Un pomeriggio partigiano

di in: Radici e dedali

Cino arringava la folla borgosesiana alle ore sedici, quattro botti al campanile, dopo che venti partigiani ebbero occupato la stazione e interrotto le comunicazioni telegrafiche e telefoniche. Sul furgone riposavano alcuni sacchi di vettovaglie e seimilatre­centosessantasei lire della Banca Popolare.

Gli ultimi bagliori davano orizzontali nelle finestre di ponen­te. Jacopo, dietro al fucile, vide che, nette come le delineava Cino, le cose stavano solo nei libri e tuttavia pensò a quanto sarebbe stato bello sfogliare dei volumi contenenti la storia delle loro av­venture, delle avventure del Gramsci, stese in figure compiute e dolci, bodonianamente aggraziate nella carta. Leggére come la carta. Sulla guerra, fantasticava, si scriverà moltissimo, fino a spremerne un’epopea noiosa, e di lì a duemila anni gli archeo­logi s’affanneranno sugli sten, e sui libri che parlano degli sten, al modo che adesso sterrano i martiri di Cristo. Sollevò la testa, mentre Cino scandiva il catechismo al popolo, e Vito guardava con ciglio di falco la gente assiepata. Pensava, dando la mano al tronco d’un albero e assaporando la rugosità delle tessere, ai giovani che leggeranno le storie dei partigiani, e sfoglieranno i romanzi che gente come lui si metterà a scrivere quando ogni cosa sarà finita: ogni guerra è per farne una storia, dopo tutto, per trarne un li­bro, e non sarà un libro nato per vocazione ma per spirito agonistico, o per restituire sensazioni passate. Certo non per di­vertimento, o per gloria. Ma…? potrà accadere, al contrario, che ogni cosa vada perduta? o che lui medesimo (o Cino, o Ciro, o Alba…) diventi il personaggio di un romanzo vergato da altri, e la sua storia una sto­ria interessante solo perché finita dentro a un libro? Non aveva ri­sposte. Accomodò il fucile alla spalla come per non perdere il filo del pensiero: solo le parole scritte hanno importanza? Si chiedeva. E quali?

Fissò il comandante che intanto seguitava a parlare: comunisti erano i suoi vestiti, comunista la giubba vetrosa che gli copriva il torace, comunisti il cappello, l’alpino e le Alpi sulla cui schienac­cia, un giorno o l’altro, avrebbe piantato la bandiera rossa, comu­nista il gesto, comunista la parola e anche gli scarponi. Guardava la piazza con occhi comunisti, e la bocca comunista parlava, e comunista era la sua bava, i suoi succhi gastrici, i suoi testicoli duri: e di fronte a lui c’erano genti aumentanti e ingorghiture lo spazio, che si facevano sgraffiare la schiena dai calcinacci, genti felici di ascoltare la melodia comunista che usciva da quelle lab­bra.

Antico si acculò vicino a Jacopo e accese i riccioli di tabacco che uscivano dalla cartina. Quindi porse al compagno una sigaret­ta: – Quand’è che ti prendi anche tu ‘sto vizio!? – Jacopo lo mandò al diavolo, e ripigliò a pensare, avendo negli occhi la figura di quell’altro comunista dubbioso che era il professor Cogito. Pensava a lui perché in fondo assomiglia al comandante: ha del mondo un’idea alta, lontana dalle cose vere, quelle che Jacopo aveva in faccia e non capiva: Cogito non vedeva nien­te coi suoi occhi, ma osservava attraverso le parole altrui, così che la realtà prendeva un sapore diverso da quello che Jacopo sentiva adesso, che sapeva di ferro e di amaro.

Seguì l’indice di Antico che si era messo con la testa vicino alla sua per mostrargli quante ragazze li stavano osservando, chi di loro aveva il paltò più corto, chi il collo meglio pieno di grazia. Ne sorrise, ed era lì lì per fare una battuta, quando fu preso dal timore di essere dimenticato, lui, coi suoi capelli, la sua fac­cia, le sue dita: forse un libro dirà le sue imprese, certo, ma non i suoi occhi, non i suoi piedi spaccati dalle scarpe, non la tensione dei suoi muscoli né i suoi odori difficili. Dunque questi libri, questi maledetti libri cosa sapranno mai dire sulla guerra? E come lo diranno? Era come se Jacopo sgranasse un rosario infinito che gli annebbiava la realtà, mentre la folla non fiatava o, all’improvviso, gemeva. Il coman­dante alzò più alta la voce, ogni tanto abbozzando un sorriso. L’a­ria schiacciava il fumo di Antico. Victor faceva stridere i denti. Ja­copo muoveva le gambe irrequieto vagheggiando una tazza di caffè. Si alzò. Voleva fare i due passi fino al bar. Antico lo seguì ma egli non se ne accorse, preso com’era nei suoi pensieri: se i libri, ripigliava, avranno valore in quanto tali, vorrà dire che le storie dovranno essere belle. Ma chi seminerà il seme negro? con quale diritto? chi garantirà l’autografo delle loro parole e delle loro azio­ni? Cino? il comandante Beltrami, se tornerà a Milano a crocchio­lare coi poeti? o Mauri sulle Langhe? chi? chi sarà così bene ispi­rato dalle muse da ingravidare i fogli usciti dalla cartiera? chi farà da Turpino vergante l’historia indocilium della Valsesia?

La piazza intumidiva di gente vettovagliata in guisa di grano sotto i portici. Dalla massa venivano mugolii, urla e risa, richieste, fracassate. Tanti si erano addirittura messi ai muri delle chiese, quella grande e quella piccina di fronte. Jacopo procedeva a fatica tra le gambe e le spalle pesanti come vasi di ferro. Tutti aspetta­vano qualcosa, ma dire che cosa veniva difficile, perché gli eventi, dopo l’otto settembre, procedevano per loro conto, secondo la somma desistemazione delle leggi.

Antico, al fianco, accendeva un altro vizio tra le dita gialle, mentre Jacopo non poteva che ammirare, genuflesso nello spirito, il marcato candore delle parole e dei gesti del comunista a cui s’era dato, e che adesso soffiava sulla folla come si soffia sul fuoco. I giovani, dunque, leggeranno i libri sui partigiani: di que­sto era ormai certo; ma non solo: forse gli autori delle future sto­rie erano già inoculati lì, nella folla udente e vociante. Si metteva a fissare Antico coll’aria di chiedere una conferma, ma quello, nel frattempo, scavava tra la gente per raggiungere il caffè. Era per quel motivo che si faceva la guerra? per scrivere? tutto lì? Nep­pure perdeva tempo a chiederlo ad Antico o a Nuvola, già sapeva che l’uno gli si sarebbe rivolto con una smorfia o avrebbe taciuto eloquente e l’altro l’avrebbe scofacciato con una gotata secca, di quelle che ti fanno ciondolare e mescolare gli umori. Victor era l’unico che lo avrebbe incoraggiato a fissare la folla, il ganglio dell’umanità, con il cuore d’acciaio e la guardatura fiera. Posava ai pedi del monumento ai caduti. Ascoltava con gli occhi di pietra. Lui sì riponeva nella folla, in essa sola, e non in qualche strano libro, le speranze del futuro; ma soprattutto sentiva tra le mani, come due tette sode, le speranze del presente.

Jacopo incontrovertibilmente e onninamente dava ragione a Victor, e a Nuvola e ad Antico, a tutti loro, se li avesse interrogati. Ma non aveva voglia di parlare a nessuno, e seguiva le spalle di Antico tra la folla. Provò a cogliere anche lui una ragione per fare la guerra, un motivo raro come il quadrifoglio, piccolo e pru­riginoso tal quale i pantaloni urticanti che portava: e il motivo era il fascino di quel gran comunista parlante, la bellezza di tutti que­gli uomini attenti, ammirati, fiduciosi nella gloria ventura, accalo­rati, eccitati, coi sorrisi attorno ai denti stretti, percorsi da forze sotterranee. Forse quel momento gli sarebbe bastato per dare conto di una vita.

Ma negli occhi aveva gli alberi spogli, avanti il municipio, puntuti come aghi che spappolano le viscere, e respirava un’aria di tragedia che gonfiava le gote a chi parlava e a chi taceva: una tragedia che non era la guerra passata ma quella da venire, una guerra che avrebbe chiesto, eziandio, un’ecatombe. Dunque i fumi del sacrificio dovevano durare solo per il presente, per quel­la folla, e al massimo per la generazione futura? o ci voleva uno sguardo più lontano?

Erano quasi arrivati al caffè e, oltre le teste, Jacopo vedeva nel cielo arrampicarsi le nuvole. Di nuovo gli si imponevano alla mente i libri che erano gli unici a dire, dopo mille anni, o due o tre, il sangue con cui si sporcarono altri altari, e come, e quanto, e quando. Dunque, rifletteva, le guerre vanno fatte per scrivere dei li­bri, perché ogni libro porta a nuove posizioni sulla scacchiera del­l’esistenza, e a scoprire inedite connessioni nel mondo. In quanto a me, diceva, immaginandosi di diventare un vento capace di astrarsi dalla sua persona e di svolazzare come un abitante del cie­lo, in quanto a me, fuori da questa guerra, se ancora sarò vivo, se ancora lei mi vorrà, tornerò da Nora, dai suoi fianchi alti, tra le pieghe delle sue ascelle brune, l’avrò, la sposerò dopo essere stato un combattente per la libertà, sarò tutto questo, e altro an­cora, nella mia memoria. E poi? cosa verrà? Verrà l’oblio delle cose e delle persone, e forse un giorno anche le ragioni di questa guerra e di molte altre si annichileranno col vento. Così io stesso, diceva ancora, e tante altre persone, e tante altre cose, tutti sare­mo un’opaca calìa nella lavorazione del mondo. Amen.

Quello gli pareva dunque il futuro più radioso che il fato gli stesse riservando. Prima di entrare al caffè, guardò Cino, la gola comunista, pertinacemente palpitante, il collo, la fierezza garrente di una bandiera rossa, la mano viva agitante l’aria col dito ritto, la­nista della folla fremente, fiero, vittorioso; lo guardò in faccia e sorrise.