Traumi e vittime nella letteratura contemporanea

Daniele Giglioli, docente di Letterature comparate all’Università di Bergamo e critico letterario, ha pubblicato, tra gli altri, "All’ordine del giorno è il terrore" (Bompiani 2007), "Senza trauma" (Quodlibet 2011), "Critica della vittima" (Nottetempo 2014) e "Stato di minorità" (Laterza 2015).

Nel libro Senza trauma (Quodlibet, 2011) tu sostieni che viviamo in un’epoca in cui le occasioni di trauma mancano e allora gli scrittori italiani li immaginano.

Quel libro rielabora l’esperienza di un autore che ha avuto la sua educazione sentimentale negli anni Ottanta del secolo scorso. Erano anni di ingannevole prosperità, almeno quanto alla rappresentazione che davano di sé, tutta incentrata sull’egemonia culturale dei privilegiati e sul miraggio che i privilegi potessero miracolosamente “sgocciolare” sui ceti subalterni. Credo che molti autori si siano dedicati alla ricerca di traumi immaginari – delitti, complotti, apocalissi, abiezioni – per bucare la coltre di rappresentazioni sociali pacificate e opulente che soffocava il loro immaginario. A una realtà su cui sembra esserci poco da dire, se non la si affronta nella sua brutale insignificanza di vita interamente asservita alla riproduzione mercantile, si contrappone una sorta di “nocciolo oscuro del reale”, paralizzante perché terrificante, che giustifica la mancata presa sugli eventi da cui ci si sente affetti.

 

Il trauma inventato ha meno forza nella resa artistica rispetto al trauma realmente vissuto?

Se così fosse dovremmo rinunciare all’idea stessa di invenzione, con conseguenze rovinose per la nostra immaginazione.

 

Credi che negli scrittori italiani delle ultime generazioni domini piuttosto una fuga dalla realtà?

No, credo abbiano sofferto, come tutti, la miseria simbolica dello strumento di cui gli scrittori devono servirsi, la lingua comune. Pensa al cumulo intollerabile di stereotipi, metafore morte, cliché narrativi e argomentativi da cui è afflitto il linguaggio della politica intesa come luogo del nostro essere in comune. Gli si potrebbe rimproverare semmai di non aver sentito come contro questa miseria era necessario concentrarsi soprattutto sul rinnovamento dei mezzi linguistici, stilistici, formali e compositivi, invece che sull’insistenza su temi orrorifici o sensazionalistici. Lo stile, diceva Proust, non è solo un fatto di tecnica, ma di visione.

 

Però, prendendo in esame gli scrittori che si sono cimentati con la narrativa di genere,tu scrivi che da essa emerge soprattutto una contro storia della società italiana dominata dall’idea del complotto, eludendo così le domande che la realtà pone.

Il complotto è rassicurante. Se non possiamo nulla è perché da qualche parte c’è qualcuno che sa tutto, può tutto, vuole tutto. La nostra impotenza si spiega, si giustifica. Che potevamo fare contro poteri così onnipotenti? Al tempo stesso il mito del complotto salvaguarda, sia pure in modo distorto e mistificato, l’idea che gli esseri umani possono qualcosa, e anzi molto: non noi, certo, ma qualcuno sì, il che testimonia che la storia non la fanno i meccanismi acefali dell’economia o della complessità sistemica, ma l’agire consapevole degli uomini e delle donne.

 

L’altro genere che prendi in esame è l’autofiction, credi sia una forma narrativa poco efficace per raccontare la realtà?

L’autofiction è un fenomeno affascinante. Credo però che nel suo fascino stia anche il suo rischio perché estende i poteri della parte più immaginaria – come la psicoanalisi ci insegna – di noi: il nostro Io, ciò che crediamo di essere, e che è in realtà qualcosa di molto diverso dal Soggetto che realmente siamo. C’è nell’autofiction una sorta di resa giubilatoria all’immaginario, inteso come menzogna, mistificazione, rappresentazione vantaggiosa. La grande letteratura del Novecento era stata una lunga lotta contro l’Io, la superficie, la corazza, l’autogiustificazione, la complicità con lo stato delle cose.

 

In Critica della vittima (Nottetempo, 2014) teorizzi che l’eroe del nostro tempoè la vittima.

La mitologia della vittima ha a che vedere con la sostituzione del tema della soggettività (Che fare? Cosa posso fare?) con quello dell’identità (Chi sono?). Ma l’identità è un concetto scivoloso. La vittima è invece qualcuno che non ha bisogno di mettere in questione le ragioni che l’hanno fatta essere tale. Posizione passiva, deresponsabilizzante, non interpella sul piano dell’agire e nemmeno dell’essere, ma dell’avere: la condizione di vittima, da qualcosa che si è, trapassa in qualcosa che si ha, si possiede, si può rivendicare, inalberandola come un controvalore in cambio del quale esigere risarcimento, diritto, empatia, riconoscimento. Azzerando la dialettica hegeliana tra servo e padrone, la vittima chiede di essere riconosciuta in quanto soccombente. Il rischio non è più davanti ma alle spalle, i dadi sono lanciati e non rimane che ritirare una perdita che diventa paradossalmente una vincita.

 

Nel tuo ultimo libro Stato di minorità (Laterza, 2015) ti poni l’obiettivo di elaborare un lutto: quale?

Quello della scomparsa della dimensione politica dall’esperienza concreta: una politica intesa come cittadinanza attiva, prassi che non si limita a gestire l’esistente ma si investedel diritto di cambiarlo anche radicalmente. Non che il mondo non cambi, solo che a decidere come sono sempre di più delle agenzie apparentemente impersonali – i mercati, il rating, i network, gli organismi sovranazionali come l’UE – che rispondono in realtà agli interessi di gruppi ristretti. Ma che resta dell’animale umano quando gli è precluso l’accesso alla politica? Che resta della promessa di emancipazione che è stata la modernità, l’uscita dallo stato di minorità, il camminare eretti, l’essere in altre parole non sudditi ma cittadini? E poi le parole d’ordine della modernità – emancipazione, soggettività, sovranità popolare – non sono state sostituite da altre, magari più amare ma almeno attuali e in grado di cartografare il presente: formalmente continuano a vigere, ma così svuotate da indurre ormai soltanto un senso di rimorso, di appuntamento mancato, di promessa non mantenuta.