Parlo di Boezio

di in: Radici e dedali

Parlo di Boezio che oggi non c’è più e che io ricordo in una mattina di aprile del novantotto. Faceva caldo e c’era molta gente in attesa davanti all’ufficio postale. Quello di Bornate, che è piccolo e ci stanno sedute solo tre persone alla volta.

Io non lo conobbi e lui non mi conobbe. Nel senso che tra di noi non ci furono mai parole. Io sapevo chi era. Lui, ovviamente, no. Perciò quella volta lo osservai con agio, come si fa quando si è in fila, senza che egli si stupisse che lo contemplassi.

Oggi so tutto di Boezio. So con precisione che nel novantotto aveva settantasei anni, allora già compiuti. Io ne avevo venti ma quel giorno, se non erro, conoscevo ancora poco di lui. Abbastanza però da sapere chi avevo di fronte. Negli anni successivi ho poi letto molte altre cose che lo riguardano.

Ricordo che cercò di tendere una conversazione. Si rivolgeva a una signora col cappellino, matura e garrula, di quelle che buttano fuori sacchi interi di parole senza aprire mai una fessura per farne entrare qualche decina: – non se ne può più di questa storia. A ogni inizio mese ci troviamo a passare la mattinata intera qui. Dovrebbero aumentare il personale. Almeno mettere una donna per le pensioni.

Boezio segue il lamento con l’aria di chi ha già sofferto d’altro. Tra le dita fa girare un piccolo manufatto sul quale, di tanto in tanto, ferma lo sguardo. Dico che, quando alzò la testa, c’era un sorriso di sopportazione ad affliggergli il viso.

– Ha ragione. Sono anni che si va avanti così.

– Si figuri che una volta mi hanno lasciata senza soldi. Dovevo tornare il giorno dopo, dicevano.

– Non lo dica a me, – seguita Boezio, – che di soldi non ne ho mai avuti. Adesso per tirare avanti faccio dei lavoretti – ruota tra le dita l’oggetto. – Questo per esempio è un dischetto di plastica grande come un tondo da cinquecento lire. Qui ho messo una specie di impugnatura con un buco – la mostra col dito mignolo -. Si può infilare al portachiavi. Così, quando vai a fare la spesa e hai dimenticato la monetina, prendi il carrello con quest’aggeggio.

– Interessante, – fa la signora con indifferenza.

Allo sportello alzarono la voce perché un uomo col documento scaduto non poteva ritirare la pensione.

– Non se ne può più. Che roba.

Boezio prova a tirare il discorso via da lì. – Comunque faccio anche altri piccoli mestieri. Poto, sistemo motori, costruisco stipetti in legno. M’intendo bene di circuiti elettrici, di guasti alla radio. Se dovesse avere bisogno… – dice, – lo faccio per poche lire, si capisce.

– Sì, – sospira la signora quasi riprendendo un discorso, – è utile in effetti. Dico quell’aggeggio che si mette nel carrello – Accomoda la borsetta sulla spalla sinistra, quindi afferra le maniglie lunghe e semirigide di cuoio.

Lui solleva con due dita la sua creazione. – Ecco, quello! – dice la donna allungando il collo come una gallina e facendo segno di sì col capo.

– Se crede, gliene preparo uno.

– La ringrazio. – E poi aggiunge subito, voltandosi al bancone dello sportello: – e allora? Dove andiamo a finire?

Boezio butta in tasca il pezzo di plastica e si mette con le braccia incrociate. Io me lo ricordo così, imbronciato come un bambino. Non avrebbe fatto nessun lavoro per quella donna. Era evidente che lei non aveva interesse alcuno per certe stupide chiacchiere. Le chiacchiere di Boezio Molino, partigiano di tante battaglie, ferito in quattro scontri. Anche alla coscia, una volta, quando diede sangue a mestoli sulla neve candida e si fasciò con un pezzo di tela di paracadute. Un male da strappare dio dalle nuvole coi denti. Bestemmiò tenacemente tra gli sputi di una saliva schifosa che sapeva di letto d’ospedale. Erano sulla curva schiena del monte. Una dozzina. Inseguiti da un plotoncino di almeno quaranta camicie nere. Brutti. Bruttissimi. Boezio affonda nella neve fino all’inguine e a ogni passo sollevare la gamba ferita significa un dolore più alto delle stelle e bruciante come una colata di ferro uscito appena dalla forgia.

Sorride ricordando quel freddo lontano. I due inverni, per dire meglio, quelli del quarantatré e del quarantaquattro, che passarono quasi senza il Natale, come una pioggia che non si cura di chi va senza ombrello.

– Guardi che se non ci facciamo sentire passiamo tutta la mattina a girarci i pollici. Forza, lei che è un uomo, vada a dirgliene quattro!

– Io non credo…

– Oh, via! Vuole fare pranzo appoggiato al muro?

No, vorrebbe dirle che non è il caso di prendersela così. Che ci sono cose per cui si soffre davvero. Fatiche solenni, come quella volta che era ferito, e i proiettili fischiavano sul pelo della neve, e lui sentiva morire tra le mani la sua coscia bollente. So che Boezio era un essere ardito. Gli impavidi soffrono e bagnano la loro sofferenza con il pianto. Cadde a terra, a un certo punto, e gli amici si fermarono nonostante il pericolo superbo. Il ghiaccio fucilato si spacca in cento gocce che volano come uno schiaffo. Boezio inizia a singhiozzare. Lacrime così dense che sembravano grumi. Anche i compagni piangono di quell’acqua disperata che si sgancia dagli occhi quando non c’è più niente da fare. Flavio era morto.

– Allora, ci va lei o ci vado io?

Boezio fa il primo passo, ma poi si ferma. – Si sta muovendo. Tra poco tocca a noi.

– Non ha coraggio lei. Ci fosse ancora il mio povero marito! Sì che gliele cantava!

Il vecchio partigiano tirò fuori di tasca il suo pezzetto di plastica, abbassò il capo e borbottò come uno stomaco vuoto. Che razza di mondo quello dove il patimento è ormai inessenziale. Niente tribolazioni. Le sue figlie – ne ha tre – lo trattavano come un antico balordo perso nei propri ricordi. Dicevano agli amici che il vecchio partigiano ha tutti i suoi fastidi ma tira avanti. I fastidi sono la dentiera, la prostata e la gamba sifula. Altro che fastidi! decreta Boezio. Teme di pensare che in fondo le odia, le figlie. Sono il simbolo della sua vita eroica che finiva, della guerra che si ritirava come le ombre di mezzodì, come un’inondazione che si assorbe.

Fissò la faccia spaziosa della signora. Le guardò le pretese arroganti uscirle di bocca. Boezio è di poche parole, lo è sempre stato. Sente una fiacca letizia al pensiero di non essere spiacevole come la donna che gli sta davanti. Si insinua in lui la breve fierezza di avere fatto delle cose importanti nella vita. Insuperbisce quasi all’idea di tenerle per sé. Dolce omissione. Di non dirle a alcuno, di lasciare che gli altri lo credano un misero vecchio senza un’esistenza bastevole. Vigliacco. Mulo. Povero uomo alla fine dei giorni.

Crede nella piccolezza degli esseri di questa terra, di tutti quanti. Considera meravigliosa la sua giovinezza periclitante, ritiene che nulla potrà mai eguagliarla, che nulla mai sarà sufficiente, che si stava meglio quando si stava peggio, che la guerra te la ricordi per sempre e diventa l’esperienza più gigantesca che uno possa fare, la memoria meglio attanagliata e più svelta a tornare. Chiude gli occhi e assapora il buon tempo antico e si sente stupido, l’uomo più stupido che è in terra. Perché, in fondo, arriva a dire le cose che diceva suo padre, che quando era giovane lui sì che la vita era diversa. Più bella e sincera. E suo nonno forse avrà ai tempi suoi fatto girare la medesima solfa.

A un tratto giunse il furgone che correva a prelevare la cesta coi pacchi, le lettere, le raccomandate. L’unico sportello venne chiuso per consentire all’uomo della posta di fare svelto. Io poggiai al muro per aspettare. Saliva il vento, sembrava avviare onde maestose e lente tra le fronde. In cinque minuti era tutto finito ma la signora scrollò più volte il cappellino e appoggiò lo sguardo addosso a Boezio, come a domandargli un risarcimento al proprio diritto di supremazia, incredibilmente leso.

– Nessuno faccia niente, per l’amor del cielo! Lasciamo pure che sistemino i loro comodi.

Boezio fugge quel mezzo rosario sarcastico tenendo il viso reclinato. Capisce tuttavia che gli occhi della donna lo scavano, giudicandolo. La mente gli va al passato, ai primissimi anni del dopoguerra quando aprì la bottega delle radio e fumava anche novanta sigarette al giorno. Rivede Flavio che moriva pieno di ferro fascista. Era il più destro a correre, il più gagliardo. L’esercizio tenace gli aveva avvolto attorno alle ossa certi muscoli globosi e ricchi che tutti gli invidiavano. Pure Boezio che di solito era per infischiarsene di come sono fatti gli altri. Eppure era morto proprio Flavio, grande e buono, lasciando nella neve tutto quel ben di dio d’un corpo Che grandi pensieri può suscitare l’inanità della vita

Di fascisti alla fine ne ha uccisi tanti, forse quindici tra una battaglia e l’altra. Era bravo a sparare da lontano. Ogni cosa che viene o va lontano gli piace. Come le onde radio che si infilavano negli apparecchi che aveva in bottega. Come le donne che amò. Tutte lontanissime, le prendeva solo per l’amore e poi le lasciava andare come uccellini spauriti. Le cose, a soppesarle a lungo e con troppo comodo, finiscono per mostrare i loro difetti. Non ha avuto una vita infelice, solo pensa che la felicità è come una conchiglia sulla battigia, avvolta e svolta dall’onda, mai osservabile per più di un secondo. È anche un uomo stupido, crede che nulla dopo la sua resistenza partigiana abbia avuto valore. La storia per lui va dal quarantatré al quarantacinque. Il resto è una postilla.

Quando Flavio è morto la luna sedeva in cielo screpolata e gelida. Non passava una nuvola, la neve era un foglio di quarzo argentato. Lo recuperarono qualche ora dopo, il corpo. Quando i fascisti erano andati. La barba dura come una rete di ferro in grovigli, lo spalanco degli occhi, le pupille rotolate da parte. Boezio ripensa allo splendido defunto, a quei muscoli gonfi e inutili, Flavio prima della guerra nuotava e aveva il petto largo e il gancio delle spalle possente. Allora dimenticò la coscia pesta e desiderò estrarre dalla scarsella il suo coltellino, il ciapiull, e intagliare la carne del defunto, quel composto così ben dotato di vigore e di felicità. Sì, perché Flavio era dolce e benedetto. Ne avrebbe staccati dei pezzetti, delle foglioline di pelle e di tessuto carnacciosa e di muscoli. Da tenere con sé.

Torno a dire di Boezio e di quel giorno che lo vidi all’ufficio postale di Bornate. Finalmente la coda si sbloccò. Nel cielo un’aria inutile e monocorde. La signora fece quel che doveva allo sportello e s’accomiatò con garbo distaccato il vecchio. Poi camminò svelta, con la schiena ritta e le gambe che, mentre muovevano passi veloci, strusciavano l’una contro l’altra.

Non accadde proprio nulla di significativo. Toccò a Boezio, che intascò la pensione e pagò la sua piccola bolletta; il vecchio eroe consumava poco, ormai. Il ninnolo di plastica lo tirò fuori dalla saccoccia, assieme alle monete, per regalarlo alla ragazza dietro al vetro.

La ragazza non sorrise neppure.

Nell’aula fileggiava un leggero sentore di vaniglia. Era buono.

Boezio uscì. Andava zoppo, come sempre. Salutò, anche se non conosceva nessuno, sventolando la mano in alto, ma dando le spalle a tutti quanti.