare come crede. Ed ho scelto, fra tali colori, quelli che si condensano attorno a una figura umana che recita il suo ruolo: il fascista, l’ardito, il partigiano, l’impiegato reazionario e nazionalista, l’agricoltore arricchito, e così via.

Colpisce in Longanesi l’abilità nel rendere carnei e concreti i modelli fumosi imposti dalla retorica di ogni tempo. Ma nell’acquistare autenticità, i suoi “tipi” non perdono la facoltà di proiezione su uno schermo onirico, anzi è proprio dal radicamento nella realtà che nasce l’autenticità del sogno, di un sogno fatto poggiando i piedi per terra. Su questo terreno, in modo diverso, ha lavorato molto anche Giorgio Manganelli.

Lo sguardo di Longanesi è quello di un intellettuale che non dimentica di essere un uomo, anzi che parte proprio del suo essere uomo per andare oltre le  idee e le parole con le quali altri uomini vorrebbero nascondere la natura del loro carattere. Ecco il motivo dell’attenzione riservata ai corpi, ai toni della voce, alle posture, ai movimenti che accompagnano il pensiero ( e spesso lo contraddicono, o ne svelano la fragilità). Alle “cosce rotonde, alle spalle vaste e al collo taurino” dei massicci agricoltori emiliani corrispondono il  piglio sbrigativo e risoluto, un pensare che è soprattutto un pesare le cose, andando allo spiccio dell’utile. Lo stesso Mussolini è da intendersi come un tipo emergente, nato dalle combinazioni di altri tipi, di altri colori, ma pur sempre loro figlio.

E poi gli americani bonaccioni e violenti, capaci di sfasciare una porta con un pugno ; il nazionalista infiammato, nel corpo di un avvilito cinquantenne con gli occhiali di stagno.
Dietro le maschere si agitano le stesse, antiche “passioni”: la struttura umana ha i suoi limiti e i caratteri originali non sono poi tanti.

I caratteri sono forse strutture per gestire della passioni, tecniche per rendere “sociale”  e “legittima” un’affezione ingovernabile. Si tramandano e si confondono di generazione in generazione, e per questo, forse, pur essendo stati descritti più di cinquant’anni fa, non sembrano così lontani. Ma i caratteri sono anche  segni – forse ferite – impressi all’immaginazione, spesso indecifrabili e oscuri, come il sogno di Longanesi, da cui discendono impronte impensabili sui corpi e sulle menti.

Non vanno combattuti, o additati con disgusto, ma misurati come si fa con un corpo. Come si pone attenzione al modo di camminare (che è anche un modo di pensare), alla postura della spalle ( chiuse o aperte, tristi o risolute oppure arroganti), al modo di porgere il petto (che è anche un modo di donarsi piuttosto che di diffidare e chiudersi), a come cambia il timbro della voce quando parliamo di qualcosa di cui abbiamo o non abbiamo esperienza.

Se la comunità umana torna ad essere terrena, riconoscendo queste  irredimibili tare, anche il parlamento politico può tramutarsi in parlamento umano. I  suoi componenti dovranno accettare di far ognuno la propria parte, nel teatrino dei caratteri umani, di essere meno individuale e originale di quel che crede. Come accadeva nella mascherate di carattere,  balli in cui ogni partecipante, munito del costume adatto, interpretava un determinato personaggio. L’elefante che pare camminare da sé, nel ricordo del Foscolo posto in epigrafe, è forse il carattere della misteriosa Italia, la cosa che va, non si come, non si bene dove, ma va. Ed è appunto con questo clima festoso e vacanziero che incomincia, non  a caso, la galleria dei ritratti dell’autore.

E. S.

 

1920: Vacanze estive

 

La situazione del paese è grave: una guerra aperta in Albania, Valona stretta d’assedio, Fiume occupata da D’Annunzio, tensione con la Jugoslavia; all’interno, agitazione dei partiti estremisti, sfiducia nella moneta, mancanza di alloggi e, soprattutto, “un disgregamento negli stessi organi dello Stato”.
Il Parlamento, intanto, prende le vacanze estive e la borghesia va al mare.

 

1921: Ardito

 

La guerra ha insegnato che i “cattivi soggetti” sono ottimi soldati, che l’ardito, quasi sempre, è uno scarto di galera e che qualche condanna penale non guasta mai nei precedenti dell’uomo d’azione. Ecco quei vaghi fanatici che s’agitano senza sapere il perché, contro quel che non conoscono, più per un naturale bisogno di esaltarsi e d’inveire che d’altro: incapaci di vedere chiaro nelle idee proprie, condannano quelle altrui; in continue rivalità personali, ieri anarchici, domani confidenti della questura, oggi individualisti, domani comunisti, contro Dio ma cristiani perché Cristo fu “il primo socialista”, lettori di opuscoli, carichi di debiti, eterni oziosi e inventori di qualche sistema per vincere alla roulette, vivono in un perenne e confuso fanatismo.

 

L’operaio crumiro

 

È operaio per metà, nel lavoro manuale, nei costumi, nel linguaggio, ma nell’altra metà è attaccato a chi lo comanda, veruna naturale coscienza della propria debolezza, una strana compiacenza a “strusciarsi” a chi ha più quattrini di lui e, soprattutto, per una misteriosa antipatia verso i suoi compagni, che egli ritiene plebei. Egli si stima un eletto perché è un cane fedele: gli ideali del padrone sono i suoi e si bea ad amare cose, persone e ideologie che non riguardano.

 

Il borghese che non ha pace

 

Possiede qualche soldo al sicuro, lavora di concetto, non ha studiato troppo in vita sua ma sa molte piccole cose e ama, soprattutto, quelle idee e quelle abitudini che tendono a garantire l’ordine. Egli non osa definirsi un conservatore, crede, al contrario, nel Progresso: è una specie di Péchuchet, un borghese di “larghe vedute”, capace, perfino, di aderire al bolscevismo, se occorre.  […] Socio del Touring Club, collezionista di francobolli, organizzatore dei boy-scout, possessore dei primi apparecchi radio, è un ottimista settario e crede che l’Italia non debba essere seconda a nessun’altra nazione. 
La Patria, che egli sogna coperta di cannoni e di spade, è una divinità alla quale è disposto a sacrificare tutto pur di rimanere fedele alla propria retorica. In realtà, è un uomo molta melanconico e che ha “conosciuto poche gioie nella vita”: la sua esistenza è stata oscura e monotona. In fondo all’anima sua, nasconde qualche acuto risentimento contro la famiglia e, in certi giorni, si sente perfino anarchico. 
Le sue uniche consolazioni egli le trova nelle cose, nel raccogliere oggetti, nell’amministrare i propri beni e, soprattutto, nel disprezzare una quantità di  persone, tra le quali egli colloca: il socialista nemico della Vittoria, il generale che non sa far la guerra, il deputato che parla troppo, il prete che non crede, la donna che è venale, l’inglese che sfrutta il mondo, il russoche è barbaro, il francese che è corrotto, il pescecane che è lurido, l’operaio che turba l’ordine, il contadino che ruba
A suo onore, va detto ch’egli è un uomo onesto, meticoloso, morale. Incapace di far male a una mosca , non condanna mai chi fa male ai suoi nemici.

 

Gli studenti, l’esercito sentimentale del fascismo

 

Noi studenti, figli di borghesi, eravamo vissuti in un clima di “ardente passione” durante i lunghi quattro anni della guerra; avevamo imparato ad odiare Cecco Beppe l’imperatore; avevamo cantato l’inno di Mameli e di Garibaldi in tutte le manifestazioni dell’Intesa;per quattro lunghi anni, la nostra fantasia era stata guidata dalle illustrazioni della Domenica del Corriere, dai manifesti del Prestito Nazionale, dalle vignette patriottiche e dai bollettini del generale Diaz. Per quattro lunghi anni, avevamo udito nelle nostre case discorrere di fronte interno, di resistenza, di Patria, di medaglie d’oro, di disertori e quando, durante la ritirata di Caporetto, sentimmo pronunciare la parola socialisti, credemmo, come molti, che quella ritirata militare fosse davvero il frutto degli articoli dell’Avanti! Fummo le prime candide vittime di quella retorica che venti anni più tardi doveva condurre molti nostri compagni a morire in Africa. Avevamo incontrato la Patria nei libri di lettura delle scuole elementari,  e quella Patria ci aveva accompagnato al ginnasio e al liceo, di classe in classe; una Patria che combatteva sempre difficili battaglie, ora oppressa dalle Signorie, ora libera nei Comuni, osteggiata dal Papa, illuminata dalla luce dei suoi Geni, unita dalla spada dei suoi Re Gloriosi… e alla fine della grande guerra dei Reduci, i Mutilati, i Fanti , i Valorosi destarono la nostra ammirazione e sognammo Ore di Gloria, maledicendo la nostra acerba età. Volevamo ancora combattere,ma la guerra, purtroppo, era finita: le sole fiamme vive erano D’Annunzio e la lotta contro i socialisti, nemici della Vittoria. E a questi vaghi, ma ardenti sentimenti s’udiva il naturale gusto per l’avventura caro alla gioventù ancora affascinata dalle letture dei libri di Salgari e dei romanzi polizieschi.
Appena infiliamo i calzoni, corriamo a iscriverci al Fascio.

 

Il piccolo borghese

 

È molto ignorante, ma di una ignoranza particolare, è un gradino più su, come s’usa dire, di quel famoso gradino che si raggiunge posando un piede nelle scuole governative: legge poco, non sa distinguere un bel quadro da uno brutto, beve lo Strega ed ammira i mobili Ducrot, legge Luciano Zuccoli ed ama gli affreschi di Sartorio, ha molti difetti, ma possiede un istinto infallibile. Un’idea gli entra in testa come il motivo di una canzone, forse con le note di una fanfara; le sue convinzioni politiche si fondano su una parola soltanto, letta o udita a caso; ammira un poeta senza averlo letto, così; crede in un santo perché ha un bel nome; va in chiesa per ignote ragioni, non ci va per le stesse ragioni ignote,ma il istinto di conservazione non sbaglia.
Che vuole ora? Non lo sa ancora con esattezza, ma teme di perdere quel che non ha, i denari,perché i denari per lui significano molte cose: la dignità, l’onestà, la patria, il decoro, l’avvenire, la continuità della famiglia. Il denaro, cioè la proprietà, è un’idea alla quale non sa rinunciare. È il principio dell’ordine. Ed ha ragione.

 

1922: Gli agricoltori

 

Chi sono gli agricoltori [ n.d.r. che aderirono al fascismo]?
Non i mezzadri, non i braccianti ma i piccoli e grandi proprietari della Valle Padana, gli agrari, gli zuccherieri […] i finanziatori del Resto del Carlino, i massicci possidenti che sovvenziono nelle loro case i capi fascisti. Gente che s’incontra ogni sabato nelle rosse piazze delle città padane, a Bologna, a Faenza, a Modena, A Forlì; uomini con lo stesso fisico, identica foggia degli abiti, e il medesimo gestire lento, simpatico, sicuro e popolaresco, ingentilito dall’agiatezza, ed un parlare grasso, risoluto, sensuale. E fra costoro si scopre qualche raro nobile scaltro, il quale ha conservato il patrimonio, ma ha perduto ogni grazia e cultura , indaffarato soltanto a tener testa ai sensali e ai fattori. Sono questi gli agrari dai calzoni stretti e le cosce rotonde, dalle spalle, vaste e dal collo taurino e con le guance che s’accendono di un viola cupo nelle dispute al mercato: sono ex amministratori di conti o marchesi, gente che non perduto il proprio tempo a udir cantar l’allodola. Gente che valuta campi, contadini, alberi, cavalli, prefetti, marescialli dei carabinieri e bovini alla prima occhiata, che possiede il segreto istinto della difesa e non guarda tanto per il sottile né a uomini né a cose, giudica a orecchio se così si può dire, e palpa le serve e i mazzetti di buoni da mille.

 

1923: Il tipo Mussolini

 

Di tutti i nostri dittatori è il più vario, il più ingenuo, il più pittoresco, il più catastrofico. È talmente fuori del comune e supera i suoi predecessori in maniera così nuova, ch’egli può dire di avere fatto tutto: la reazione e la rivoluzione, l’impero e la repubblica. Se si osserva attentamente il nascere della sua personalità, se si leggono tutti i suoi scritti dal 1910 in poi, ci si accorge che il segreto della sua fortuna è racchiuso, soprattutto, nella sua eclettica cultura, in quel suo continuo passare da una tendenza all’altra, da una precisa ideologia a una opposta, in quel suo costante contraddirsi e ripetere sempre due o tre formule a lui care. Egli rispecchia in maniera grossolana tutta la cultura dell’ultimo cinquantennio: senza distinzione, egli ripete ed accomuna Nietzche e Blanqui, Pareto e Blondel, Sorel e Croce; passa dall’uno all’altro, li confonde, li associa, li nega; crede a tutte le illusioni del secolo scorso ma imita Lenin, Trotzki, Kemal Pascià e Hitler. A volte azzecca, ma si pente; a volte intuisce, poi guasta ogni cosa perché eccede; a volte finge di capire. Ma per la grande maggioranza degli italiani quest’uomo ha del portentoso: egli riesce a ridurre ogni questione a una formula, a una frase.

 

1924: A proposito del silenzio sul delitto Matteotti

 

In Italia, ci si annoia a vivere in compagnia di un cadavere.

 

Un popolo di comandanti

 

E tutti in Italia, finiamo per comandare: siamo quaranta milioni di comandanti. Il penultimo della gerarchia comanda al mendicante di mendicare con più dignità nazionale.

 

1938 Roma, 27 luglio: fanatici

 

Sono fanatici, ma non senza conservare qualche amicizia fraterna nel campo avversario.

 

12 dicembre: il ragno

 

Entrammo nella chiesa e i nostri passi risuonarono sotto le alte navate. non una candela, non un fiore. Una spessa polvere velava i dipinti nelle oscure cappelle;  non s’udiva alcun rumore né si scorgeva anima viva. A un tratto, nella chiesa echeggiò un rauco suono che sembrava salire dal fondo di un pozzo, e vedemmo allora stendersi rapida sulla nostra testa una immensa tela di ragno; e ragno non v’era, ma un nero cappello da prete che tesseva svelto il filo di una lucente tela.

Correva da un punto all’altro della rete, silenzioso e solenne. Poi s’udì un dolce suono di organo e restammo come in estasi a quel suono. Ma il nero cappello era su di noi e la rete scendeva, e si allargava. “Fuggiamo, fuggiamo”, pensai, ma la musica ci teneva inchiodati. Feci uno sforzo, mi staccai dal freddo marmo che copriva una tomba sotto i miei piedi e fuggii verso la porta. 

Ma tu rimanesti, amico, e la rete ti avvolse ed io vidi coi miei occhi il cappello nero scendere su di te e avvolgerti in lunghissimi fili.

 

1939, 19 ottobre: nazionalismo

 

Seduto al caffè Biffi ascolto i discorsi dei miei vicini di tavolo.

Uno dice: “ Vede, la perla dell’Impero Inglese, cioè l’India, noi ce la papperemo in un baleno”.

“Lei crede davvero? “ domanda l’altro.

“Ma certo, è questione di tempo. I popoli ricchi sono vecchi, stanchi, hanno già fatto il loro tempo. E’ la nostra ora.”

Mi volto per vedere la faccia di quel fiero campione del nostro nazionalismo e incontro un ometto sui cinquant’anni, smunto, il colletto sgualcito, gli occhiali di stagno, un povero diavolo. Il nazionalismo è davvero l’unica consolazione dei popoli poveri. In Italia, saremo sempre nazionalisti, qualunque cosa accada. Gli uomini come il mio vicino di tavolo debbono pure essere alimentati da un ideale, e chi può fornirglielo se non la Patria?

 

1941, 3 novembre: fiducia

 

Che cosa pensano gli italiani? Difficile dirlo. Oltre alla preoccupazione di trovare generi alimentari e al malumore per i cattivi servizi di locomozione, non si può dire che gli italiani siano molto afflitti. Certamente non v’è ottimismo in giro, ma neppure avversione al regime. La guerra è molto lontana e si spera che gli inglesi non vengano a bombardarci. “La guerra sarà lunga”, dicono tutti, ma nessuno, in realtà, lo crede fermamente. Si ha molta fiducia nella nostra incapacità.

 

1942, 10 marzo: animali feroci e casalinghi

 

Ieri, in tram, mi sorpresi a osservare i volti dei passeggeri; non un viso intelligente, occhi furbi soltanto, ma nessuna luce d’intelligenza. Bestie socievoli, ubbidienti, che pensano al pasto. Nessuna vera luce di bontà e nemmeno di crudeltà. L’italiano è un personaggio che abbiamo costruito a poco a poco su vecchi motivi letterari, un tipo simpatico, che amiamo, pur giudicandolo severamente; buon padre, lavoratore, gran cuore, appassionato, modesto ecc.

Ma lo conosciamo ben poco; è ateo, pensa soltanto alle donne e ai quattrini, sogna di non lavorare, disprezza qualunque ordine sociale, non ama la natura; sa difendersi soltanto dallo stato, dal dolore, dalla fame.

Siamo animali feroci e casalinghi.

 

1943 , 14 gennaio: etichette

 

Si credono ribelli perché non pagano il biglietto del tranvai al fattorino. Il fattorino ruba nel dare il resto della moneta perché si sente bolscevico. Il controllore maltratta i passeggeri perché sono odiati borghesi; gli odiati borghesi spingono e schiacciano i piedi ai loro simili perché si sentono vittime di una società infame, e così via.

 

26 settembre: l’uomo d’azione e l’uomo di pensiero

 

Il tenente non parla, mastica, guardando fuori del finestrino. Nessuno di noi osa importunarlo con domande. E’ tacitamente convenuto che di noi quattro egli è il capo; egli ha fatto la guerra, porta le scarpe chiodate, le sue unghie sono nere, le sue ginocchia sudice e i suoi polsi molto grossi.

Per un lungo tratto restiamo in silenzio. Il sole tramonta e il cielo si fa presto scuro. L’aria già fredda della sera entra dal finestrino.

“Forse bisogna chiudere”, dico.

“Hai paura di un po’ di freddo?”, mi domanda il tenente.

Capiamo che accanto a lui non bisogna aver paura di nulla, nemmeno del freddo.

Riccardo è molto felice di vederci patire. Finalmente la nostra inferiorità di fronte al tenente e a lui è chiara; non siamo uomini d’azione, abbiamo paura perfino di un po’ d’aria.

“Non so se saprete sopportare i disagi a cui andiamo incontro” dice Riccardo  con voce amabile.

“Chi non è abituato alle lunghe marce non può fare più di cinque o sei chilometri al giorno. Avete fatto la guerra?” domanda il tenente.

“No” , risponde Stefano.

“Avete fatto il militare?” domanda ancora.

“No, nemmeno un giorno”, rispondo.

“Siamo vecchi scarti di leva”, aggiunge Stefano.

“Brutto affare. Bisogna averlo fatto il militare nella vita, fa bene”, dice il tenente.

“Hai fatto l’università?” domanda Stefano.

“No”, risponde il tenente.

“Brutto affare. Fa sempre bene fare un po’ di università”, dice Stefano.

Segue un lungo silenzio, poi Stefano chiude il finestrino.

 

20 novembre Napoli: la grande commedia democratica

 

Il Comitato antifascista che abita nel piano sopra il nostro ha una buona biblioteca, requisita al padrone di casa.

Chiediamo di prendere qualche volume, per leggerlo. G. e gli altri mostrano una certa ostilità a questa richiesta, non per timore che non si restituiscano i libri , il che avverrà certamente, ma soprattutto perché temono che noi si legga quei libri ch’essi  non leggeranno mai.

L’antifascismo è molto meschino, fatto di queste piccole ostilità, di questi ripicchi. Il clima che si respira qui a Napoli è quello dei collegi e delle sacrestie. La maggior preoccupazione degli antifascisti è quella di non allargare la propria cerchia, per timore che altri possano dire o fare qualcosa a cui essi non hanno pensato; custodiscono i loro meschini sogni di vendetta con l’astio e il moralismo delle vecchie zitelle contro le giovani spose.

Quelli giunti dall’America o dall’Inghilterra, dopo anni di esilio, per lo più volontario, sono ritornati con la stessa mentalità con cui partirono, gli stessi principi già invecchiati, gli stessi ordini del giorno in saccoccia, e persino lo stesso cappello. Le loro voci, i loro gesti, quel particolar sussiego di chi ha tanto errato per la libertà testimoniano, anche all’uomo meno scaltro, la loro sfrenata ambizione. Pettegoli e piccoli borghesi, benché ostentino un linguaggio rivoluzionario, ed abbiano viaggiato il mondo e vissuto fuori d’ Italia per circa vent’anni, conservano modi e preconcetti provinciali. Il fascismo, per costoro, è un nemico personale, non un avversario; un nemico da cui sono stati provati per venti anni di potere, di cariche, di privilegi, vent’anni che nessuno potrà ora restituire loro. E il  loro moralismo è così meschino e cieco che li priva d’ogni libertà di giudizio; non vedono oltre il naso dei loro piccoli programmi, dei loro brevi opuscoletti, della loro sparuta conventicola, e si comportano come i superstiti di una civiltà perduta, i depositari di un verbo che essi soli conoscono e che non rivelano per paura di fare proseliti. Ma quel che essi non sanno è che parlano lo stesso linguaggio demagogico del fascismo; e quel che essi vogliono costruire in Italia è stato all’incirca fatto dal fascismo, solamente con più violenza e meno metodo.

Se togliete loro la qualifica di “antifascisti” rimarrà ben poco, perché essi vivono in virtù del loro nemico. L’Italia è qualcosa di astratto che ben poco li interessa, tutt’al più un campo di battaglia, che dico, un parlamento, una piazza, una sala da comizi, uno sfondo sul quale rappresentare la grande commedia democratica che stanno preparando da anni. Non li vedrete mai interessati a un preciso problema, economico o politico, non li vedrete perder tempo a segnarsi un appunto su una della tante penose e insolute questioni del popolo napoletano; passano fra le rovine di questa città, nelle vie tristi e sudice, fra putridi mucchi d’immondizie, bimbi scalzi e denutriti, donne e uomini fradici di miseria e di malattie, passano senza volgersi, con le loro carte sotto il braccio, in fretta, senza perdere un attimo. Nulla li interessa; quel ch’essi vi diranno, se li interrogate, è che il fascismo è colpevole di tutto. Inutile contraddirli; trent’anni fa, la miseria qui era colore locale, sano allegro, variopinto colore napoletano, spunti per le curiosità del senatore Croce; oggi, quella stessa disperata miseria è frutto del fascismo.

 

4 dicembre: basi instabili  di un sistema statico

 

Che strani personaggi fioriscono in questi giorni! Spostati, bari, camerieri di transatlantici, parassiti, conducenti di camion, ruffiani e lestofanti riescono, in questo quotidiani disordine che a poco a poco diventa stabile e prende forma, a costruirsi una posizione.

Basta loro di incontrare qualche conoscente italo-americano per aprirsi una strada. Il giorno dopo girano con costui in macchina, lo portano in una trattoria di fiducia, gli presentano un’amica, gli trovano da requisire un alloggio o una macchina da scrivere o una radio e, poco per volta, si fanno sotto e ottengono un incarico, modesto, ma pur sempre un incarico da parte degli alleati. E s’intrufolano così nei comandi, dove ottengono una carica e indossano perfino la divisa cachi.

A costoro fanno capo gli altri italiani che non sanno l’inglese, ma che già lo studiano al fonografo o coi portieri d’albergo: e la schiera s’allunga.

Nascono i locali notturni e gli spettacoli di varietà, si gettano le basi dei futuri grandi affari, delle future concessioni, dei permessi dell’Amgot. Su questo primo nucleo si va costituendo la nuova classe dirigente italiana.

 

9 dicembre: libertà

 

La libertà è morta perché si è troppo estesa; il suffragio universale della libertà ha ucciso la libertà.

 

19449 febbraio: americani bonaccioni e feroci

 

L’americano ama la forza fisica, il successo, la potenza industriale e l’oleografia. E’ convinto che soltanto a casa sua esista la vera civiltà. Ha poca fiducia in se stesso e molta negli U.S.

Questi omaccioni che con un pugno sfasciano una porta chiusa in realtà sono molto fiacchi, lenti a capire, senza iniziativa. Il loro modo di divertirsi è infantile, denota la loro scarsa fantasia.

Bevono macchinalmente, senza gustare quello che  trangugiano; poi si inferociscono, e rompono quel che capita loro sottomano. Con le donne, i loro rapporti sono fanciulleschi; tengono per mano le ragazza, in silenzio per ore e ore, oppure le aggrediscono come bruti e le picchiano.

Dapprima superbi nei rapporti coi civili, si fanno poi di zucchero.

“Gli americani”, diceva Talleyrand, “vanno lusingati, e il giorno dopo che sono lusingati sono vinti”.

 

19458 agosto Roma: giustizia

 

La parola d’ordine è: punire. Si ha sete di punizioni perché si crede con ciò di liberarsi di un triste passato nel quale tutti sono stati benissimo. Ma, naturalmente, ognuno è convinto di non dover essere punito, perché il colpevole è sempre il vicino di casa.

 

11 agosto: ideologia

 

I nostri letterati vanni a sinistra; essi sperano che a sinistra la fantasia sia più fertile. Il comunismo, per costoro, è un lassativo che dovrebbe smuovere la loro stitichezza.

 

16 agosto: onestà

 

E’ a presunzione settaria dei nuovi moralisti che mette paura; è la loro infinita voglia di rifarsi che mi preoccupa; è la loro smisurata ambizione che desta sospetto. Si sa come vanno le faccende in Italia: ci si conserva onesti il tempo necessario che basta per poter accusare gli avversari e prendergli poi il posto.

 

12 novembre: l’amico ebreo

 

D. A.  viene a farmi visita dopo la colazione. Lo ascolto in silenzio.

“Finalmente mi sento ebreo. Per la prima volta in vita mia, sono turbati da una profonda crisi di coscienza. Non so, sento come un richiamo, un appello della mia razza…” sussurra con voce nostalgica.

Distrattamente dico: “Risponda”.

“Sì, è quello che voglio fare. Bisogna che io parta per la Palestina. Certamente avrò molta nostalgia dell’Italia, dell’Europa…perché in fondo noi siamo europei…la nostra patria è l’Europa…”.

A questo punto penso ad altro; non seguo più il discorso dell’ebreo. Che strana abilità ha costui nell’annoiarmi! Ho appena mangiato e debbo ascoltare queste parole profonde.

Perché non gli dico di andarsene? Non posso dirglielo perché è ebreo: sembrerei un volgare nazista, un carnefice…

Presto ancora attenzione alle parole dell’ospite.

“…io mi domando: l’uomo deve seguire i propri impulsi o ubbidire piuttosto alla ragione?”

“Mah!?” rispondo distratto.

“Non mi era mai accaduto di sentire fra me e i cristiani un distacco così profondo…tento con tutta la forza della ragione di vincere ogni senso di antipatia, ma invano…”

Mi allontano ancora dai suoi discorsi. Perché non viene mia moglie? Sono caduto in un baratro troppo profondo. Se qualcuno non viene a salvarmi, sento che perderò sensi.

Entra mia moglie, finalmente.

“Stavo dicendo a suo marito…” esclama l’ebreo.

Appena D.A. esce di casa, mia moglie dice: “ E’ noioso, noiosissimo, ma non si può essere scortesi con gli ebrei che hanno sofferto tanto”.

“Sì, non si può”, dico. “ E adesso che si fa?”.

“Perché” domanda mia moglie.

“Non so, non so quel che mi sta accadendo. Mi è scesa nell’anima una tristezza infinita… E come se mi sentissi responsabile dell’infelicità di tutti gli ebrei…”.

“Be’, un’altra volta, se ritorna, è meglio far dire che non siamo in casa”, dice mia moglie.

“Ecco una maniera di risolvere la questione ebraica”, penso. Ma non ho il coraggio di esprimere questo pensiero.