
Chi è stato Pierre Legendre?
La miglior definizione ce l’ha data lui stesso: “Un uomo del passato e del lontano avvenire”. Ergo: un uomo non troppo amato nel corso della sua vita. Un solitario con pochi amici, dispersi in vari continenti. Un uomo refrattario ai conformismi. Un intellettuale originale, versatile, polimorfo, un “animale parlante” difficile da classificare in quel parco umano di mode e spirito gregario che è il mondo universitario. E soprattutto uno studioso ai margini di tutti i movimenti composti da intellettuali in carriera, quasi sempre in vena di prediche.
Un ribelle, insomma, in aperto dissidio con il presente in virtù del suo sguardo profondo e inedito gettato su tutta la tradizione occidentale, da Atene a Roma, da Firenze a Parigi, allo scopo di conservarne i vincoli affettivi, morali e sociali contro la loro rapida dissoluzione – tanto dissennata quanto entusiasta – in nome di diritti, leggi, valori delle cui nozioni non si desidera più rin- tracciare né origini, né genealogie.
Ma un ribelle conservatore. Più che un paradosso, una sfida, la sola possibile, nella nostra epoca dei “paradossi terminali” (Milan Kundera) in cui “l’animale che parla”, cioè l’animale diventato uomo attraverso la parola, sembra volersi congedare da ogni limite logico, semantico, istituzionale, per correre a briglie sciolte verso la libertà.
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Certo. Ma quale libertà? Quella di non essere più assoggettato al passato, né di ereditare il mondo di coloro che non ci sono più? Quella in grado di emanciparlo da ogni legge e tabù consegnando il mondo futuro a un’umanità senza religione, senza costumi, senza riti, senza arte? Quella di scegliere a piacere se essere un giorno donna e un altro uomo, un giorno omosessuale e l’altro eterosessuale, un giorno porno-attore in Onlyfans e l’altro un mormone in attesa della nuova Gerusalemme a seconda del valore di gradimento ricevuto in quel grande suk delle merci e delle idee che è il Web? Quella di sdilinquirsi di fronte alle tecnosmancerie di un sexual robot dai sensori cutanei ipersensibili alimentato da un’intelligenza artificiale in grado di produrre un sistema di gemiti ad alta definizione?
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Pierre Legendre è stato un malaimé inviso un po’ a tutti: all’establishement accademico progressista tanto attento alle minoranze e ai loro diritti quanto disgustato dai gusti delle moltitudini; ai politicanti reazionari, che qualche volta l’hanno scambiato per uno di loro, non capendo che oggi i veri rivoluzionari sono i conservatori, ovvero coloro che desiderano conservare quel che resta delle civiltà e del pianeta; alle femministe come agli sponsor omosessualisti contro i quali ha detto una volta, attirandosi naturalmente le ire di tutti i benpensanti: “Garantire la non discriminazione sociale dei cittadini in ragione della loro posizione individuale rispetto al sesso è una cosa. Rompere le architetture antropologi- che in nome della democrazia e dei diritti umani è un altro paio di maniche”; ai clerici vagantes miliardari del credo post-umano e dell’immortalità fai-da-te; ai profeti della globalizzazione economica; alle colf del pensiero liberale-libertario; ai fedeli della sola religione rimasta all’Occidente: la tecno-scienza, o, nella versione di Legendre, “Management tecno-scientifico”.
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Nato il 15 giugno del 1930 in Normandia e morto a Parigi il 2 marzo del 2023, Pierre Legendre cresce in provincia, in una famiglia di origini modeste. Il padre è tipografo (il nonno panettiere). Guardandolo lavorare, apprende l’arte di assemblare le lettere. All’epoca non esistono i computer. Bisogna lavorare con le mani e ordinare le lettere in senso contrario perché siano lette nel verso giusto. Forse il suo amore per le parole e per i libri sboccia così. E così forse anche la sua prima intuizione: che tutto ciò che è umano è il risultato di una composizione, di un assemblaggio, di un montaggio, si tratti di parole o di civiltà. La stessa identità umana è frutto di una composizione di registri diversi: di una scena cosciente, di una scena governata dall’inconscio e di un limite imposto tra le due che ci permette di entrare in relazione con il mondo. Alla domanda: che cosa fa tenere insieme le parti? Quale potere fa sì che l’essere umano navighi senza naufragare? La risposta di Legendre è lapidaria: il potere delle istituzioni che sono le basi di ogni civiltà. Individuo e civiltà sono legati a doppio filo, perché l’architettura dell’identità individuale e l’architettura di una civiltà possiedono la stessa logica, che Freud ha chiamato edipica e che Legendre chiamerà genealogica.
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Nella tipografia del padre forse è nata anche la sua seconda intuizione: che cioè ogni parola nasce dal silenzio e dal vuoto. Nasce dall’indicibile. Da quello che Legendre chiama “Abisso dell’esistenza umana”: quel che c’è dietro alle parole, agli emblemi e alle immagini: il mistero, il vuoto, il baratro. “È questo Abisso che dobbiamo abitare”. Ogni ragione di vivere e di morire comincia e finisce qui.
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Sua madre viene da una famiglia di funzionari che, sebbene per tradizione si considerino anticlericali, si comportano come bravi cattolici.
La sua infanzia e la sua adolescenza sono difficili. Da subito deve fare i conti con le differenze di classe e con la “ferocia sociale”. E con quella che una volta ha definito “la frattura dello sguardo” infantile. C’è un aneddoto a questo proposito. Il piccolo Pierre e suo padre vanno in chiesa. Siedono sulla panca dei poveri. Al momento dell’elemosina, il prete passa senza fermarsi davanti a loro. I poveri, infatti, sono dispensati dalle offerte. Ma il piccolo Pierre coglie lo sguardo del prete e non lo dimenticherà più.
Che cosa ha visto? O meglio, che cosa si è chiesto, in silenzio – nel silenzio del suo inconscio, del suo piccolo io in formazione –, cogliendo quello sguardo?
Forse questo: da dove viene la mia esclusione? Significa che io non sono come gli altri? E gli altri chi sono? Sono come me, ma non sono me? Tutte domande che il Legendre adulto, lettore di Freud, amico di Lacan ed eretico della sua scuola, non smetterà di porsi. Rispondendo più o meno così: ci sono molti modi di entrare nell’esistenza, ma tutti sono avvolti nello stupore e nell’interrogazione. Senza l’uno non c’è l’altra. E senza l’uno e l’altra, non c’è mistero e non c’è umanità.
Stupore e interrogazione avvolgono anche un altro episodio della sua infanzia, più volte raccontato dall’autore. I gendarmi entrano all’improvviso nella scuola elementare del piccolo Pierre. Indagano su un assassino, un ex scolaro. Fanno domande: che tipo era? Era diligente? Si comportava bene con i compagni? “Un mondo, allora, mi si è aperto: il lato oscuro dei nostri atti – il marchio del sospetto, i segni premonitori del crimine, la vita del bambino criminale. Mi domandavo: coloro che avevano crocefisso Gesù, avevano ricevuto bei voti? Erano bravi ragazzi?”. Anche questo ricordo si imprimerà per sempre nella me- moria del Legendre adulto.
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Durante gli anni del liceo fa il suo primo grande incontro: Graziano, un chierico medievale, la cui compilazione Concordia discordantum canonum (Decretum Gratiani), probabilmente scritta in- torno alla prima metà del XII, è ai suoi occhi uno dei pilastri di tutto il sistema istituzionale occidentale, tanto che giungerà a dire che non conoscerlo equivale a studiare le società musulmane evitando di leggere il Corano. All’università, alla facoltà di Diritto a Rennes, si imbatte nella Sto- ria del diritto romano nel Medioevo (1815-1831) in sette volumi di Friedrich Carl von Savigny, giurista, filosofo e politico tedesco (ma discendente da una famiglia francese di fede protestante), opera che gli farà toccare “le fibre della carne europea, della carne occidentale”.
Dopo gli studi universitari a Rennes e a Parigi, e un triplice dottorato in economia, in diritto privato e in diritto romano, il giovane Legendre si pone una domanda che oggi non va per la maggiore: ora che faccio? Resto un idiota o mi costruisco una strada? La scelta naturale dovrebbe essere l’università, ma l’aria nelle aule francesi è irrespirabile. Così decide di offrire a una società di consulenza i suoi servizi da economista alle prime armi e parte per l’Africa: “Così sono giunto in Gabon, dove ho fatto i miei primi passi nell’universo delle antiche civiltà africane che mi han- no insegnato moltissimo”.
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Il lavoro sul campo in Africa gli permette di aprire in modo nuovo le porte dell’antropologia, che egli definirà più tardi “dogmatica”.
La sua idea di fondo è che tutte le culture, compresa quella occidentale, “vivono di verità indimostrabili, di credenze che aspirano a uno statuto di intoccabilità, la cui coerenza e le cui conseguenze normative devono la loro autenticità a una buona e corretta forma sociale”. In altre parole, dietro a tutte le civiltà e a tutte le culture c’è “un’immagine nello specchio” che non si può mettere in discussione, pena la distruzione dell’intera “fabbrica dell’uomo”.
Terminata l’esperienza africana, allo sguardo antropologico, che continuerà a incrociare costantemente quello dello storico e dello storico del diritto, si aggiunge nello stesso periodo quello “più concreto del concreto”: lo sguardo verso di sé, verso la propria questione esistenziale. È sul divano dell’analista – di un analista freudiano –, come egli stesso scriverà, che Legendre impara sulla sua pelle che cosa significa non poter sfuggire a certi “dogmi”, cioè a certe immagini, a certi emblemi, a certi simboli, a certi miti che segnano, che l’uomo lo voglia o no, la sua entrata nel mondo.
La costruzione di un individuo è sempre strettamente legata all’architettura di una civiltà, o di una cultura. Per questa ragione, Legendre ripeterà come un Leitmotiv la frase di Freud per cui “lo sviluppo della cultura assomiglia a quello dell’individuo e opera con gli stessi strumenti”.
L’entrata nel mondo poi, in realtà, è un’interlocuzione dell’uomo con il mondo attraverso la parola, dato che la nostra specie “accidentata” non ha, come è noto, un rapporto immediato con le cose. Da qui il primato che, nell’opera di Legendre, avrà sempre la vita della rappresentazione, la vita come Teatro, dove i singoli attori, o i singoli casi, verranno esplorati come declinazioni di quei “dogmi”. Che cos’è la cultura, avrebbe detto un al- tro grande e dimenticato pensatore del XX secolo, Lewis Mumford, “se non una potente messinscena attraverso cui l’uomo cerca di rafforzarsi nella sua illusione originaria di non essere, in fondo, un semplice animale?”.
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La vita di un individuo, come quella di una civiltà, è una costruzione, è il frutto di un “montaggio”, anzi di diversi montaggi chiamati “istituzioni”.
La storia di un individuo (come quella di una civiltà), perciò, non può essere letta in modo lineare, ma attraverso le sue sedimentazioni e le sue genealogie, le quali hanno sempre un’origine e sono rette su colonne portanti che, nella nostra civiltà occidentale, per Legendre, sono fondamentalmente la Bibbia e il diritto romano e quello medievale.
Il passato, scrive Legendre, riprendendo una nozione freudiana, può essere “rimosso”, ma non scompare mai, è sempre qui, fra noi, sempre all’opera. E ancora, riprendendo Freud, ricorderà con insistenza i due territori in cui l’individuo recita la sua parte: la scena retta dal principio di non contraddizione e quella dell’inconscio e del sogno, in cui tutto è possibile, che nessuno è in grado di controllare e che può in qualsiasi momento, soprattutto attraverso le arti, considerare il mondo da un punto di vista imprevedibile. Non possiamo dimenticare mai, afferma Legendre, che è su questo duplice registro linguistico e rappresentativo che si costruisce l’individuo. E di conseguenza la società, ogni società: “Così come nessuno sogna al posto di un altro, allo stesso modo le culture sono il prodotto di solitudini, cioè di costruzioni di identità”.
Da qui due importanti corollari. Il primo è che tutte le civiltà sono uguali davanti alla logica della vita rappresentativa, per cui la pretesa occidentale di dettare la propria al resto del mondo perde di consistenza. L’antropologia “dogmatica” è, in questo senso, un modo di esplorare “quel che l’Occidente non vede dell’Occidente”. Poi, un rinnovato interesse per la messa in scena estetica del mondo, “per la comprensione sensuale del pensiero”, dato che il registro tecnico-scientifico-manageriale, quello dove il principio di non contraddizione la fa da padrone, se è sufficiente a concepire una società umana, non lo è per governarla: una società umana, sia essa occidentale, africana, giapponese, cinese, o indiana, non si può governare, afferma Legendre, senza la musica, i riti, le cerimonie, le arti (da qui l’amore per la letteratura, la poesia, il cinema, la danza, la pittura non solo occidentali).
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Lo sguardo genealogico di Legendre ci mette in guardia dalle propagande che da decenni fanno della scienza un idolo, del tecnocrate l’ultimo dei sapienti e del pubblico una massa amorfa, accecata dal fondamentalismo scientista, vittima di una spiegazione che non desidera lasciare alcun margine al mistero. Ebbene, per Legendre, una volta liberi dalla dimensione del mistero, la vita non è più possibile. Tutti gli uomini hanno il diritto di chiedersi: perché si vive? Nessuna civiltà ha il potere di negare loro questo perché, ultima “impronta dell’umano”. Eppure è ciò che sta avvenendo.
Diventato oggetto delle scienze, se non una sua cavia adatta ad ogni sorta di sperimentazione, “l’animale parlante sta abbandonando l’oscuro mondo delle genealogie”, mentre “le impalcature dogmatiche tradizionali stanno cedendo sotto i nostri occhi. Stato, Religione, Rivoluzione, Progresso, questi artifici umani, sono stati spazzati via dal Management scientifico promesso a tutta la terra”.
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Che cosa si propone Legendre?
Di “istituire la vita”, di “costruire l’umano”, di ridare il loro vero significato a parole come “autorità”, “potere”, “norma”, “ragione”, “limite”, “tra- dizione”, “sacrificio”, “rimorso”, “senso di colpa”, “padre”, “madre”, “figlio”.
Di ribadire che individuo e civiltà, grazie al linguaggio, al legame linguistico, si appartengono reciprocamente e che l’identità di un individuo e di una civiltà soggiacciono alla stessa logica genealogica che nessun potere tecnocratico, politico, amministrativo, giudiziario può abolire. Il passato è presente. Non si può fare tabula rasa né di quello individuale né di quello collettivo. Quante volte avremmo voluto ricominciare da zero! Si tratta di un’illusione infantile, di un’illusione falsamente libertaria, entrambe supportate oggi dall’illusoria onnipotenza scientifica che, del resto, ci vorrebbe tutti suoi figli: eterni figli di un presente post-umano senza passato. Ma si chiede Legendre: questo Occidente che privilegia il “post” ai vincoli plurimillenari con la tradizione, non è già un “Occidente post-occidentale”? Che cosa resta, allora, dell’Occidente come versione specifica dell’umanità? Che cosa significa, allora, in concreto che il mondo si sta completamente occidentalizzando? Siamo nei “paradossi terminali”.
Che cosa ci propone ancora Legendre? Di non dimenticare quel che il suo caro Freud aveva già ben illuminato: che il sesso è il luogo d’incontro del corpo e della parola. Perciò, se è vero che il sesso può essere studiato scientificamente dalla scienza e dal- la medicina, è altrettanto vero che può essere esplorato da un sapere antropologico che non ha nulla a che fare con la scienza. A meno che la nostra civiltà non decida di affidarsi totalmente alla biotecnologia e concepisca la Fabbrica dell’uomo come “un’industria in cui si riproducono varietà genetiche”. Ma a quel punto ogni idea di civiltà sarebbe già alle nostre spalle.
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Ogni architettura istituzionale, ha detto molte volte Legendre, nasce nel vuoto, senza il quale non ci sarebbe la parola e il pensiero.
Che cosa significa il vuoto per l’uomo? “Sappiamo che c’è bisogno del vuoto tra le lettere affinché ci siano le parole, e che, senza la separazione tra le parole e tra le cose, non ci sarebbe vita per la specie umana. Il linguaggio ci separa dalle cose. Separa l’uomo dal suo simile e da sé stesso”. Del resto, la Storia ce lo insegna: quando gli esseri umani non riescono a sopportare l’ordine e il peso della parola, i massacri hanno inizio. Forse i nostri grandi distruttori delle istituzioni scolasti- che e universitarie – psicologi, pedagoghi e politici – a cui poco importa dei giovani “desiderosi di leggi”, come suona la dedica di Giustiniano al suo manuale di diritto romano, spesso citata da Legendre, un giorno si dovranno rendere conto che le parole non possono essere disposte a caso, che hanno bisogno di una grammatica, di una sin- tassi, di norme. Ogni parola, per quanto convenzionale e lontana dalla cosa che nomina, è figlia di un ordine, di una ratio. L’uomo può distruggere l’ordine delle parole. Certo. Può produrre intorno ad esse un tale rumore di fondo da non riuscire più a circoscriverne i contorni. Certo. Ma non può, pena l’oblio di sé, spezzare il legame di parola che lo fa essere quel che è. “La ragione di vivere – scrive Legendre – viene dal linguaggio. Una massima dei giuristi afferma: I buoi si legano per le corna, gli uomini attraverso le parole”. Bisogna comprendere, ha detto ancora Legendre, che “portiamo un giogo” e che la specie umana, a causa della parola, affronta la paura e il mistero.
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Mi chiedo: una volta aumentata artificialmente la nostra intelligenza, una volta privati di alcuni arti e organi e sostituiti da arti e organi biosintetici, una volta clonati, avremo ancora bisogno di una ragione per vivere? Avremo ancora bisogno del mistero? E di quel mistero chiamato alterità?
C’è una Urszene al centro dell’intera riflessione antropologica di Legendre: la scena dello Specchio:
Quando mi guardo allo specchio, si instaura una scena a tre: c’è un individuo che si guarda, il suo corpo che si presenta; e poi, c’è l’immagine nello specchio, un’immagine che è la metafora dell’inaccessibile; e c’è il terzo termine, lo spazio insuperabile, che è la metafora del potere assoluto, lo Specchio.
L’universo umano è sempre diviso. L’uomo è “l’animale parlante” che coglie le cose attraverso il linguaggio. Mentre nomino una cosa, me ne separo e mi separo da me stesso. Il linguaggio è il nostro “sfregio”, come dice Legendre, il nostro marchio primordiale. Ciò significa che “l’animale parlante” intrattiene con il mondo un legame di identità e alterità e che ogni individuo intrattiene con sé stesso un legame della stessa natura.
Mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Mi guardo in una fotografia e mi chiedo chi sia quell’uomo con gli occhiali che mi osserva da lontano. Ascolto la mia voce registrata e non la riconosco. Chi è che sta parlando? Io sono la mia immagine (o la mia voce), ma anche un altro, uno sconosciuto. Chi tiene insieme questi due individui? Legendre afferma: un terzo termine, che però deve rimanere oscuro, inviolabile e che è “metafora del potere assoluto”, lo Specchio. Lo Specchio è il legame dogmatico e istituente che permette la relazione tra me e l’altro che sono e che non conosco. Ma, aggiunge, è anche il vincolo giuridico tra creditore e debitore che lega due individui e che fonda una civiltà. “La verità dello Specchio non si discute”.
Che cosa succede in una civiltà la cui ideologia individualista distrugge tale logica ternaria? Che cosa accade quando questa civiltà si mette a discutere l’autorità dello Specchio, facendosi portatrice del tutto è possibile, dell’assenza di ogni limite, dell’abolizione del mistero?
Capita quel che descriveva poeticamente il mito di Narciso: lo Specchio è in qualche modo dissolto, la struttura dell’identità è compromessa. L’esperienza istituzionale del XX secolo prova che uno Stato, come un individuo, può delirare […] sotto i nostri occhi l’ideologia individualista funziona come un narcisismo di massa che fa dell’individuo “un mini-Stato” (Wim Wenders), vale a dire un essere che è tutto per sé stesso, che è Dio affrancato dalla logica dello Specchio.
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Il pensiero “dogmatico” di Legendre, non c’è bisogno di sottolinearlo, è sin dai suoi esordi in guerra con i dogmi dell’Occidente che, dopo la Seconda guerra mondiale, sono diventati sempre più aggressivi (non a caso definirà le nostre società come “società post-hitleriane”). Quali? Lo scientismo; la tecnocrazia; il neoliberalismo libertario, per cui la corsa ai diritti dell’individuo non solo vince sulla sua assenza di responsabilità nei confronti della società, ma vince sul suo buon senso e sulla sua possibilità di superare le soglie della vita adulta e della maturità; “la religione come mercato delle idee”, definizione data dalla Corte suprema degli Stati Uniti agli inizi del XXI secolo, in sintonia con una società dove il consumatore sceglie liberamente la setta a cui affiliarsi; la destabilizzazione, se non la distruzione, continua e incessante, in nome del progresso – un progresso eminentemente tecnico e scientifico –, di ogni valore, di ogni fondamento logico e di ogni tabù; la riduzione delle istituzioni, in particolare quella giuridica – nuovi codici matrimoniali, famigliari, civili – a un bricolage di leggi affrancate da ogni legame con il diritto e la sua storia.
Opporsi a questi dogmi significa oggi vivere ai margini della res publica occidentale. Significa essere condannato ancor prima di essere letto, o essere letto solo per essere frainteso.
Criticare una legislazione che permette a una persona di sposare sé stessa è un sopruso di lesa maestà all’imperante volontà di emancipazione che sembra aver contagiato l’intero emisfero bo- reale? O non sarà piuttosto che tale ossessione è presente solo in alcune minoranze il cui attivismo, denaro e influenza sono in grado di mobili- tare i mezzi di informazione e i luoghi cosiddetti di trasmissione del sapere? Parlare di “ideologia omosessualista” è uno scandalo? Mentre scanda- lizzarsi del fatto che più di trenta paesi cattolici e protestanti abbiano negli ultimi vent’anni autorizzato il matrimonio omosessuale, è fuori dalla Storia? O fuori dalla Storia, almeno dalla storia del diritto occidentale, sono i riformatori per cui parole come “marito” e “moglie” devono essere cancellate dal vocabolario? Sbaglia Legendre nel vedere, in questa frenetica revisione dei valori che cambia nome alle cose, alle vie, alle piazze, alle funzioni, un attacco mortale all’essenza linguistica dell’uomo e al suo principio di ragione? Quale democrazia antica o moderna avrebbe acconsentito alla madre di un bambino di trasformarsi in uomo, lasciando in un limbo giuridico il proprio figlio? Bene, in Québec, la questione è stata portata in tribunale. Il giudice ha convocato psicologi, assistenti sociali, pedagoghi cognitivisti…. Dato che la madre aveva ottenuto di cambiare il suo stato civile, gli esperti, dopo un’attenta valutazione, hanno sentenziato che la madre del bambino era morta. Il giudice non ha potuto far altro che confermare il loro giudizio. Il bambino è stato dunque affidato al padre, che egli aveva nel frattempo conosciuto come madre, la quale è improvvisamente scomparsa quelque part nel vasto e fluttuante universo degli esuli sessuali, dei senza patria del sesso. Nella nostra civiltà, sotto la maschera della convivialità, del divertimento, dello spirito cosiddetto democratico, di una libertà senza limiti, sta trionfando la sperimentazione umana: l’essere umano, come ai tempi dello stalinismo e dell’hitlerismo, sebbene con uno stile diverso e con mezzi tecno-scientifici impensabili all’epoca del dottor Mengele e de- gli imbalsamatori sovietici dei capi di partito, si sta trasformando in una cavia. Fra i molti “casi” riportati nelle opere di Legendre, ce n’è uno che mi sembra particolarmente emblematico della situazione. Un medico di Boston, qualche anno fa, ha seraficamente spiegato che era solito somministrare dei farmaci ai preadolescenti allo scopo di ritardare la loro maturità sessuale. Alla domanda della giornalista sul perché lo facesse, il medico ha risposto: “Beh, perché in questo modo lasciavo loro più tempo per scegliere o meno di cambiare sesso…”. Superciviltà o barbarie?
Mi chiedo: com’è possibile che sul piano individuale e su quello istituzionale le cosiddette democrazie occidentali pretendano di abolire con un colpo di dadi architetture plurimillenarie fondate sul semplice principio che il tempo passa, che le generazioni si scambiano il testimone, che i figli succedono ai padri e alle madri, che l’esistenza umana, come tutto ciò che essa crea, ha un limite, un inizio e una fine? Perché abolire il tempo? Perché abolire la morte? Perché abolire le età della vita? Legendre si chiede: “Si può credere che in nome di queste democrazie sragionevoli, possiamo convertire il resto del mondo?”. O, in realtà, grazie a queste misure superbamente progressiste, l’Occidente non sta facendo altro che svendere la propria decomposizione?