Paralipomeni della Batracomiomachia/ 2

Una versione moderna dei Paralipomeni di Giacomo Leopardi, in cui "spiritualismo, idealismo, astrazioni, religione, mitologie del mistero, nazionalismo popolare senza eroismo", ossia tutte le "nebbie che nel Romanticismo tedesco piacevano tanto", vengono mandate gambe all’aria con una risata bella e un po’ amara.

Battaglia di animali, Decretale di Gregorio IX (Francia fine XII-inizio XIII sec.)

CANTO I (seconda parte)

Antefatto: I Topi hanno vinto la guerra contro le Rane, come ha raccontato Omero. Ma, continua il conte Leopardi, i Granchi hanno assalito e dispero i Topi i quali, disperati, corrono con la coda fra le gambe verso la loro capitale Topaia. Da chi farsi guidare? Rubatocchi sembra essere il topo giusto per la difficile transizione. Questa storia eroicomica è un guazzabuglio svagato di digressioni, di invettive, di libero sbracciarsi dell’umore.

 

Dunque i topi afflitti dovevano in questa situazione difficile occuparsi della salvezza comune e impegnare tutti i loro pensieri innanzitutto a provvedersi di un nuovo capo. Darsi un capo: crudele necessità è questa, che sottomette uomini e animali, e priva tutti, in cambio della vita, del maggior bene per cui la vita è viva, la libertà.

Decisero di non scegliere un re in via definitiva. E poi, non potevano. Era meglio allora differire tutto a quando fossero tornati nella loro Topaia, la cara patria dove non hanno asilo la paura le rane e l’acqua e i granchi barbari e nefandi; e il momento del ritorno, per fortuna, non era lontano. Una volta là, avrebbero sicuramente dimenticato tutto.

Si accontentarono, intanto, di affidare a una autorità militare il comando dell’esercito e il ritorno in patria, di conferirgli il potere delle decisioni e delle azioni. Ecco, si comportarono come quando il mare si fa scuro e i marinai battuti dalla tempesta seguono fiduciosi gli ordini del capitano che governa la nave. Nell’epica, lettore, questa similitudine fra governo dello Stato e della nave la fanno sempre.

Fu eletto Rubatocchi e mille e mille topi si misero al suo comando: Rubatocchi, lui, che fu l’Achille dei topi, come strombazza Omero. Aveva combattuto da dio: a lungo, per causa sua, tante rane vedove hanno pianto amaro e si dice ancora oggi che fra i ranocchi sia terribile il nome di Rubatocchi.

 

Figurarsi se una madre rana chiamerebbe Rubatocchi suo figlio… invece qui da noi – si rammarica il conte Leopardi – senti la voci dolci delle mamme italiane chiamare Annibale ed Ermanno (Deborah e Jennifer): così è cancellata la gloria, madre di tutte le lodi, chissà se per colpa o destino, almeno dai tempi del Rinascimento. Forse che ci mancherebbero le potenzialità? Giuli e Pompei, Camilli e Germanici e Pii, bei nomi nobili con cui chiamare i bambini, quando il prete gli slavazza il ciuffo? Si potrebbe provare, dice il conte, a usarli questi bei nomi gloriosi, così per vedere se qualche giorno il ricordo dei grandi instilla nei possessori un po’ di valore, se mai saranno sconfitte le voglie indegne dal riso che infanga questi grandi nomi, quando li sentono in giro? Intanto, i turisti ci prendono in giro, scelgono di farsi dei bagni nel Trasimeno, dove Annibale le ha suonate per bene ai Romani, e si ricordano con piacere di quella strage: una vittoria che non ha consolato i Cartaginesi, a dire il vero, che ci hanno rimesso Zama e Cartagine. Quel turista là, però, che ama così poco questo bel paese, vada a nuotare anche nel Metauro e passi anche da Spoleto, già che c’è, dove sono stati i Romani a suonarle ai Cartaginesi.

Qua occorre spiegare: questo turista che amava le bellezze d’Italia e disprezzava l’Italia è Harold, il protagonista di un poema di lord Byron. Leopardi tutto sommato il suo amor di patria ce l’aveva, e poi, come abbiamo capito, non perde occasione per dare contro a un romantico. Byron aveva proprio detto così, in quel suo poema, che gli piaceva nuotare ricordando le vittorie di Annibale e i torrenti di sangue.

Ma come! Insiste il conte. Se anche noi italiani ci mettessimo a fare lo stesso gioco, potremmo andare e divertirci su molte spiagge, e anche riscaldarci con la legna di parecchi boschi e anche ammirare i tramonti su tante pianure e intanto ripeterci a memoria più di un alloro sia nelle nostre sia nelle terre loro.

 

Occorre spiegare anche qualcosa che hai già capito, lettore: il poema eroicomico è fatto di divagazioni continue, ogni argomento è buono per aprire una via secondaria del discorso. L’epica sì, quella è ordinata, compatta, serrata; la nostra povera storia è un guazzabuglio svagato di digressioni, di invettive, di libero sbracciarsi dell’umore.

 

Riprendiamo il conte, che ci sta spiegando come gli stranieri sentono l’odio nel petto quando viene fuori l’Italia e si fanno lieti di quelle antiche sconfitte, cosa peraltro che a loro non dà gloria. Molti popoli hanno sopportato dure vicende e si sono corrotti in tanto lunghe sofferenze, ma nessun’altra nazione come la nostra è tanto odiata. E questo avviene perché l’Italia invasa, serva, lacera è sì in una condizione sventurata, ma ciò che di più alto c’è nel mondo è comunque italiano, dice il conte, la gloria di Roma risplende tanto che oscura tutte le altre glorie possibili, e la superba Europa in realtà porta in sé l’orma dei nostri antenati romani. Non solo Roma classica ha resistito alla barbarie, con il suo lume mentale, ma l’Italia è tornata un’altra volta regina, vestita degnamente, ed è stato con il Rinascimento. E fu superiore al goffo straniero che oggi ride di lei, e i figli di questa regina sentivano di stare in terra straniera come in un esilio. Gli altri sentono che il loro passato e la loro memoria sono un nulla rispetto alla nostra, sentono che ogni patria è fanciulla rispetto a quella che eccede ogni grandezza e sanno bene che se non fossero strozzate nella culla le doti che le sono state concesse, se l’Italia non fosse serva, allora tornerebbe regina per la terza volta. Ecco il perché dell’odio implacabile, dell’ironico riso con cui offendono questa donna incatenata, abbandonata nella polvere, che non può difendersi né a parole né con le mani. E chi è più pietoso degli altri e accende qualche speranza fra i più illusi di noi, comunque non aiuterebbe l’onore italico, piuttosto difenderebbe i giudei. Eccolo lì il turista: sotto gli eccelsi monumenti romani, un pigmeo che guarda in su levando la fronte spensierata, dà delle bacchettate con il suo bastone da passeggio a rovine uniche al mondo, dondolando qua e là; si consola con lo scherno, lui che ha antenati che hanno servito quegli stessi che hanno costruito queste meraviglie. È logico che tutta questa grandezza generi in certa gente solo avversione.