Il bello del tempo che fu

È uscito da qualche settimana il numero 21 di “SUD”, la storica rivista “napoletana ed europea” diretta oggi da Francesco Forlani, ma fondata nel 1945 da Pasquale Prunas. Il tema di questo numero è il tempo. Un tempo “sospeso”, come da esperienza di lockdown e chiusure letterali e metaforiche, per cui molti interventi (traduzioni, poesie, narrazioni) ruotano intorno alla pandemia. Presentiamo su “Zibaldoni” due testi tratti da “SUD” numero 21: il primo, di Olivier Maillart, propone una riflessione a partire da un racconto di Marcel Aymé; il secondo (tra qualche settimana) di Anna Smeragliuolo Perrotta, divaga sul verbo napoletanissimo “arrecrearsi”.

Si è parlato spesso di noia durante il primo lockdown (quello vero, quello duro, quello della primavera 2020) e devo ammettere che ho invidiato molto tutti gli annoiati: i giornali elargivano quotidianamente decine e decine di consigli per aiutarli a riempire il loro tempo liberato e sgomberato (giardinaggio, cucina, letture, giochi, stupide serie TV), mentre io dovevo lavorare a distanza e occuparmi di mio figlio appena nato. Lo avrete capito: sbavavo solo all’idea di tutta quella noia! Che sogno, per tutti gli adolescenti attardati di trenta, quaranta, cinquant’anni, miei contemporanei, mei amici, miei vecchi simili, miei fratelli che abitano il gioioso mondo dell’irresponsabilità da me appena lasciato, dall’oggi al domani, per sempre.

Difficile però non riconoscere che le circostanze hanno rimodellato in profondità anche il mio di tempo. E che da allora è rimasto così. Sospeso? Inattivo? Non proprio. Ma di sicuro diverso. Il moltiplicarsi degli ukaṡe del governo francese mi ha fatto pensare spesso all’Occupazione. Da tempo sociologi di sinistra e altri amici dell’umanità profetizzano il ritorno degli anni Trenta, il fascismo, i “tempi buoi” e tutto l’ambaradan, senza che poi succeda niente… Sembrava fosse la volta buona! File davanti ai negozi, scaffali vuoti, esaurimento scorte, Ausweis peruscire di casa sempre con il rischio di farsi beccare dalle pattuglie, coprifuoco… Avevano davvero tirato fuori l’artiglieria pesante. 

Tutta la situazione mi ha fatto venire in mente un racconto delizioso dell’altrettanto delizioso Marcel Aymé che si intitola “La Carte”, che è uscito proprio durante l’Occupazione e che fa parte del libro Le Passe-muraille. Si presenta come il ritaglio di alcune pagine del diario di uno scrittore immaginario, Jules Flegmon, talmente soddisfatto di sé da risultare comico (assolutamente verosimile, del resto). Ecco la trama: i tedeschi decidono di imporre nuove restrizioni, stavolta però non si tratta di razionare il cibo, ma il tempo di vita. Così, delle “tessere del tempo” vengono distribuite alla popolazione e Flegmon è furioso perché gli hanno assegnato solo un tempo di vita di 15 giorni al mese. La sua protesta ricorda un po’ quegli artisti che negli ultimi tempi stanno reclamando a gran voce (e, qualcuno dovrà pur dirlo, senza che ve ne sia alcuna evidenza sensibile) l’assoluta necessità delle loro attività vietate, contro il cui divieto non è stata fatta però alcuna contestazione di piazza, ovvero nessuna indignata protesta degli abituali frequentatori accorati del Festival di Avignone così crudelmente lasciati orfani delle performance, disturbanti e necessarie, delle esibizioni di corpi nudi danzanti, in mezzo a sarabande di migranti e vibranti condanne al Capitale.

Ma naturalmente, e per fortuna, Marcel Aymé va ben oltre la semplice satira degli “utili” e degli “inutili” (ereditieri, artisti, prostitute), che comunque lo vede anche in questo caso in anticipo sui tempi, perché i suoi elenchi fanno pensare alle liste di “esercizi commerciali di prima necessità”, quelle che i nostri tecnici illuminati amano tanto stilare nelle loro lunghe notti insonni. Se la trovata iniziale del racconto è meravigliosa e assurda, gli sviluppi non sono da meno: superato il numero di giorni che è stato assegnato loro ogni mese, le persone prima scompaiono (si parla di “morte relativa”), e poi ricompaiono, esattamente il primo giorno del mese successivo. Cosa succede in questo tempo di sparizione che non è la morte? non nel mondo vero, quello delle persone che hanno continuato a vivere, ma in quell’altro mondo, quello dove stavano in attesa? Mistero…

E naturalmente c’è il mercato nero, che si organizza in fretta. Perché infatti, benché in quell’altrove ci si viva comunque, per alcuni è molto irritante sapere che altri vivono veramente nel mondo vero. La gente comincia allora a comprare dei buoni che permettono di racimolare qualche giorno in più al mese. Insomma, la capite anche voi la privazione, se un mese la tale festa capita il 18, e a noi è toccato di esistere solo fino al 16… è come se tale serata letteraria parigina venisse organizzata sempre di martedì e voi doveste, per oscure ragioni professionali, stare a Cherbourg proprio i primi tre giorni della settimana (ah la provincia francese, questa “morte relativa” fin troppo sconosciuta)…

E allora si traffica, si mercanteggia, si manipola, e in poco tempo il motore s’imballa: iniziano le speculazioni, i ricchi comprano più giorni di quanti ce ne siano in un mese, vivono per 35 giorni a maggio, o per anni e anni a giugno. La vita rubata si stira in tanti mondi paralleli quanti sono gli imbroglioni (e viene in mente la Sabine di un altro racconto di Le Passe-muraille, che vive avventure di ogni tipo a forza di sdoppiarsi). A Lamartine avrebbe fatto piacere sapere che, per una volta, il tempo ha davvero sospeso il suo volo.

Nessuno come Marcel Aymé sa opporre alla tristezza della sua epoca (perché l’Occupazione fu triste, molto triste) un’immaginazione così giocosa, una saggezza così spensierata. Le tessere annonarie, la fame, l’angoscia del domani lo fecero fantasticare sul tempo perduto, ritrovato, rubato, comprato e rivenduto. Anche i nostri lockdown, molto meno pesanti naturalmente, hanno permesso ad alcuni di noi di entrare, benché in modo fugace, in queste faglie, di infilarci in questi anfratti del tempo. E non fu certo poca cosa.

(Traduzione di Francesca Lorandini)

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