Elogio del senno

di in: Inattualità

Francisco Goya, Don Chisciotte

Ci vuole un po’ di follia per non impazzire: una vita lucida, controllata, assennata, porta con sé il triste peso dell’inadeguatezza, che si stempera solo dissetandosi dai calici della dolce non-curanza (follia, insipienza, stoltezza – chiamatela come volete, basta che tenga lontana la coscienza). Pretendere di essere felici al cospetto di un universo sconfinato, e noi al suo interno come pulci di altre pulci, è arduo anche per il più saggio degli uomini, anzi – ed è questo il punto –, più si è saggi, più si è consapevoli della propria infima condizione, dalla quale non vi è scampo.

L’umanista olandese Erasmo da Rotterdam scrisse, seppur a mo’ di scherzo (forse annebbiato da quest’intento), il suo celebre Elogio della follia (1511) per ricordare agli uomini la loro paradossale volontà di elevarsi dall’ignoranza – che poi, se vogliamo dirla tutta, non è affatto universale – a discapito della felicità. Per la Follia, che in quest’opera parla in prima persona in quanto divinità a cui tutti dovrebbero prostrarsi, o perlomeno esser grati, l’uomo senza di essa è condannato all’infelicità. Secondo i suoi calcoli follia equivale a piacere, mentre saggezza ad affanno. Più si è folli, cioè a dire stolti, ignoranti, avventati, più si godrà della vita; al contrario, più si è saggi, ovvero prudenti, curiosi e lungimiranti, più facilmente si cadrà nel tormento – e «la vita, quand’è triste, non merita più questo nome» 1. Ed effettivamente, senza adulazione, facezie, indulgenza, inganno – tutti seguaci della Follia – che fine farebbe la nostra società? Scomparirebbe, questa la sua sentenza. La “razza” più triste, dunque, non può che essere quella dei filosofi, e gli Stoici su tutti, in quanto dominatori di passioni e piaceri. Tuttavia qui Erasmo si scorda (oppure fa finta di scordarsi) che filosofia significa amore per la sapienza, e che, dunque, nello stesso termine “filosofia” è incluso il concetto di passione. Paradossalmente, anche l’inseguimento dell’atarassia stoica è una vera e propria passione, e anche se gli stessi Stoici non erano consapevoli (?) di ciò, il loro intento era comunque quello di raggiungere, attraverso di essa, la vera felicità (altra rispetto a quella di cui parla la Follia), fermo restando che quella dei “folli” rimane la felicità di più facile accesso. Il filosofo non è dunque insensibile al piacere e votato all’infelicità, semplicemente contempla un tipo diverso di piacere, legato all’appagamento della conoscenza, e percorre tragitti alternativi per raggiungerlo. Ma per la Follia l’esistenza è un inganno, una commedia; la nuda verità ci ucciderebbe ed per questo che il filosofo, troppo curioso, vero e proprio guastafeste, appare alla folla di stolti – ironia della sorte – come un “pazzo furioso”, un uomo frustrato per non essere un dio. L’uomo, per sopportare la vita, deve recitare la sua parte, senza chiedersi se questo abbia o no un senso, «giacché male si conduce chi non si adatta ai tempi e alle condizioni del mercato né si ricorda della legge dei conviti: “Bevi o vattene!”, perché pretenderebbe che la commedia non fosse una commedia» 2. Paradosso dei paradossi: la Follia appare qui come la vera saggezza, perché è consapevole dei suoi benefici rispetto al senno menagramo. Il problema è che se la dea Follia arriva a questa conclusione attraverso il suo speciale senno divino, non vale lo stesso per gli stolti, appunto perché sono stolti. Essi agiscono nel loro modo peculiare non per scelta ma per disposizione, per istinto. Siamo sicuri, a questo punto, di preferire la follia al senno? Preferiamo vivere senza affanno ma senza sapere che siamo felici, o perlomeno sereni, oppure sentire sulla nostra pelle il peso integrale dell’esistenza – compresa la sua meraviglia e irripetibilità – ma conoscendo, per quanto possibile, le ragioni del nostro sospirare? Sembra che una cosa escluda l’altra: che per sapere di essere felici – condizione necessaria per poter parlare di felicità – bisogna avere senno, ma viceversa per essere felici bisogna farne a meno. C’è una terza via?

Nel 1515, quattro anni dopo l’uscita dell’Elogio della follia di Erasmo, il filosofo fiorentino Niccolò Machiavelli scriveva all’amico Francesco Vettori: «Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare, et vedesse le diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti vòlti a cose grandi, et che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, inconstanti, lascivi, vòlti a cose vane. Questo modo di proccedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; et chi imita quella non può essere ripreso» 3. Ecco la terza via: imitare la natura, accettare la propria condizione senza aspirare né alla divinità né alla pura animalità – non è vero che un gatto è più felice di un uomo, perché molto probabilmente non conosce affatto i vantaggi della sua sorte –, ma vivendo semplicemente da uomini, esseri privilegiati, dotati di ragione e, come tutti gli altri animali, di istinto. Ha ragione la Follia quando dice che dobbiamo saperci adeguare ai tempi e alle “condizioni del mercato”, ma farlo veramente significa saper essere “assennati” talvolta e “folli” talaltra. Gravi e leggeri, ragionevoli e impulsivi, seri e mattacchioni. Siamo tutte e due le cose, e il segreto della felicità, se esiste, è forse la loro intima misura, il loro gioco calibrato. Ma una cosa è certa: ci vuole senno per saper alternare leggerezza e gravità, è lui che ci dice quando è il caso di lasciarci andare e quando invece è meglio usare la testa.

  1.  Erasmo da Rotterdam, Stultitiæ Laus (1551), tr. it. Elogio della follia, Mursia, Milano 1966, cit., p. 48.  
  2.  Ivi, p. 62.   
  3.  Lettera di Machiavelli a Francesco Vettori del 31 gennaio 1515, contenuta in Lettere, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 372- 376. Cfr. le famose lettere al Vettori del 3 agosto 1514 e del 31 gennaio 1515; Principe, cap. 15; Discorsi, I, 6.