Un falso d’autore

Due recensioni per "A schermo nero" di Marco Ercolani.

Se pensate che non sia possibile immaginare vicende più reali della realtà stessa, ricredetevi. Le trecento pagine di A schermo nero di Marco Ercolani (QuiEdit, Verona-Bolzano 2010, 300 pp., euro 21,90), per intero giocate all’insegna di un supposto “la fiction dépasse la réalité”, scrivono una singolare e intrigante “storia critica” del cinema. Quanto meno di quella sua parte, in particolare, che si è sbobinata affermando l’estetica “noir” dei B-movies anni Quaranta.

Apocrifando corrispondenze, lettere di addio, registrazioni ricordi, diari, l’Autore, di professione psichiatra e scrittore, nonché cinéphile, si offre l’occasione per rivisitare la spesso ignorata (o svilita) avventura di una produzione senza dubbio limitata nei budget e obbligata a tempi veloci di realizzazione, ma nel complesso oltremodo significativa per gli autori e le opere che ha radunato. Un cinema che ha raccontato la parte buia di noi stessi, guidato – come Ercolani fa dire a qualcuno dei suoi dialoganti – da una regola incontestata: “il cinema non ha la chiarezza di una visione, è qualcosa di corrotto, di viscerale”.

Scorro così, lungo le quattro parti in cui è spezzato il racconto, titoli come Neve rossa, L’occhio che uccide, Freaks, e i nomi di Edgar Ulmer, Tod Browning, Anthony Mann; persino quello di Maxwell Shane, il regista che ha amato le città, gli scorci notturni mutati in angoli d’incubo, o di Sanuel Fuller irremovibile nella convinzione che sullo schermo “il falso deve diventare vero”. Ed è appunto in questo costante gioco (col lettore) di falso e di vero, di ipotizzare conferenze, materiali, inediti, dichiarazioni, che lo sguardo critico di Ercolani si dichiara senza possibili ambiguità.

Uno sguardo lucido, attento, frutto evidente di una lunga e partecipata consuetudine con il buio della sala, che gli consente di ampliare l’analisi oltre l’amato “noir” e l’altrettanto corteggiato versante dell’onirico, per giungere alle attuali presenze di Tarantino, Cronenberg, Carpenter, Coen, Eastwood. Con però preziosi salti all’indietro a “rileggere” Vigo, Murnau, Lang, Bresson, Ophüls, Buñuel, Welles.

Recensione apparsa in FILMDOC, bimestrale di informazione cinematografica, Numero 90, novembre-dicembre 2010.

 

 

Su “A SCHERMO NERO”

di Renato Venturelli, direttore di FILMDOC

 

Da anni Marco Ercolani va scrivendo lettere, autobiografie, racconti di artisti che riflettono sulla propria arte e il proprio fare, prolungando i loro ragionamenti in scritture apocrife dove la teoria si mescola alla narrazione, il dettaglio reale alla finzione letteraria. Grande cinefilo, in questo libro prende lo spunto da una serie di registi, attori e sceneggiatori che va da Erich von Stroheim a Conrad Veidt, da Mitchell Leisen a Peter Lorre, da Edgar Ulmer a Ida Lupino, per attingere a quella zona oscura in cui il cinema sconfina nell’onirismo, “goloso di scritture e di sogni” come la madre dello stesso scrittore, che da adolescente annotava con minuzia la trama di ogni film visto al cinema per prolungarne nella scrittura l’incanto e la suggestione. Non un tradizionale saggio di critica cinematografica, ma un libro che attinge alle ragioni profonde del cinema e del nostro essere spettatori di film, facendo affiorare tutti gli aspetti più teorici e i coinvolgimenti più intimi che la cosa comporta. Con un auspicio: che il cinema contemporaneo, “estroflesso in visioni troppo visibili, non dimentichi il misterioso silenzio, la zona d’ombra iniziale da cui ha preso origine, e da lì ricavi la linfa vitale e consapevole di un futuro sempre e ancora da inventare”.