Margini a Se la pietra fiorisce

Una riflessione sull'ultimo libro di poesie di Antonio Prete, Se la pietra fiorisce.

di in: De libris

Lontananza

 

Il vento ha svuotato

le sillabe del tuo nome,

non ha contorni il ricordo,

e di me non sai nulla,

anch’io sono per te la lontananza

che non ha occhi né mani,

sono il vuoto di una nube

che cammina nel vuoto.

 

C’è un confine verso cui muovere,

lasciando questo niente al niente,

un confine dove  incontrare

il paese della tua pelle?

 

Sull’isola, tra gli spini e la sabbia,

un cerchio di cenere.

Una vela cavalca l’orizzonte.

 

Su Lontananza. Il vento della lontananza svuota e sperde le sillabe del nome, della dialogica prossimità della parola al senso, della loro relazione – che è anche relazione stretta di un io con un tu: non ha più contorni, allora, il ricordo: la memoria, la poesia. La prossimità cede e s’allenta – e così anche allontana: allontana, tra loro, le sillabe; disgrega, dunque, e fa opaco, “il nome”; offusca il “ricordo”; confina nel vuoto la lontananza: rompe il ritmo che lega in continuità questa alla prossimità. E perciò “di me non sai nulla, / anch’io sono per te la lontananza / che non ha occhi né mani, / sono il vuoto di una nube / che cammina nel vuoto”. Ma c’è, forse, “un confine – si domanda ora il poeta – verso cui muovere, / lasciando questo niente al niente, / un confine dove incontrare / il paese della tua pelle?” Il vento della lontananza – che è anche il vento dell’infinito (dell’infinito trascorrimento, che è, insieme, progressivo, infinito trascendimento del finito) – trascina il finito nel vortice lento, nell’abisso d’un vuoto. “Vuoto di una nube / che cammina nel vuoto”. Vuoto che ricade nel vuoto: puro nulla. L’in-finito ha così dissolto l’abbraccio (finito-infinito) dell’io e del tu, la poetica consistenza del finito, nel “niente” della sua leopardiana irrealtà. Ed è solo oltre questo infinito – è solo “lasciando questo niente al niente” (al suo rivelarsi, cioè, ancora una volta leopardianamente, quale prodotto dell’immaginazione), che sarà forse possibile muovere finalmente verso un nuovo confine: “un confine dove incontrare / il paese della tua pelle”. Ed è il con-fine del finito – la sua forma, la sua realtà viva perché formata – che Prete anela d’incontrare, di toccare, in questo verso. Oltre il confine di questo niente che è l’assoluta, l’infinita separazione e lontananza (separazione e lontananza che aboliscono, infine, la continuità tra il prossimo ed il lontano) – là dove questo niente ha dissolto ormai la propria parvenza di realtà, e come niente si è rivelato e consumato – ecco dischiudersi allora nuovamente, raccolta tra confini reali, la possibilità di riattingere la realtà finita, “il paese della tua pelle”, il paese che – poiché ha forma – occhi possono guardare, mani toccare. Possibilità, si è detto: ché la poesia si chiude nel segno, ancora una volta enigmatico, della distanza e della separazione. Il poeta si fa “isola” a sé: “un cerchio di cenere” lo chiude “tra gli spini e la sabbia”: oltre quel cerchio è un nuovo infinito che, quasi dèmone, accenna, al poeta impedito. La vela dell’infinito cavalca l’orizzonte. L’incontro con il tu è perso nel vuoto. Il cerchio della prossimità estrema, custodita nel calore dell’infinito-finito ricongiunti, s’è fatto “cerchio di cenere”: di fredda, di spenta cenere: e una cattiva infinità occhieggia perciò di là dall’isola della solitudine.

 

Su Lontananza, ancora. “Il vento ha svuotato / le sillabe del tuo nome, non ha contorni il ricordo, / e di me non sai nulla, / anch’io sono per te la lontananza / che non ha occhi né mani, / sono il vuoto di una nube / che cammina nel vuoto”. Vento della lontananza che sperde e smembra la parola – il suo abbraccio, il suo intreccio di sillabe -, vento che le sillabe fa lontane: come il ricordo: anch’esso, come la parola, senza più “contorni”. Vento che rompe la parola: la sua breve, precaria, fragile “unità”: trasparente solo nell’addio. Parola che vive sulla soglia, che trema e parla nel suo finire: parola che il vento sperde, ma che è vento, insieme, essa stessa: perdersi e insieme soffiare, nel vento, d’un vento: soffio e palpito del prossimo nel lontano. L’abbraccio, dunque: l’intreccio delle sillabe: e dopo il saluto, sulla soglia dell’addio, la loro separazione: e, con la separazione, lo sprigionarsi d’una risonanza. Risonanza che è come l’armonico d’un addio: che si scioglie ed apre con lo sciogliersi dell’abbraccio. Mossa ed animata sostanza della parola poetica, che il vento della lontananza increspa e penetra, e lascia risuonare. Ma Lontananza si apre nel punto in cui l’estremo della lontananza sconfina nella perdita e lo sfumare ancora risonante dei contorni del ricordo… precipita nel nulla. Ciò che risuona, risuona allora nel perdersi, nel congedarsi per sempre: risuona sulla soglia del nulla: del disfarsi d’una lingua che, nel disfarsi, si anima e disfa insieme: trans-parenza: apparire in un passaggio. “E di me non sai nulla, / anch’io sono per te la lontananza, / che non ha occhi né mani, / sono il vuoto di una nube / che cammina nel vuoto”. Di là dalla fuggevole trasparenza della lingua, ecco allora il vuoto di una nube che l’appanna. “Vuoto di una nube / che cammina nel vuoto”: impossibilità d’un incontro che intrecci le “mani”, d’uno sguardo trepido che avvinca gli “occhi” come le sillabe: come le sillabe di quel “nome” che ti fa riconoscibile, individua, visibile, formata, a me (del tutto) prossima. “Nome”, e figura, e forma, che la vuota nube offuscano: che rubano alla vista, alla trans-parenza dell’addio: della lingua in cui corre e balena un saluto. Prete cerca allora un nuovo confine – scoglio allo smarrimento in questo in-finito niente, alba di una nuova forma, porto di prossimità, di un ri-trovamento. “C’è un confine – si chiede – verso cui muovere, / lasciando questo niente al niente, / un confine dove incontrare / il paese della tua pelle?” L’infinità della risonanza ha aperto la parola, ma per poco, alla sua trasparenza, e insieme, e proprio per ciò, l’ha dissolta. Un nuovo confine e “paese”, il più prossimo e caldo, il più impenetrabile e presente, il più tangibile e vivo – non più lingua, non più ricordo, non più presenza nell’assenza, non più trans-parenza – quello “della tua pelle”, cerca il poeta oltre il niente del niente in cui si è inabissato il ricordo, spenta la risonanza: ma pare riesca, infine, solo in una prossimità che è piuttosto l’estrema esposizione del sé alla sua propria solitudine: nel suo stretto perimetro – tra gli “spini” di una desolata finitezza battuta dai marosi dell’in-finito, e “la sabbia” d’un’incerta, mobile condizione di naufrago – ecco allora disegnarsi “un cerchio di cenere”: ultimi e spenti resti d’un addio che non risuona, ormai. Ed “una vela cavalca l’orizzonte”: un viaggio ricomincia. Il dèmone riappare, della lontananza.

Nelle Crete

 

L’onda di terra e di pensosa dolcezza

che dalla città di pietra e di gridati

vessilli s’allontana verso  balze

di castagni, verso sperduti torrioni,

sventagliandosi in poggi e in sentieri,

ha venti che la carezzano nei solchi

e brividi di giallo che annunciano

la sera, con  la fiorita di stelle

che la sovrasterà.

 

Eppure in quel vuoto d’alberi,

in quella persa allegria di fogliame,

l’orlo dell’estremo niente

si mostra con un tepore

di appartenenza, con un arido guizzo

di prossimità alla sapienza delle ombre,

al loro  dialogo assiduo con la luce.

 

 

Si può avvertire, qui, il suono

della lontananza che lambisce la quiete,

perché  la terra è parte del cielo.

E il silenzio incatena l’arabesco

astrale al volo rapido del fagiano

che cerca il cespuglio,

al tonfo del ranocchio nello stagno,

al filare di cipressi che si adagia

sulla curva e lentamente affonda nel nero.

 

Su Nelle crete. L’onda di terra, la sua linea e curva, che aprono Nelle Crete, è il confine stagliato nell’ora del tramonto: e l’onda è ciò che lambisce la riva, il limite, la sponda. Onda che si prolunga, così canta Prete, in una “pensosa dolcezza”. Dolcezza pensosa: immagine dell’indugio: dell’indugio del pensiero e dello sguardo, che contemplano e “fermano”, o vorrebbero fermare, l’ora… La linea dell’onda corre però, e s’allontana, “dalla città di pietra e di gridati / vessilli” “verso balze di castagni, verso sperduti torrioni”. E la mente corre alla hölderliniana Metà della vita, alle “mura” che la chiudono, e che – mute e fredde – si levano, mentre stridono nel vento – come i “gridati vessilli” – le banderuole…  Ma dalla “pietra” della città, dal duro e muto garrire dei vessilli (come un’inquietudine che genera il movimento), ecco che la linea dell’onda corre, sollevandosi e come sormontandoli, verso le “balze di castagni”, verso “sperduti torrioni” – appelli di lontananza – “sventagliandosi”, aprendosi cioè verso poggi e sentieri… Qui, come altrove in Prete, è il passaggio dalla “pietra” al “celeste”: dal finito all’infinito, dal prossimo al lontano… E l’onda ha, per ciò, “venti”, ormai, che la città “carezzano” fin dentro, “nei solchi” che paiono anch’essi aprirsi ad ospitare la gialla luce del tramonto – i  suoi “brividi”: nei solchi, nelle pieghe dell’anima che quel tramonto – annunciando la sera – sembra, di nuovo, “carezzare”. Il vento della lontananza si raccoglie così nell’intimità, nella prossimità estrema di questi anfratti della terra, e del cuore, in seno ai quali, lenta, si ritira la luce d’un addio. Il pathos dell’addio si “placherà”, poi, nella fiorita di stelle, nella tremante e chiara epifania dell’eterno. Ma in quel “vuoto d’alberi”, incisi nel tramonto, fatti ormai sagome scure contro il cielo; nell’allegria segreta, nel fremito appena percettibile, non più visibile – “perso” – del fogliame, il confine dell’estremo niente, dell’abisso sull’infinito nulla dell’esser-passato, “si mostra con un tepore / di appartenenza”: nell’estremo prossimità e lontananza “ascoltano”, insieme, il calore e la vertigine dell’addio: si fanno struggimento sommesso e interrogante della finitudine. E per ciò “arido” è il “guizzo di prossimità alla sapienza delle ombre”: come arida è l’asciutta consapevolezza del passare – della finitezza: la composta commozione dell’addio; come arido, perché “fermo”, è lo sguardo su di essa. Arido, ultimo guizzo tra le ombre “sapienti”: che sanno, o sembrano sapere, dunque, anch’esse, del finito – e per ciò intrecciano un “dialogo assiduo” con la luce che, insieme, stringono fino a rapire. Abbraccio dell’ombra e della luce, del suono della lontananza e della quiete che quel suono lambisce, perché la terra, il finito, è “parte” dell’infinito: “del cielo”. E di un nuovo mistero – nel nero che più e più macchia il paesaggio – risuona, a sera, “il volo rapido”, entro il cerchio del finito, “del fagiano / che cerca il cespuglio”: porto remoto e profondo, in seno al più fondo finito, nel quale rifugiarsi; d’un nuovo mistero risuona il “tonfo del ranocchio nello stagno”, s’avvolge “il filare di cipressi che si adagia / sulla curva e lentamente affonda nel nero”. E tutto – volo di fagiano, tonfo di ranocchio, filare di cipressi – il silenzio incatena all’astrale, enimmatico arabesco di già fiorito in cielo. “Le mani della sera”, come altrove, con sottile metafora, ha detto Prete, a tutto infondono una voce nuova: di là dallo schermo, dall’appanno del “giorno” e del finito, un cosmo di stupefatta, di cristallina e insieme deserta chiarità e musica s’è aperto ora nella notte.

Cade tempo dal cielo

 

 

Il cane fiuta l’effluvio delle zolle

che annuncia la sera.

Sull’onda rosagrigia delle crete

filari d’alberi scuri risalgono

verso i poggi. Dall’orizzonte dilagando

si versa sulle ultime colline

il giallo del tramonto.

 

Cade tempo dal cielo,

muore silenzioso nel fogliame.

 

Stanno,  animali e uomini, nel cuore

dell’ addio, nel suo battito che è in accordo

col soffio delle piante,

mentre la terra  cerca il sonno,

e la prima stella trapunge sovrana

il mantello della lontananza.

 

 

Su Cade tempo dal cielo. Animali e uomini appaiono in Cade tempo dal cielo affratellati, avvolti in un’unica pietas. “Il cane fiuta l’effluvio delle zolle / che annuncia la sera”. Nell’aria di questo tramonto è già come il profumo, il presagio dell’addio. E per ciò “sull’onda rosagrigia delle crete / filari d’alberi scuri risalgono verso i poggi”. Risalgono: come congedandosi, dunque: come ritornando “verso i poggi” della lontananza. Il poeta ha come l’illusione d’un loro movimento, mentre contempla – insieme – l’incidersi netto, il fermo stagliarsi delle loro sagome scure contro il cielo. Movimento e stasi: struggente sostare sulla soglia dell’addio. Volontà di fermare ciò che, destinato a fuggire, si muove, risale, s’allontana. Ciò che “deve” finire è protratto, prolungato su questa soglia: e per ciò il giallo del tramonto “dilaga” dall’orizzonte: l’infinito “si versa sulle ultime colline”, avvolge – sospendendolo e come “innalzandolo” nell’infinito – il finito del confine. Finito e infinito paiono confondersi: dall’infinito cielo cade il finito del tempo, e, insieme, in seno al finito riappare l’infinito – se il tempo in seno al fogliame “muore silenzioso”, risvegliando così la leopardiana, la silenziosa e pur frusciante musica dell’eterno – che è, però, insieme, eterno morire. La morte del tempo è, allora, solo l’eterno morire. E uomini, ed animali, dimorano nel cuore, nel battito di questo addio; e l’addio, il suo “profumo”, s’accordano col soffio delle piante, le avvolgono di pietas: di quella pietas che, sola, “comprende” – e così insieme “trascende” – la sofferenza dell’addio (del distacco, della separazione), che ha già varcato la soglia oltre la quale è solo l’infinito della perdita, l’assoluto della finitezza – e che, sola, può perciò “comprendere” – nell’“infinito” del suo simpatetico gesto – quel “finito” che è la vita. Pietas che fiorisce, dunque, nel consumarsi di questo addio, ma che per ciò stesso guarda e saluta, insieme con la fugacità e la finitezza, anche la bellezza – la più nuda ed autentica – della vita: di ogni vita. Il momento della com-prensione, dell’infinita unificazione di finito ed infinito – lungi dal risolversi nell’infinità, nell’assoluto ed astratto, vorace ed egoistico, “com-prehendere” di un con-cetto che tutto a sé annetta e assimili (conceptum in senso etimologico) – si raccoglie piuttosto in una disposizione, in un atto di creaturale, di cosmica sym-pátheia, di com-prensione, certo – ma nella pietas, nel sommesso, silenzioso, condiviso pathos della finitezza. Ciò che è “preso insieme” è preso così “nel dolore”. Ed è, ancora una volta, questa di Prete, “l’ora di Compieta”, l’ultima preghiera nell’ora che viene, non per caso, dopo i vespri. E se il breviario latino usa per quest’ora l’espressione ad completorium, che significa “alla chiusura”, “al compimento”, “alla conclusione” – come non pensare, allora, al “compiersinella “compieta” di finito ed infinito, dell’infinito della vita nel finito della sua finitezza? E “la terra cerca il sonno” – questo oblioso e insieme conscio struggimento della finitudine – mentre la prima stella, effigie del destino, trapunge “sovrana”, inesorabile, il mantello della lontananza.

Rosa mutabilis

 

Quando la luce diluvia dall’azzurro

e sui petali aderge la rugiada,

lei, tremando, s’imporpora,

poi, variabile stella,

accorda la tastiera dei colori

al movimento dei corpi

che vorticano infiammati

di celeste lontananza.

 

Il fiato della terra la dischiude

al brivido di fragilità e vertigine,

e il cielo, frugando nel suo cuore,

la fa pensosa del mondo,

della sua follia,

 

mutabilis rosa, poesia.

 

Su Rosa mutabilis. “Quando la luce diluvia dall’azzurro / e sui petali aderge la rugiada, / lei, tremando, s’imporpora, / poi, variabile stella, / accorda la tastiera dei colori / al movimento dei corpi / che vorticano infiammati / di celeste lontananza”. Per un momento, protesa su d’un’estremità, la “poesia” si accende, tremando, del suo fugace, ma assoluto, caldo colore. Trema e s’imporpora – per farsi presto, però – troppo presto – mutabile, inafferrabile iridescenza, “stella variabile”.  Poesia che si rivela, che si dichiara (ma per poco), sulla soglia: che si “aderge” (sull’estremo, dunque), fugace – come la rugiada sui petali – nella luce (per poco) propizia al suo svelamento. Luce che diluvia, che diluviando imporpora (per poco) la rugiada sui petali, rade l’estremo – in esso si raccoglie. Luce che, diluviando, accarezza (per poco) svegliandola, irradiandola – la luce, la “voce” della poesia; si adagia sul “petalo”, sull’estrema (e già fragile) propaggine della fioritura: fioritura del dire, epifania di tremante bellezza e verità. Ma oltre la soglia, di là dal confine – attinta che abbia, la rugiada, l’estremità dei petali – ecco che, trascolorando la porpora, la rossa, la rorida stella (della poesia) si fa “variabile”, si distende, si placa in una tastiera di colori. E prende vita e congedo, insieme, nel movimento dei corpi – dei corpi celesti -,  e questi avvolgendo, infiamma di “celeste lontananza”. Poesia che si apre ed effonde nello spazio – nello spazio che è sempre, insieme, campitura di lontananze – e che si fa trasparente, impalpabile iridescenza: vita dei colori e colore della vita. E che l’una mescola nell’altro. Poesia che tutto “anima”, che si dirama, e che, proprio per ciò, si fa inafferrabile: armonia che, proprio in virtù del suo accordo, tutto permea e “trascolora”: e in tutto si nasconde, e muta, e balena. La seconda strofe di Rosa mutabilis prosegue e prolunga l’apertura della prima – l’apertura nello spazio, “infiammato”, ormai, di celeste, d’iridiscente, di trasparente lontananza – nel levarsi di un fiato (lungo e “lontano” anch’esso): è “il fiato della terra”, che “la dischiude”, così scrive Prete, “a un brivido di fragilità e vertigine”. L’immagine dell’estremo è ripresa, e ritorna, ma rivisitata, e quasi, si direbbe, “inverata”. La fragilità cui si abbandona e cede l’estremo della fioritura – non meno che la vertigine, sempre in agguato (leopardianamente) sull’ultimo lembo del pensiero, della immaginazione – si trasmutano nella “fragilità” (e nel fascino) della misteriosa inconsistenza della poesia, nella tenue “vertigine” dei suoi mischiati, impalpabili colori. Ma il suo “cuore” – il cuore della poesia – dov’è? Il cuore che tremò, imporporandosi, per un attimo, sul ciglio di un rorido petalo, prima di nascondersi, per poi riapparire, in seno alla “celeste”, iridiscente “lontananza”? A “frugare” in questo cuore – secondo l’immagine di Prete – è “il cielo”. Quel cielo che è insieme il “cielo” della poesia e la “poesia” del cielo: che è, perciò, insieme, pensiero e immagine. Quel cielo che la poesia fa pensosa del mondo: della sua “follia”, della sua “verità”.  Poesia mutabile e folle – folle perché mutabile – eppur pensosa.

 

Pioggia

 

Sotto il velo della pioggia le piante

piegano foglie, spengono i pensieri.

 

Si rifugiano i nomi nell’opaca

eguaglianza delle forme, e la malva,

il tarassaco, il topinambur, il papavero

s’infogliano in unico verde

flagellato dalla musica d’acqua.

 

I fiori serrano i petali nell’urna.

 

Il vento sferza la chioma del tiglio

che ha memoria di una sera ospitale,

del suo inatteso tepore.

Nessuna luce marina che inviti

ora a un brivido di presenza.

Solo il grigio delle raffiche

che cancella la linea dei poggi

e trascina nel concerto stregato

anche il cielo e le sue iridescenze.

 

Fluttuano nella stanza del ricordo

nubilose sfigurate parvenze.

 

Su Pioggia. Una nube d’acqua che offusca, e foglie battute dalla pioggia, e pensieri che la pioggia ottunde fino a spegnere, aprono questa lirica: tra le più belle di Antonio Prete. “Sotto il velo della pioggia le piante / piegano le foglie, spengono pensieri”. “Si rifugiano i nomi nell’opaca / eguaglianza delle forme, e la malva, / il tarassaco, il topinambur, il papavero / s’infogliano in un unico verde / flagellato dalla musica d’acqua”. Pèrdono (così negandosi all’apertura, al fiorire dell’“ospitalità”) forme e nomi di “individui”, i fiori – che forma e nome nascondono “serrando” “i petali nell’urna” – e così le piante: e si fanno – fiori e piante – eguali, si fondono e “s’infogliano” in un “verde” indistinto, opaco, “unico”, macchia che la musica d’acqua, flagellando, confonde. Solo un tiglio –  misterioso e caro, visibile ancora, sferzato dal vento, quasi uomo anch’esso in questo jardin de la souffrance – sembra ricordi qualcosa: d’“una sera ospitale”, e del suo “inatteso tepore”. “Inatteso”, improvviso tepore d’una sera ospitale: d’una sera quieta, che la memoria ripara; d’una sera in seno a cui la pioggia non tace che da un pezzo, e in fondo alla quale tutto il giorno pare indugi, ormai; d’una sera propizia al rifiorire. Inatteso, improvviso, ospitale tepore d’un ricordo: d’un ricordo che fiorisce e ci visita – quasi sorpresa – e che irrompe perciò, lievemente destandoci (ma per poco), oltre la soglia del suo esser-passato; ricordo che “confonde” – in un presente – finito ed infinito, presente e passato: che questi non confonde – come la pioggia – cancellandoli, ma che l’uno nell’altro lascia sconfinare. Breve ricordo, tuttavia – troppo breve, se – come già constata il poeta – “nessuna luce marina” (nessuna luce di quel mare che è leopardiana immagine dell’infinito, di quell’indugio in seno al quale soltanto il ricordo si fa presenza, il lontano si fa prossimo) pare “inviti ora” neppure “a un brivido di presenza”; se “il grigio delle raffiche” “cancella” la cara, la nota “linea dei poggi” (linea che, perché de-finita, è insieme, “presenza” e prossimità della lontananza in-finita) “e trascina nel concerto stregato”, freddo e come crudele, “anche il cielo e le sue iridescenze”. E così la presenza di quel lampo di memoria – la presenza che ospita, nel soprassalto minimo d’una intermittence du cœur, nell’inattesa epifania di una sera (di quella sera), il lontano nel prossimo, il prossimo nel lontano (presenza che è mutua ospitalità del finito e dell’infinito, improvviso e reciproco “indugiare” dell’uno nell’altro) – vanisce in nubilosa, sfigurata parvenza, fluttuante “nella stanza del ricordo”. Eppure non più solo parvenza, ma “presenza” nella formain una qualche forma visibile – si stagliava nel vento la cima del tiglio! Ricordo breve ed improvviso, che – proprio perché improvviso – infranse o sospese la legge del tempo: della sua finitezza, delle sue “soglie”, dei suoi confini: di quei confini che, disegnàtisi interi, consegnarono certo ad un passato irrevocabile – all’irrevocabile compiersi e de-finirsi e finire e così anche chiudersi delle cose – quel giorno, quell’ora, quella sera, ma che l’aprirsi, il fiorire di una “grazia” misteriosa sembra, talora, cancelli, per “ospitarci” – anche solo per un attimo – in un caldo, fugacissimo “asilo” di vera memoria.