Paralipomeni della Batracomiomachia/ 4

Ritornano i Paralipomeni leopardiani raccontati da Michele Ruele con intonazione moderna e frizzante.

CANTO II

Qui comincia il canto secondo. Il conte Leccafondi viene mandato dal re Rubatocchi a parlamentare con i granchi. Il popolo dei topi vuole sapere da quello dei granchi se l’intervento in guerra era concordato con le rane, e soprattutto se questi granchi vogliono pace o guerra. Missione pericolosa, per il conte, un valoroso intellettuale e diplomatico, che sa anche come muoversi nell’azione. Ma la situazione è precaria per i topi: sono sconfitti e in fuga, e la missione del conte è decisiva. Leccafondi parte subito, e ripercorre al ritroso la via della ritirata dell’esercito dei topi dopo la sconfitta.

Il nostro autore conte Giacomo Leopardi racconta il viaggio del conte topo con i suoi compagni, ma – che cosa vogliamo farci, così vanno le cose – era maggio e primavera, e il paesaggio intorno… ecco le divagazioni del poeta, che proprio non resiste, e non resiste nemmeno ad attaccarci dei buoni discorsi in cui il topocentrismo viene deriso, ma con quel rapimento malinconico primaverile che abbiamo tutti quando viene maggio.

Più di metà della notte era trascorsa ormai, e le stelle pudiche e taciturne si chinavano verso l’oceano, ardendo sul deserto piano.

Bè, deserto… Il topo vede e crede che sia deserto, in realtà non è solo, perché dormivano nei boschi tra gli arboscelli molte belve terrestri e molti uccelli, vicino e lontano, lenibant curas et corda oblita laborum.

Ecco, ci è scappato Virgilio: alleviavano gli affanni e dimenticavano le fatiche questi animali, nel loro cuore. Era nascosto sotto le parole del conte Leopardi e invece è venuto fuori. Il quale conte Leopardi un po’ riprende questo argomento degli uomini affannati mentre gli animali dormono dimenticando le sofferenze del giorno, come fanno tutti nella poesia che conta, un po’ prende i giro i topi con le loro illusioni topocentriche. (Gli animali, voleva dire Virgilio, avevano da ciò che lor vita affanna / tregua, silenzio, obblìo sonno e riposo, come traduce Annibale Caro nel Cinquecento. L’aere bruno / toglieva gli animai che sono in terra / dalle fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra narrava invece Dante nell’Inferno al II canto; e anche Petrarca, nella XXII del Canzoniere, qual torna a casa et qual s’anida in selva / per aver posa almen infin a l’alba. / Et io non non ò mai tregua) (e l’originale del conte Leopardi dice: le diurne / cure sopian da presso e da lontano / per boschi, per cespugli ed arboscelli / molte fere terrestri e molti uccelli).

Vedeva biancheggiare qua e là le case dei contadini il conte Leccafondi tra il verde e il cielo scuro, ora nei campi lontani ora sulla via ora sui colli. E da ciascuna udiva un latrare di cani attraverso i silenzi della notte, di tanto in tanto, e un rovistare negli orti, e nelle stalle catene suonare e scalpitare cavalle.

Trottava il conte Leccafondi nel suo viaggio rischioso affrettando assieme ai suoi compagni le quattro zampette. Trottava a piedi, intendiamoci, dice il conte Leopardi, perché cavalcare è un privilegio solo dell’uomo, che fra tante creature è il solo cavalcante ed è anche, per naturale conseguenza del ragionamento, l’unico carrozzevole.

Era maggio, che fonde l’amore e la vita… Ah lettore, questi maggi del conte Leopardi: quei maggi odorosi, quelli che tornano sempre, senza inganni, portando ramoscelli e canti agli amanti.

Insomma: era maggio, il maggio che amor con vita infonde e il conte Leccafondi udiva cantare da lontano il cucùlo, uccello misterioso, che sospira nel profondo delle selve con un verso che pare umano, che erra come un fantasma e confonde il pastore che lo insegue, ma è un cantare che non dura il suo, nasce in primavera e tramonta in estate… Ah lettore, questi uccelli del conte Leopardi, quelle creature leggere e rapide, figlie della fantasia e dell’aria: questo cucùlo, lo capisci?, è lui, è il conte Leopardi.

Non proprio un cucùlo, ma un airone nell’Iliade avevano udito Ulisse e il crudele Tidìde Diomede quando di notte in segreto passavano nel campo dei troiani accanto alle loro navi, in cerca di avventure, un airone che si dimenava e strideva, e lo avevano interpretato come un segno di fortuna e di protezione della dea Minerva, che avevano apposta pregato: allo stesso modo il topo, che stava molto attento a questi segni, sperò protezione non si sa da quale nume o dea topo o topesca, o forse gli conveniva sperare per togliersi un po’ di paura, infatti i topi considerano il cucùlo il loro dio. Su quest’ultimo fatto il conte Leopardi va detto che si rifaceva a un’opera che l’aveva davvero divertito, forse più del Canzoniere di Petrarca, scritta da un abate del Settecento, s’intitolava Gli animali parlanti: l’Ente supremo di tutti gli animali, diceva Giambattista Casti, è il gran Cucù.

Ma già dietro macchie di bosco e colline antica e stanca in cielo saliva la luna, e sui pendii erbosi e sui ramoscelli spandeva la sua luce scipita e digiuna, una luce diffusa che non faceva ombra e sbiadiva i contorni, copriva il brillio delle stelle eppure era come sempre così gradita al viaggiatore. Però ai topi il lume è poco accetto e il conte Leccafondi non era contento.

Il conte trottava a piedi, dunque, e ripestava le orme che aveva impresso per la valle e il monte nella fuga, con passo più rapido va detto, e rivedere i luoghi della sconfitta gli faceva tornare lo spavento.

Ma pietà soprattutto e sconforto gli causava, a ogni passo, vedere morti o moribondi topolini qua e là, scortati al mortale destino dalle ferite o dalla stanchezza. A questi la luna con il suo splendore languido e fioco pareva tributare l’onore estremo.

Così, muto, rivolto a profondi filosofici pensieri – tutta questa solidarietà naturale per i lutti e per le sofferenze, lettore, non è del materialista conte Leopardi, è dell’idealista conte Leccafondi – invoca e spera, dentro di sé, un rimedio efficace contro la guerra suggerito dai giornalisti d’ambo gli emisferi.

Tanto andò, che venne mattina.

Tutti desti cantavano i galli per le campagne, anche gli augelletti danzavano su per i prati al mormorar dell’òra, e la fresca aurora color porpora preparava la via alle eterne orbite del sole – «i sempiterni calli», lettore! – e ormai alzava la fronte dall’orizzonte il sole: «il re degli anni » metaforizza Giacomo Leopardi.

Ed ecco, da un poggio il topo rimirò e vide quel che cercava ma non avrebbe voluto vedere: la paura subentrò a ogni altro sentimento e non solo per quel che il conte scorgeva ma ancor di più perché quel che vedeva lo vedeva così netto ed evidente.

Sotto gli occhi aveva il campo dei granchi, proprio quelli che li avevano battuti: avevano deciso di inseguire le schiere dei topi fuggiaschi marciando a tappe forzate, e ormai erano distanti meno di una notte.

Tremava il conte, e i suoi topi servi avevano ormai dato le spalle alla terribile vista: nessun muro vallo o fossato li avrebbe trattenuti, vili e tristi; il conte, invece, fedele al proprio senso dell’onore, perché il pudore dà forza, si fece coraggio e rincorse i servi costringendoli a tornare indietro.

Poi vide verdeggiare poco lontano un uliveto, vi entrarono subito e da quel verde perpetuo colto un rametto con la zampa o con la bocca scesero ciascuno nella pianura, verso il campo nemico, con il gelo in ogni pelo, digrignando i denti per la paura.

I granchi gli furono subito addosso e volevano in quattro e quattro otto mangiarseli vivi loro e l’ulivo, e li avrebbero per lo meno ammazzati se i poveretti non si fossero difesi a parole, queste parole che potenti come sono governano il mondo.

Sì, la lingua dei granchi era barbara e selvaggia, ma la parlava il conte Leccafondi, che aveva viaggiato molto – l’avevano educato alla politica internazionale, come si dice – e conosceva tutte le lingue, imparate con studio ed esperienza; ma era esperto anche di tutti i dialetti, insomma era un Mezzofanti.

Chi era Mezzofanti, lettore, chiedi, il protagonista di questa antonomasia? Ai tempi di Leopardi Giuseppe Gaspare Mezzofanti (1774-1849) era famoso: un cardinale figlio di un falegname, professore di lingue orientali all’università di Bologna, conosceva decine di lingue. Era un filologo e un esperto di lingue antiche, proprio come il conte Leopardi. Nel 1833 succedette ad Angelo Mai nella direzione della Biblioteca Vaticana. Il conte Leopardi, te lo ricordi lettore?, ha dedicato una famosa poesia ad Angelo Mai, e aveva sperato di ottenerlo lui quel posto di direttore, quand’era giovane, all’inizio degli anni Venti, e lo avrebbe meritato, diciamocelo. È da discutere se sarebbe sopravvissuto a lungo, a Roma, in mezzo a tutti quei preti e parrucconi.

Dunque, con un po’ di retorica e con buone ragioni il conte Leccafondi addolciva quelle anime di ferro, che non avevano mai imparato le lusinghe dei bei discorsi e anzi non sospettavano nemmeno che qualcuno parlasse lingue diverse dalla loro. Credevano perfino che il topolino fosse un granchietto travestito. E poi il topo calzava gli occhiali, armi che in guerra non si erano mai viste e che non sono naturali né per uomini né per animali: insegna e onore dei letterati, sono simbolo di pace più dell’arcobaleno e dell’ulivo, cosa vuoi che faccia di male uno con gli occhiali… perciò decisero di risparmiare questi stranieri, li legarono come povere bestie e camminando sghembi al loro uso, nemici del camminar diritto, soldati di marmo, li portarono al loro Generale.

Si chiamava Brancaforte, di marmo era e scortese e rozzo, sottopose a un duro interrogatorio il conte topo, che rispose in primo luogo di essere sì delegato, ma che l’avevano legato ben più del necessario. Scusa, lettore, dice qui il conte Leopardi, io scherzo ma nell’alta epopea non si dovrebbe scherzare.

E disse ancora il conte Leccafondi che se lo slegavano gli avrebbe mostrato i documenti. Ma rispose il Generale che slegarlo proprio no, e poi lui non sapeva leggere, che glielo dicesse a voce quel che doveva dire.

E il conte topo gli raccontò tutto. Ma Brancaforte gelava sotto la crosta a udire certe parole come popolo ed elezioni, quel puro lanzichenecco, come una verginella inorridisce al fango verbale di un oste o di un autista. Prima rossa, poi pallida, e poi tutta in sé si stringe.

Dice Brancaforte: «Più ci penso, più mi convinco che tu rappresenti un potere illegittimo. Non ho intenzione di parlamentare con qualcuno eletto dal popolo. Via topi, in catene, giù in prigione!».

Massì: gli ottusi e militari granchi difendono l’assolutismo, i colti e idealisti topi credono che bastino le elezioni democratiche per darsi patenti di assoluta legittimità…

Brancaforte informa il suo re. Questo re, per quanto abbia cercato nei documenti – sostiene il conte Leopardi – era il decimonono della terza dinastia dei Senza capo. Che dire, lettore, Francesco I d’Austria (1768-1835) apparteneva proprio alla terza dinastia del Sacro Romano Impero ed era il diciannovesimo imperatore della casa degli Asburgo.

I re legittimisti si pronunciano come libri stampati. E il re dei granchi impartisce questi ordini precisi al Generale: accetterà come delegato della nazione il topo eletto, mentre il trono di Topaia è vacante; quel regno, voglia o no, deve avere presto un nuovo re; si concludono trattati solo su questi presupposti.

Il Generale Brancaforte, allora, diede ordine di liberare i topi e li lasciò parlare.

[4 – continua]