Un ricordo di Mario Marti

di in: Iuncturae

Mentre scrivo questo breve ricordo di Mario Marti, ho fra le mani il suo “Leopardino” del 1944, il volumetto uscito nella prestigiosa “Biblioteca del Leonardo” dell’Editore Sansoni, quando il suo autore era ancora impegnato sul fronte di guerra. Il libro sulla formazione del giovane Leopardi, che è una rielaborazione della tesi di laurea alla Normale di Pisa con il grande critico letterario Luigi Russo, è la prima pubblicazione di Mario Marti, se non propriamente in senso assoluto, certamente per rilevanza storico-critica. Prima di pubblicare questo libro, Marti lo sottopose alla supervisione di un altro gigante della critica letteraria primo-novecentesca, Attilio Momigliano. A casa Marti si conserva, come un cimelio prezioso che io ho avuto la fortuna di visionare, la copia della tesi con le correzioni e con gli interventi di Momigliano.

Parto dal “Leopardino” del 1944, perché a esso mi lega uno dei miei ultimi ricordi di Marti, in una sorta di significativa circolarità fra il primo e l’ultimo tempo della sua vita. Oramai costretto a letto, fortemente indebolito, impedito nell’uso della parola (un tormento della sua ultima fase di vita), Marti mi chiese, con grande fatica, di leggergli un pezzo del suo libro in cui si riporta una citazione dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Si tratta di una bellissima descrizione giovanile di un meriggio, tra le più notevoli rappresentazioni “meridiane” della letteratura italiana, che anticipa la vena idillica di Leopardi: e tutto questo libro di Marti, del resto, si sforza di dimostrare con fondatezza, senza mai scadere tuttavia in automatismi deterministici, come il primo periodo della vita e della formazione del poeta non sia qualcosa di avulso dal prosieguo, ma in qualche modo anticipi e prepari, a livello di erudizione e di studio filologico, l’ispirazione successiva. Già all’esordio della sua parabola critica, Marti rivelava così la sua inossidabile impostazione storicistica e la sua non comune capacità di inquadrare fenomeni culturali dentro panorami vasti, con uno sguardo lungo, di prospettiva, che solo i grandi critici sanno avere. Nonostante la sofferenza fisica, sopportata sino all’ultimo con grandissima e ammirevole dignità, Marti dimostrò di saper ancora apprezzare quel passo giovanile di Leopardi e durante la mia lettura mi abbozzò un sorriso compiaciuto; l’amore per la grande letteratura non lo aveva abbandonato neppure in quella sua estrema fase di difficoltà, né in lui erano venute meno la lucidità mentale, mai veramente ottenebrata dal peggioramento della sua condizione di salute, e l’intelligenza delle cose.

Questo episodio della parte terminale della vita di Mario Marti può apparire a prima vista secondario, ma in realtà rivela molte qualità dell’uomo e dello studioso, gettando un faro anche sulle sue predilezioni letterarie. Leopardi e Dante rappresentano, infatti, come a molti è già noto, gli autori sui quali con maggior impegno e costanza di applicazione si è applicato l’ingegno critico di Marti, anche se non sono stati gli unici: sul piano della sintonia spirituale e psicologica, Marti avvertiva ad esempio, come segnala in una bellissima lettera aperta all’amico Maurizio Nocera, una speciale consonanza con l’Ariosto domestico e feriale delle Satire, preferite rispetto al monumentale epos del Furioso, e, per le stesse ragioni di intima corrispondenza,  con un poeta di Nardò, Rogeri De Pacienza, autore di un poema celebrativo della regina Isabella Del Balzo, che Marti pubblicò nel volume inaugurale della “Biblioteca salentina di cultura”, poi divenuta “Biblioteca di scrittori salentini” (e forse il suo affetto verso il minore Rogeri era dovuto anche a questo). L’ attenzione di Marti nei confronti dei minori è peraltro un tratto fondamentale della sua attività critica, che non può essere trascurato nel contesto in cui oggi la sua persona viene ricordata: egli aveva seguito con grande interesse e con partecipe vicinanza, infatti, le sorti della “Società di Storia Patria” di Lecce, le indagini dei suoi soci puntate su aspetti spesso inediti di microstoria locale, la fioritura rigogliosa delle collezioni librarie nate e sviluppatesi all’interno di questo sodalizio culturale su meritorio impulso del Presidente Mario Spedicato. Non è difficile pensare che nell’operato della “Società di Storia Patria” egli abbia riconosciuto in qualche modo, su un livello certamente inferiore al suo per risultanze scientifiche, ma non meno significativo per l’alacre contributo dato alla riscoperta delle vicende storiche del territorio, quella sua stessa sensibilità verso zone culturali appartate e periferiche, ricollocate al centro di scenari nazionali e internazionali, quella erudizione non chiusa e pedantesca, ma aperta alla ridefinizione di panorami nuovi,  quell’attenzione verso il dettaglio rivelatore di un insieme più ampio, che caratterizzavano anche la sua attività critica. Da qui è derivata, nel corso degli anni, la sua partecipazione attiva e militante alla vita della “Società di Storia Patria” di Lecce, alle inaugurazioni degli anni sociali, i suoi interventi come relatore a convegni, come ideatore di iniziative culturali (la scelta dei temi trattati nei seminari annuali dell’Associazione è stata per molti anni dovuta a lui), come membro del Comitato scientifico della rivista “L’idomeneo”.

In secondo luogo, questo episodio degli ultimi giorni di vita di Marti conferma la sua  formidabile tenacia, il suo attaccamento alla vita intesa come esperienza piena, intensa e ricca: sino all’ultimo, compatibilmente con le sue condizioni di salute, egli ha sempre confermato, anche in età avanzatissima, curiosità conoscitiva e persino entusiasmo giovanile, quando capitava di discutere di argomenti letterari, di nuove prospettive di ricerca, di progetti editoriali. E del resto, l’ininterrotta dedizione alla ricerca letteraria, il suo intenderla come una indefettibile ragione di vita, sono dimostrati da una capacità di lavoro straordinaria, testimoniata concretamente anche negli ultimissimi anni della sua vita. Si pensi solo che Marti, negli anni dal 2005 al 2014, ha pubblicato in sequenza ben cinque libri, con una media che anche uno studioso più giovane avrebbe faticato a tenere, senza contare la sua supervisione fondamentale e decisiva sulla impegnativa operazione editoriale realizzata in occasione dei suoi cento anni e le decine di contributi sparsi pubblicati nel corso di questi dieci anni, gli ultimi suoi dieci anni di vita, in varie sedi, molti dei quali ancora in attesa di un esaustivo regesto, trattandosi di una zona della sua sterminata bibliografia mai recensita direttamente dall’autore. Tutto questo avveniva al culmine di una stagione senile vissuta sempre operosamente, con la serenità dei veri saggi, e in modo tutt’altro che rinunciatario e ripiegato: e infatti Marti mi ha confidato più volte che anche la vecchiaia poteva essere fruttifera, stimolante e persino preferibile ad altri periodi della vita, se accompagnata da buona salute, perché le passioni finalmente si stemperano e si acquisisce un diverso approccio, più distaccato e meno perturbativo, rispetto alle vicende dell’esistenza e alle relazioni umane. Questa serenità di fondo, che in Marti era l’esito di una vita eccezionale, pienamente appagante dal punto di vista professionale, era favorita anche dalla rete di rapporti antichi e nuovi che egli aveva saputo coltivare nella sua vecchiaia, magari smussando qualche asperità caratteriale del passato, senza perdere tuttavia mai in rigore e autorevolezza. È come se, insomma, lo scorcio finale della sua vita lo avesse addolcito o, meglio, ne avesse fatto emergere tratti sino ad allora rimasti sullo sfondo, come il desiderio di circondarsi di amici non necessariamente legati all’ambiente accademico, talora avvertito come ingrato e insincero. Di questa nuova disposizione spirituale e psicologica della sua senilità, che però affondava le radici nella sua vita pregressa, ugualmente intensa e laboriosa, è prova l’impostazione che Marti volle dare un anno fa alla miscellanea in onore dei suoi cento anni: non un libro accademico di colleghi cattedratici, ma una raccolta di testimonianze affettuose e di saggi su specifici aspetti della sua estesissima produzione scientifica, scritti da persone rimaste in qualche modo a lui legate e vicine (e non si curò allora, con la sua consueta determinazione, di possibili esclusioni eccellenti dovute a questo rigido criterio di selezione dei contributori).

Di questa serenità senile, condivisa con l’inseparabile moglie Franca, hanno potuto avere contezza tutti coloro (colleghi, allievi, sodali vari) che hanno avuto la fortuna di frequentarlo nell’ultima stagione della sua vita, una fortuna che è toccata anche a me: a tutti Marti dimostrava affetto, benevolenza e gratitudine con il suo sguardo vivo e con il suo sorriso luminoso, sempre prodigo di consigli e di suggerimenti, quando richiesto, continuando così a esercitare, in questa nuova forma, il suo fecondo magistero, la sua funzione maieutica e stimolatrice. Si trattava in fondo della stessa serenità idillica che affiora da quella descrizione leopardiana che egli volle gli fosse letta in punto di morte, quasi che in essa Marti – mi piace ora pensarlo – ricercasse un sigillo coerente e adeguato al suo percorso di studioso e un estremo congedo dalla sua esistenza terrena, nel segno di un amore perenne per la vita e per la letteratura.

 

[Letto il 20 febbraio 2015, in occasione dell’inaugurazione dell’anno sociale della “Società di Storia Patria” di Lecce]

[Tratto da www.iuncturae.eu del 4 marzo 2017]

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