Ritorno

di in: Gino

Decidere dove andare era come guardare la nebbia: più ci fissava gli sforzi, più si infittiva la confusione. Allora camminò ancora più veloce e si lasciò andare alle strade e le pietre rosse, i mattoni, i percorsi ritorti delle vie. Ci pensassero loro, a guidarlo.

Solo una volta seduto sul sedile, coi primi addii dei passeggeri e rombi del motore, solo quando s’era accomodato le idee al viaggio ed era anche troppo tardi per alzarsi a pisciare, Gino si accorse di aver preso la corriera per Firenze.

Dopo quanti anni…

E poi, coi primi sussulti e sballottii in avanti si rese anche conto di non averci nemmeno riflettuto ma di esserselo sentito affiorare su, come una certezza artesiana, che sarebbe andato a casa, dai suoi.

Suoi.

Tirò fuori da una tasca della giacca l’ultima lettera della mamma. L’aveva tenuta perché era strana. C’era qualcosa che non gli diceva, ne era sicuro. Ma chissà se buona o cattiva. Se qualcuno era malato o era morto. O se uno dei fratelli s’era cacciato in un pasticcio. O se invece aveva cominciato a guadagnare o se aveva vinto al lotto. Non si capiva. Lei non diceva niente, ma iniziava delle frasi e non le finiva, poi diceva che era un momento buono eppure subito dopo pareva preoccupata. Chissà.

Gino si godette il viaggio. Seduto a ballonzolare qua e là. Non c’aveva niente da fare, niente da dire. Prima di tutte le cose che gli sarebbe toccato di fare e di dire fra poco…

Si godeva il riparo della corriera e la distrazione del paesaggio. Che era marrone di stoppie e rosso della buona terra senese. Il cielo sbiadito d’inverno ritagliava qua e là le sagome magre dei cipressi e il volo pesante dei piccioni dai tetti.

In una di quelle fattorie, fra il rosso e i cipressi, sarebbero andati i Ricci. Ancora opulenti e tranquilli si sarebbero nascosti là alla guerra. Forse ci sarebbero riusciti.

Pensare a loro gli dette uggia perché gli parve d’essere sputato fuori, allontanato senza appello da tutto quello che di sicuro, caldo e fermo gli era riuscito avere nella vita. Era durato poco.

La corriera sobbalzava verso casa con rollii di ruote e gorgoglii regolari di motore. Gino si addormentò dopo poco e dormì sul borbottio della corriera per tutto il restante percorso. Lo svegliarono il sobbalzo dell’arresto e lo sbuffo del motore che si spegneva, poi gli struscii e gli sbadigli degli altri passeggeri. Il tempo di stropicciare gli occhi e stirare i pantaloni, mettersi in fila per scendere e subito fu a Firenze.

Le voci e i rumori che gli arrivavano, l’odore dell’aria e la luce negli occhi… tutto era Firenze.

Gino guardava la città e restava lì, allocchito, con un piede su e uno giù dal predellino.

“Che ci si mòve?”.

L’autista gli fece anche un fischio, per farlo scendere. Ma poi Gino rimase fermo davanti alla porta e alla gente gli toccò allontanarlo a spintoni per riprendersi i bagagli, per avviarsi in strada, per andare incontro a qualcuno. Gino lasciava fare e non riusciva a staccarsi da quel ritorno. Firenze pareva esserci solo per lui, averlo atteso e ritrovato. Era andata lì, a prenderlo alla corriera, per fargli festa.

“Oh! Che lo vòi il tuo sacco?”.

Gino allargò le braccia e il sacco ci volò sopra. Poi si incamminò per le strade di Firenze fra le pietre grigie, l’ordine pacato e la storia sussiegosa.

E intanto, mentre camminava, gli pareva d’avere dentro un rimescolone di aria, di cuore e di sangue, di memorie e brani di cervello: milioni di pezzetti sparpagliati che si muovevano e si agitavano in tratti di percorsi brevi per rimettersi a posto.

Andando verso casa, sotto i piedi c’aveva il selciato che conosceva. Gli stessi bozzi e le stesse buche. E intorno le case che aveva sempre visto gli riflettevano sull’iride gli intonaci noti. Colori e croste e vuoti. Le botteghe c’erano quasi ancora tutte. Qualcuna c’aveva il bandone arrugginito e le pisciate dei cani sopra. Ma in quelle altre c’erano gli stessi articoli e la stessa gente condannata dietro il bancone.

Era quasi troppo facile, vivere così… senza provare niente, senza mettersi in un posto e imbarazzarsi, stupirsi. Solo standoci e ricordandosi… troppo facile.

Attraversò la ferrovia e attraversò le vie vicine, camminò veloce e imboccò la sua strada.

Ecco il villino, l’unico villino signorile, a due piani, coi cancelli di ferro battuto e il gelsomino arrampicato dappertutto. Doveva essere un villino di campagna, in antico, che s’era piano piano trovato strinto fra case modeste e brutte, tutte uguali, tre piani di intonaci giallognoli e giardinetti al terreno. Non c’aveva mica mai fatto caso, prima…

Lì ci stava la zia del babbo, una vecchia stitica e sorda che gli toccava andare a trovare per le feste comandate, con la cucina che sapeva di cavolo. Chissà se era ancora viva.

Ecco la casa del Nencioni, il vicino più grande di lui, che gli tirava sempre addosso i sassi. Magro e lungo si divertiva a dar noia ai bambini più piccoli. Eccolo, il Nencioni, secco secco, coi capelli ricci come lana caprina…

No, non poteva mica essere lui; era già un uomo, quando Gino era partito! Forse il figliolo.

Intanto il bambino che forse era il figliolo del Nencioni chiuse sbatacchiando la porta di casa e corse via per strada. I suoi piedi sollevavano nuvolette lievi di polvere bianca.

La stessa polvere che si alzava dietro i suoi piedi quando correva a scuola, o a giocare al Campo di Marte, o inseguiva un gatto randagio.

Gatto.

Chissà se c’era ancora? Muchino muchino… tch tch tch…

Chino a cercare la gatta si avvicinò al cancello. Ed eccola sbucare di fra le sbarre. La sua gatta rossa. Gli si infilò subito fra le gambe e si mise a arco contro i ginocchi per fargli le feste. Era sempre uguale… e l’aveva riconosciuto!

Gino si chinò e la prese in braccio, l’accarezzò dietro le orecchie e sotto il mento bianco. E fu come se da qualche parte si spalancasse un portone. Davvero, era tornato.

All’improvviso ci fu un rumore in giardino: qualcuno era uscito di casa.

Gino si alzò scaricando il gatto con un tonfo leggero.

Al lato della casa, con un cesto di bucato su un fianco, una donna grossa tirava faticosamente su i panni dal cesto verso il filo, uno ad uno.

Gino ci mise un po’ a capire che era incinta, perché a colpo d’occhio era troppo vecchia per avere la pancia. Con quella crocchia mezza grigia…

Poi la donna si voltò verso la gatta che miagolava. E ancora Gino non riusciva a capire, a collocare quella vecchia incinta nel corpo e nei ricordi di sua madre.

Solo quando la donna lo guardò e si mise una mano sul cuore. Solo dal modo di muovere la bocca e l’espressione degli occhi. Solo dal gemito che uscì dalle labbra insieme a una nuvoletta di fiato Gino capì di aver rivisto sua madre.

E dovette anche sbrigarsi a ripigliarsi dallo stupore perché la mamma c’aveva un malore e si accasciò piano piano, col pancione fra i panni puliti, tutto in terra accanto al gatto che continuava a miagolare.

Dopo, ci furono gli affanni e i lamenti e “mamma mia” e Madonna santa”. Poi finalmente la mamma e la pancia si sistemarono a sedere e a Gino gli riuscì di fargli bere un bicchier d’acqua.

Dopo, gli toccò farsi vedere e toccare e girare e rigirare per fargli recuperare in fretta i cambiamenti che non conosceva. Gli toccò restare lì in piedi a lungo, a ascoltare le madonne che si mescolavano ai lamenti e al sollievo d’averlo ritrovato, proprio adesso che non ci sperava ormai più …

Poi la mamma si tirò su e lo ghermì, stretto al petto e contro il pancione con una forza che Gino non gli conosceva.

Si tirò fuori dall’abbraccio tutto zuppo di commozione della mamma e con addosso un odore acre che non si ricordava.

Gli toccò raccontare e spiegare e inventare anche parecchio, perché doveva stare attento a rimanere fedele alle bugie nelle lettere, che della vita passata avevano detto poco o nulla di vero.

E poi fu il turno della mamma.

Era andata così, che di bambini loro certo non ne volevano più. Oramai il fratello più piccolo c’aveva già dodici anni. E poi lei non credeva nemmeno di poterne avere, figuriamoci, a quarant’anni! E invece… ma che vergogna. I vicini la guardavano così storto che lei non c’aveva più il coraggio nemmeno di uscir per strada. Ci andava il bambino della casa di fronte a far la spesa per loro.

“Chi, il figliolo del Nencioni?”.

“Sì… proprio un bravo ragazzo…”.

E per fortuna la gravidanza andava bene, nemmeno se ne accorgeva. Doveva essere una femmina, per loro tre era stata così male…

E Gino all’improvviso gli sembrò di stare leggendo la lettera. La mamma era felice di avere una bambina! Però, certo, in un momento come quello, e poi alla sua età.

“Non so, questa creatura, che tempo ha scelto per venire al mondo… questa guerra è peggio di quell’altra. La gente s’attacca anche ai muri, dalla fame! Meno male il babbo ora guadagna benino… e poi, sopratutto, è guarito. Ora è tenente colonnello; è così contento…”.

La mamma sorrise e si alzò.

“Ti fo un orzo, lo vuoi?”.

La mamma preparò l’orzo. Gino bevve l’orzo.

La mamma gli si sedette davanti, con le mani incrociate sul grande grembo.

“Perché sei tornato?”.

Era semplice, la domanda. Eppure fruga e rifruga a Gino non gli veniva la risposta. Perché il magazzino era chiuso… poteva cercarne un altro. Perché gli mancava la famiglia… non se n’era nemmeno ricordato per cinque anni. Perché…

Per fortuna bussò alla porta il bimbo col capo a capretta. C’aveva un fagottino di farina in mano e il resto di una striscia di tessere.

La mamma gli mise in mano una monetina e lui corse via.

“Faccio la farinata, vuoi fermarti a mangiare?”.

Gino stava ancora pensando a perché era tornato. E ci mise parecchio a capire che cosa gli chiedeva la mamma. Che stava versando la farina in una pentola con una mano appoggiata alla schiena. E che pensava che lui poi se ne sarebbe andato chissà dove a passare la notte o forse via di nuovo da Firenze, magari per sempre.

Anche la mamma ci mise parecchio a capire. Ascoltò il silenzio di Gino, si voltò, vide il sacco per terra, si rigirò di colpo col viso trascolorato.

“Oddio…”.

Lasciando sbatacchiare il mestolo infarinato sulla sottana.

“Ma, Gino… o come si fa… non c’è posto…poi io così… e il babbo… non lo so”.

Alla mamma gli si mise anche quella preoccupazione sul viso, insieme alle altre, e si rimise a far la farinata.

Intanto il giorno si copriva all’improvviso di buio. Qualche voce fuori e gli scalpiccii veloci dei bambini. Voci che non conosceva.

Gino aiutò la mamma a apparecchiare e stese i panni sul filo, che erano rimasti sparpagliati in terra e qualcuno s’era anche sporcato.

Poi si misero ad aspettare in silenzio che facesse sera e che rientrassero gli altri. Il primo fu il babbo.

Alto e imponente, nell’uniforme invernale. Aveva il berretto tutto su un lato e una cicca all’angolo della bocca. Sorridente, guance rosse, anche lui non assomigliava alla figura che Gino c’aveva in testa.

Il babbo entrò in casa e subito si bloccò.

“Gino!”.

Gli si confusero anche a lui le idee. Allora gli si avvicinò, lo prese un attimo fra le braccia, poi lo allontanò e gli dette un colpetto su una spalla.

“Ma fatti vedere… o Signore…”.

“Visto com’è cambiato?”.

“Sì… un uomo…”.

“Io, quando l’ho visto, m’è preso male…”.

Il babbo aggrottò l’ansia nelle ciglia.

“No… nulla… solo un mancamento. L’emozione…”.

Poi rientrarono i fratelli; cresciuti, alti poco meno di lui, magri magri anche loro.

Ma chi erano?

Abbracciarono la mamma, salutarono il papà. Poi rimasero a bocca aperta qualche minuto a cercare di capire che quello era il loro fratello, il primo. Quello che dormiva con loro, i primi anni della loro vita, e che poi se n’era sparito, chissà dove, chissà a far che. Cercarono anche di fargli festa, di andargli incontro e di abbracciarlo ma Gino lo vedeva, che non gli volevano bene.

Chissà quante scenate. Chissà quanti pasti andati di traverso per colpa sua, e urla e lacrime di mamma e ancora musi lunghi a giorni, mesi… gliene dovevano volere a morte.

Ma poi, piano piano, Gino vide che era ancora peggio: ai fratelli, che lui era tornato, che era partito, che c’era o non c’era non gliene importava un fico secco. Erano piccoli, quando lui era scappato di casa. Erano cresciuti da soli, avevano giocato fra loro, erano andati a scuola tenendosi per mano e ora non se lo ricordavano nemmeno, di quando c’era un fratello in casa.

Andarono a lavarsi e tornarono parlottando di libri e di insegnanti. Si muovevano, prendevano in mano le cose, le spostavano. Parlavano col babbo, gli chiedevano della sua giornata… chi erano?

Scherzavano, c’avevano tutta una serie di parlate buffe per imitare chissà chi. Il babbo scuoteva la testa e ogni tanto faceva cenno che era troppo. Non si doveva passare all’insulto. Gente che conoscevano tutti…

Gente che Gino non aveva mai visto.

E poi si facevano dei versi d’intesa alle spalle del babbo, quando si girava. Alla mamma la facevano ridere, con quei loro versi.

I padroni della casa, ecco chi erano! La sua casa, Firenze, il rientro… era tutto loro. Gli stavano togliendo tutto da davanti, un pezzettino alla volta. E Gino pensò che se fosse rimasto troppo gli avrebbero levato anche i ricordi.

Gino rimase a mangiare la farinata. Raccontò un po’ di avventure e li fece ridere, tutti quelli seduti intorno al tavolo. E si sentì come Franz, quando chiacchierando si guadagnava di che vivere. Solo che lui non era altrettanto bravo.

“Gino, è ovvio che più di qualche giorno…”.

“Sì sì, babbo lo so… figurati”.

La mamma si issò in piedi. A fine giornata, una fatica … chissà come avrebbe fatto con una lattante. Magari avesse avuto una figlia femmina già grande, per aiutarla!

Gino per un momento si sentì ragazza. In casa a far le faccende. Un fidanzato a fischiar fuori di finestra la sera e i fratelli intorno per ridere e scherzare.

Gino si voltò e vide la mamma che lo guardava intenerita. Anche lei se lo stava immaginando femmina.

“Beh, meno male non s’è buttato via…”.

Gino si voltò per capire se parlavano di lui o del nuovo bambino.

Il babbo gli indicò il divanetto consunto della bisnonna nel corridoio.

“Almeno ora serve a qualcosa”.

La mamma gli ci posò sopra una coperta e gli augurò la buona notte.

Gino ci mise parecchio a capire dov’era. Tutte le volte che si svegliava quella notte, e si svegliava in continuazione, gli pareva di essere dai Ricci. Si sarebbe girato, avrebbe aspettato l’alba, avrebbe tirato su il bandone del magazzino…

Poi di colpo sentiva il duro del divanetto e l’odore ghiaccio della vecchia casa. Allora si sentiva risucchiare, si sentiva stringere e perdere allo stesso tempo. Vuoto nel vuoto.

Già prima della prima luce era sveglio e alzato. A pensare a come era piena di ricordi ogni mattonella di quella casa e a come ora lui non c’entrava più nulla. A come si sarebbe guadagnato il pane d’ora in avanti, a dove avrebbe dormito. E gli prese una gran fatica. Si sentiva peso e lontano; non c’aveva mica voglia, di ricominciare tutto daccapo.

Quindi ritornò come indietro, a tanti anni prima, e rimase a ciondolare in casa dai suoi. Ma questa volta nessuno gli dava del bighellone.

La mamma stava a parlare con lui per delle ore, contenta d’avere qualcuno per sfogarsi un po’ delle sue giornate. Al babbo anche gli faceva festa, quel ritorno imprevisto. E non sembrava avercela più né con lui né con nessun altro al mondo. I fratelli studiavano parecchio e quando smettevano lo guardavano incuriositi. “Raccontaci qualcosa, Gino, dài, facci svagare”, gli dicevano. E Gino si dava da fare per tirar fuori avventure. Non gliene mancava.

Siccome poi Gino contribuiva alle spese con i suoi risparmi, nessuno c’aveva più fretta di mandarlo via. Però a fargli spazio in casa nemmeno, ci pensavano, e il divanetto della bisnonna era un miracolo reggesse il peso di Gino e dei suoi accidenti.

Poi un giorno che Gino voleva gironzolare un po’ per la città, gli venne in mente d’andare a vedere lo zio Alcide.

Nella casa dello zio, piccina oltre ogni ricordo, non c’era altro odore che quello delle sigarette. Di mangiare non se ne doveva parlare da un po’. E anche di carbone, di legno o di palle di carta, non c’era nemmeno il vago sollievo. Dentro, faceva freddo come fuori. Gino pensò al fuoco dipinto di Geppetto: ci sarebbe stato bene anche lì, almeno quello.

Lo zio, lo trovò in camera, seduto sul letto, col pastrano addosso. Magro e pensieroso, i capelli lunghi e fuori posto.

“Gino!”.

Saltando in piedi fra la meraviglia e la tosse.

“M’hai fatto andare di traverso…”.

E Gino si precipitò a battergli sulla schiena, ma lo zio lo agguantò e lo strinse. Poi lo allontanò, tenendolo per le braccia.

“Gino!”.

E giù un altro abbraccio.

Questa volta lo zio gli rimase avvinghiato, come avesse paura che lui gli potesse sparire da davanti. Allora a Gino gli si spalancò la testa e ci si immersero tutti i giardini, i muri, i negozi e le facce di Firenze. In un tuffo, tutti dentro e poi tutti fuori, al loro posto, ma imbevuti di quel benvenuto.

Poi in cucina, senza orzo (e chi lo beve più l’orzo… nemmeno il surrogato, da mesi), senza una briciola sul tavolo o una striscia d’unto in tutta la stanza. Su una seggiola dura, Gino si divise una cicca con lo zio e raccontò per sommi capi quanto poteva.

Quando fu sera, Alcide disse “non mi va di lasciarti, ancora; ti accompagno” e andò con lui a casa dei genitori. Così poi si fermò a desinare, con quella scusa.

Il babbo all’inizio non toccò quasi cibo e lo fissava sdegnato. Però i fratelli lo convinsero a tirare fuori l’ultimo fiasco di vino e a berselo tutti insieme. Alla fine fecero anche un brindisi alla salute di Gino e dello zio, che non vedevano più o meno dallo stesso tempo.

Il giorno dopo, Gino lasciò metà di quel che aveva ai genitori, portò la cipolla del signor Ricci al pegno e si trasferì dallo zio Alcide.

(continua)