Un’altra storia

In esclusiva per i lettori di Zibaldoni la postfazione di Massimo Rizzante al volume di Thomas Pavel Le vite del romanzo. Una storia, appena pubblicato da Mimesis.

di in: De libris

Partiamo dal titolo: Le vite del romanzo. Una storia. Che cosa ci vuol dire Thomas Pavel? Tre cose: che l’albero del romanzo ha diversi rami, diverse «vite»; che nel corso del tempo questo albero ha dimostrato di sapersi adattare a molti climi, riuscendo sempre a trovare il suo humus e il suo habitat; che è difficile farne la storia, cioè riferire con certezza chi per primo lo ha piantato e in quale terreno. Per fare la storia di un’arte o di un uomo dovremmo conoscere esattamente la sua data di nascita. O almeno quella della sua morte. Come pretendere di fare la storia del romanzo mentre il romanzo è ancora in vita? Nessuno storico del romanzo, per quanto sensibile ai molti anatemi lanciati contro il suo oggetto di studio, si sognerebbe mai di intraprendere un’impresa simile. Meglio, dunque, limitare le pretese e, soprattutto, diffidare – dialogarci sì, ma non cadere nella trappola – delle grandi teorie che, partendo da poche opere o da una sola o da un solo autore – a seconda dei casi, Boccaccio, Rabelais, Cervantes, Sterne, Defoe, Dostoevskij –, alla fine fondano una storia del romanzo: un lungo e traballante ponte costruito su uno o due pilastri.

Pavel, ad esempio, ha grande rispetto per Šklovskij e per Bachtin. Tuttavia, rimprovera loro, oltre che di basarsi su un numero limitato di romanzieri, di prendere troppo in considerazione i dispositivi formali. La «volontà di dar forma» artistica esprime certo la «libertà dello spirito umano», ma questo «spirito umano» non crea nel vuoto. Il romanzo, insomma, come Ian Watt spiega bene nel suo celebre Le origini del romanzo borghese, è sempre anche figlio della Storia, dell’economia e della società. D’altra parte Pavel si rende conto che Watt, nel tentativo di dimostrare come le tecniche romanzesche siano il prodotto di un’epoca, dell’empirismo piuttosto che dell’etica protestante, rischia di eliminare le differenze artistiche tra i romanzieri. Defoe e Richardson, ad esempio, pur pubblicando i loro romanzi nello stesso periodo, scrivono in modo completamente diverso. Allora che fare?

Due cose. Rielaborare alcuni risultati raggiunti da quella che Pavel, sulla scorta del buon vecchio Erwin Rohde, chiama «storia naturale del romanzo». Ciò gli permette di adottare una rotta che chiamerei continuista – contro quella discontinui sta dei Bachtin e degli Šklovskij che vede in Rabelais piuttosto che in Sterne una rottura estetica con tutto quello che c’è prima – capace di navigare e farsi carico della «competizione tra specie narrative e la loro possibile fusione» così come si è realizzata dall’epoca ellenistica fino al XX secolo, con l’aggiunta, la cui prerogativa è quella di depotenziare l’enfasi posta da Ian Watt sulla genesi sociale dell’opera d’arte, che se all’inizio dei Tempi Moderni le differenze tra i vari sottogeneri (romanzo greco, romanzo epico-cavalleresco, romanzo pastorale, romanzo picaresco, novella) tendono a confermarsi, dal XVIII secolo in poi il romanzo nascerebbe dal loro mescolamento. In secondo luogo riprendere in mano il giovane Lukács della Teoria del romanzo, facendo rientrare la sua analisi in quella che chiama «storia riflessiva del romanzo», l’unica in grado di spiegare allo stesso tempo lo sviluppo interno del genere – le forme, gli stili – e i suoi «legami con il mondo dello spirito umano».

Qui veniamo al passaggio decisivo, il più decisivo di tutti, e che ci fa capire bene il senso dell’epigrafe di George Sand posta da Pavel all’inizio del suo libro: «L’arte non è lo studio della realtà oggettiva, ma la ricerca della verità ideale».

Lukács, come tutti i suoi predecessori che si sono formati nella cultura tedesca tra il XIX e il XX secolo, ci dice Pavel, ha idealizzato la polis greca, rappresentandola come la forma perfetta di civiltà. Questa forma perfetta di civiltà aveva il suo corrispettivo artistico nell’epica e poi nella tragedia, dove gli eroi hanno un destino, si sottomettono al fato e accettano il mondo in cui vivo- no. Più tardi – esattamente non si sa quando, ma probabilmente all’inizio dei Tempi Moderni – gli eroi cominciano a non accettare più il mondo com’è, a scorgerne i difetti, le imperfezioni: non riescono più ad «abitarlo», come dice Lukács, come se fosse davvero la loro casa. Da eroi diventano «eroi problematici», tanto che le loro esistenze assumono un significato solo in relazione a un mondo ideale che per altro non esiste fuori dalle loro teste.

Pavel tralascia la soluzione dialettica del filosofo ungherese – idealismo astratto, disillusione romantica e riconciliazione – così come i suoi pendant letterari – Don Chisciotte, Oblomov, Wilhelm Meister –, troppo pochi per rendere conto della continuità storica di un genere che ai suoi occhi è nato molto prima dell’inizio dei Tempi Moderni. Tuttavia, il nocciolo idealista, una volta sbucciato il frutto idealistico della Teoria del romanzo, resta: il romanzo ritrae il mondo, il suo fluire, i suoi cambiamenti, ma quello che davvero ritrae è il problema che il mondo è diventato per un individuo che si sente separato dal mondo, in esilio, e che reputa questo esilio il suo bene più prezioso. Nelle parole di Pavel: «Il romanzo si chiede se gli ideali morali appartengano o meno al mondo umano».

Detto questo, c’è ancora qualcosa nel libro di Pavel che non c’è in quello di Lukács: l’analisi delle Etiopiche, e un infinito, prezioso, appassionato cammino di letture romanzesche lungo più di quindici secoli, da Eliodoro alla fine del XX secolo.

Pur non avendo un vero e proprio valore fondativo, le Etiopiche di Eliodoro possiedono per Pavel le caratteristiche esemplari di quello che diventerà il grande albero del romanzo. Come mai?

Sotto l’Impero romano, tra il I e il V secolo, nel bacino del Mediterraneo succede qualcosa di straordinario: l’uomo da adoratore di molti dei si fa monoteista e consegna la sua anima nelle mani di una sola divinità. Non è tanto il fatto che gli dei da molti diventano uno che segna il sentimento umano di quell’epoca, quanto la scoperta che la divinità non si rivela più nella natura o negli oggetti. Dio è lontano dal mondo e da lontano lo governa. Anzi, è proprio la sua lontananza a rendere più assoluto il suo governo. L’uomo, avrebbe detto Lukács, si trova così «in esilio», è solo, e deve far fronte a una realtà colma di insidie da cui si sente separato. Il romanzo nascerebbe come risposta a questa sua solitudine cosmica? E come? Proponendogli di essere forte («anime forti» sono chiamati i personaggi dei primi romanzi ellenistici e poi anche quelli dei romanzi cavallereschi, mentre quelli che verranno dopo, «i cuori sensibili» e «le psiche enigmatiche», ne saranno le variazioni), cioè di trasformare la sua anima in una fortezza inespugnabile, di appropriarsi degli ideali sublimi della divinità, di imitare quella divinità diventando anche lui un «individuo fuori dal mondo», ma non alla maniera degli asceti, quanto a quella di Cariclea e Teagene, la «coppia predestinata» protagonista delle Etiopiche.

Cariclea e Teagene, infatti, cosa fanno? Si incontrano a Delfi, si innamorano e sull’altare di un Dio tanto sublime quanto distante dalle vicende umane si promettono un amore casto fino al giorno in cui si sposano. Per il resto resistono con ostinazione alle traversie, alle prove, all’incalcolabile numero di ostacoli che il mondo sublunare, instabile e abbandonato dagli dei pone loro di fronte. E non si rassegnano: restano uniti grazie al loro ideale amoroso che allo stesso tempo li lega a Dio. La loro duplice fedeltà, che è anche una cieca sottomissione a qualcosa che non è di questo mondo, vincerà sui capricci della fortuna. Tuttavia, più che la fedeltà in sé, sarà la sua durata e la difesa tenace che la coppia farà della cittadella dell’anima che annuncerà, afferma Pavel, la creazione «di uno spazio inviolabile all’interno dell’essere umano», e con essa la nascita del romanzo.

Pavel, come quasi tutti i suoi predecessori che si sono cimentati nell’esplorare in lungo e in largo la storia delle forme romanzesche, giunge alla conclusione che la coppia Individuo-Romanzo è indivisibile: si tratta di un parto gemellare. Solo che, a differenza di quasi tutti i suoi predecessori – per quanto debba a tutti qualcosa e a tutti riconosca i suoi debiti – scarta l’ipotesi che ne siano stati i Tempi Moderni la culla: come dire che «l’epoca del disincanto» non inizia con Boccaccio, Rabelais, Cervantes, Mme de Lafayette o Sterne, ma molto prima, nella tarda antichità, con un’altra coppia, quella iniziata all’amore da una divinità sì lontana e inconoscibile ma talmente dominatrice da interiorizzarsi dentro le loro anime, anzi da creare la stessa nozione di anima come spazio interiore e fortificato capace di resistere agli assalti del mondo. Mi sembra evidente che la prospettiva etica e spirituale di Pavel concepisce la nozione di «disincanto» in termini profondamente cristiani: Cariclea e Teagene diventano individui nel momento in cui costruiscono una passerella ideale l’uno verso l’altra ed entrambi verso Dio, proiettando questo ideale sul mondo al fine di trascenderlo, di resistere alla sua incoerenza, alla sua pericolosa trivialità.

Tutto sommato, l’analisi di Pavel è legittima se leggiamo con attenzione le Etiopiche. Ma dopo? Nel Medio Evo? Nel XVI seco- lo? Nel XX?

Il problema, il mio problema, ogni volta che riprendo in mano Le vite del romanzo di Pavel è che il plurale del titolo risulta alla fine un duale, come succede nella fisica teorica dove due teorie, una volta applicate le loro determinate trasformazioni matematiche, presentano effetti fisici identici.

Perché se è vero che lo studioso non si stanca di ricordare al lettore che fin dall’inizio i grandi rami dell’albero del romanzo sono diversi, poi il lettore ne trova due, quello del «romanzo idealista», rappresentato dal romanzo greco, cavalleresco, pastorale o elegiaco e poi realista, ma nella versione virtuosa di Richardson, e quello del «romanzo anti-idealista», «denigratorio» nei confronti delle virtù umane, popolato da bricconi, furfanti e canaglie sempre intenti a fare «quello che non dovrebbero fare» e incarnato dal Satyricon, dalla novella, dal romanzo picaresco, da Rabelais, da Cervantes, dal poco virtuoso Fielding, a cui potrei aggiungere buona parte del romanzo del XX secolo, inclusi i miei numi tutelari Witold Gombrowicz, Danilo Kiše Milan Kundera… Valutato poi lo spazio che Pavel riserva alle Etiopiche rispetto al Satyricon, alla loro riscoperta da parte degli scrittori del XVI secolo, compreso Cervantes, rispetto alla tradizione novellistica italiana e francese, a Pamela rispetto a Tom Jones, e alla posizione marginale in cui colloca le «cronache» di Rabelais che, a parte la loro lunghezza, «non influiscono per nulla nel romanzo a venire», è chiaro che l’ideale della «coppia predestinata» di Eliodoro getta la sua luce aurorale lungo tutta la storia del romanzo, il quale, se a un primo sguardo appariva pieno di fronde e poi orgoglioso dei suoi due grandi rami continuamente potati e pronti a nuovi innesti, alla fine non può che offrire al pellegrino stanco l’ombra smisurata di un unico ramo solitario.

Tuttavia, comprendo e ammiro il grande sforzo di Pavel, che non per nulla è anche un romanziere. Non solo quello dello studioso che per vent’anni ha letto con passione libri che quasi nessuno legge più, o che al massimo qualche professore dice di aver letto, ma soprattutto quello dell’uomo che agli inizi del XXI secolo non riconosce più nel romanzo – e nella sua parola «egoista», «sarcastica», «denigratoria», intrisa di comicità e priva di morale, dominata non dal destino ma dal caso – un nostro compagno di libertà sulla strada dell’emancipazione infinita dalle nostre illusioni. Dove ci ha portato questa idea di libertà, questa messa alla berlina delle ragioni del cuore e messa in ridicolo di quelle della stessa ragione che il romanzo, secondo molti scrittori e studiosi del passato e del presente, incarna? Non so. Forse Thomas Pavel non ha torto: nel mondo di Eliodoro, come nella nostra nuova epoca ellenistica, la sola soluzione che ci rende un po’ più sicuri all’ombra smisurata dell’unico ramo solitario del suo albero del romanzo è quella di «aspirare a un ideale».

Tuttavia, per quanto mi senta fuori dal mondo, in me c’è un usciere teppista, un briccone, che non smette di aprire la porta della sua anima forte, sensibile ed enigmatica alla modesta bellezza delle cose umane o che più semplicemente se ne sta sulla soglia del suo appartamento al terzo piano di una città invivibile. E pur sentendosi in esilio attende e si chiede: perché cercare questo ideale nel romanzo e non invece nella religione?