Poeticamente abita l’uomo.
Nota sulla fotografia di Simone Nieweg

Gepflügter Acker, Neuss-Kapellen, 2001

Non compaiono mai persone nelle fotografie di Simone Nieweg: ma sempre ben percepibile è in esse la presenza dell’opera umana.

Nieweg fotografa campi coltivati, giardini e orti di comunità, ortaggi, alberete preferendo molto spesso luoghi della sua regione natale, la Vestfalia, terra di grandi pianure costellate di città a forte vocazione industriale; ecco, allora, che la fotografa cerca luoghi prossimi alle periferie, in particolare  il cosiddetto Grabeland, vale a dire aree ancora inutilizzate o destinate ad uso edificatorio e concesse temporaneamente a chi voglia coltivarle – vi vengono impiantati orti e giardini caratterizzati da costruzioni provvisorie (capanne per ricoverarvi gli attrezzi, recinzioni, sistemi di sostegno per le piante e d’irrigazione) e che testimoniano una cura della terra libera da scopi commerciali e ispirata dall’amore per la terra stessa e da un senso di comunità, visto che, spesso, si tratta d’un insieme di piccoli orti e di giardini i cui coltivatori si ritrovano uniti dalla passione comune.

Nieweg, eccellente allieva di Hilla e Bernd Becher e di quella fucina di talenti ch’è stata la “scuola fotografica di Düsseldorf”, si muove ai bordi delle città di Vestfalia, lungo i corsi d’acqua, nelle campagne e, fotografando, documenta poeticamente la gioiosa, rigorosa libertà di quegli orti, di quelle aiuole, di quei sentieri tracciati tra le coltivazioni.

Che sia attribuibile o meno a Hölderlin il passaggio che inizia In lieblicher Bläue (In amabile azzurro) e riportato nel Phaeton di Wilhelm Waiblinger, resta, credo, indubbia la bellezza dell’affermazione famosa Voll Verdienst, doch dichterisch, wohnet der Mensch auf dieser Erde (colmo di meriti, ma poeticamente, abita l’uomo su questa terra), poiché è capace di fondare e di riconoscere il valore di molte azioni del pensiero contemporaneo, compresa questa nomadica, pluridecennale ricerca di Simone Nieweg: soltanto uno sguardo così attento[1] e così paziente è capace di guardare poeticamente il mondo, di venire ad abitarlo altrettanto poeticamente – e guardare si connette, etimologicamente, alla radice indoeuropea *var che significa “osservare, vigilare, custodire”, riscontrabile anche nel tedesco Warte, posto di guardia. Accade così che le differenti tonalità del verde e del marrone, le forme delle strutture provvisorie, le circonvoluzioni delle foglie e dei viticci, le brume e le luci e le ombre siano ritmo del dialogo tra il lavoro umano e la guidata vitalità della natura.

Accade talvolta che sull’orizzonte fotografato o sui margini dell’immagine si scorgano le ciminiere di una fabbrica o i tralicci della linea elettrica: le piante coltivate, la terra smossa e lavorata, i legacci che assicurano ai pali di legno i viticci, i bidoni ricolmi d’acqua, i pannelli colorati montati a formare capanne e sgabuzzini sono l’antitesi all’impersonalità della civiltà industriale, al suo incombere, alla sua inabitabilità. Per questo l’arte fotografica di Simone Nieweg, radicandosi nel paesaggio della Vestfalia, racconta in realtà ogni luogo d’Europa (ma non solo) in cui l’individuo riesce a conquistarsi margini di libertà, a proporre e a contrapporre modi di vita sottratti agli imperativi economico-finanziari.

In un terreno classificato quale Grabeland non si possono piantare alberi né arbusti perché quel terreno, terminata la cessione temporanea, sarà destinato ad altro uso: sapere che le coltivazioni sono temporanee, ammirare l’impegno degli ortolani-giardinieri del cui lavoro e cura vediamo i pregevoli effetti, avere contezza del fatto che quegli orti, bellissimi di lavoro, probabilmente non esistono già più rendono la fotografia di Simone Nieweg un atto politico perché essa documenta l’eticità (e, si potrebbe a ragione aggiungere, la sostenibilità ambientale) di quelle opere, perché ne testimonia la bellezza senza scadere in un estetizzante snobismo, perché ne conserva memoria. Percorrere in lungo e in largo la Vestfalia per cercare la mano dell’uomo legata ancora alla terra, ancora disposta a lavorarla, a renderla fertile, a farla ricoprire di forme e di colori che sono anche sapori e profumi, soffermarsi nel silenzio di un campo arato intriso d’acqua oppure scorgere le abitazioni della periferia estrema come arginate da aiuole coltivate significa leggere un paesaggio ospitale, in continuo mutamento, provvisorio eppure abitabile o, almeno, pensabile quale luogo possibile di libertà.


[1]    «Poesia è […] attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura», Cristina Campo, Attenzione e poesia in Gli imperdonabili, Adelphi Edizioni, Milano 1987, p. 166.

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