Zibaldone di paesologia

di in: Paesologia

Quasi ogni mattina vado a trovare qualche paese come si va a trovare un vecchio zio, vado a vedere che faccia ha, a che punto è la sua malattia o la sua salute. Vado per vedere un paese, ma alla fine è il paese che mi vede, mi dice qualcosa di me che non sa dirmi nessuno.

 

Ci sono paesi accresciuti, deformati dalla spinta a diventare come le città e ci sono i paesi sperduti, affranti, quelli che non bastano mille curve per toccarli e quando arrivi senti che resterai per poco.

 

Nei paesi vedi il corso delle cose, l’inizio, lo svolgimento e la fine.

 

Io appartengo solo al mio paese. Sono un dente dentro la bocca del cavallo, un mattone dentro un muro. Sono il vento che mi agita la testa, che rompe i minuti in cui cammino.

 

Una volta nei piccoli luoghi si guardava il mondo come a una faccenda che avveniva altrove. Il paese era un altro mondo.

 

La paesologia è una forma d’attenzione. È uno sguardo lento, dilatato, verso queste creature che per secoli sono rimaste identiche a se stesse e ora sono in fuga dalla loro forma.

 

Non sai cosa sia e cosa contenga. Vedi case, senti parole, silenzi, in ogni modo resti fuori, perché il paese si è arrotolato in un suo sfinimento come tutte le cose che stanno al mondo, ciascuna aliena allo sfinimento altrui.

 

Certe volte penso, per darmi coraggio, che dai posti considerati minori può partire qualche scintilla. Dalla loro flebile vita può aprirsi lo spazio per una nuova compassione e una nuova alleanza con la natura.

 

Qui nulla avviene immediatamente e ciò che non avviene immediatamente è male, secondo il filosofo Kierkegaard.

 

Un paese è bello quando ti dà un altro respiro, ti fa capire come ciò che conta è sempre fuori di noi, che la nostra anima è sempre un luogo un po’ fosco e in fondo anche un po’ banale. La meraviglia del mondo è negli alberi, nelle nuvole, nella terra su cui poggiamo i piedi.

 

Prima dovevi imparare qualcosa per forza. Mungere una vacca , aggiustare un ombrello, portare le pecore all’erba giusta, fare i vestiti, le case, le scarpe, le sedie. Non era tempo di uffici e di chiacchiere.

 

Certi, a furia di stare sempre nel proprio paese, si scordano di stare nel mondo, nell’universo.

 

Una delle scene scomparse nella vita dei paesi è quella delle persone che spingevano le macchine: le famose partenze a strappo. Oggi al posto delle 127 ci sono le Audi 4 e non c’è più bisogno di spingere.

 

Il paese rimpicciolisce anche il narcisismo. Se uno si crede un genio non ci crede mai fino in fondo.

 

Il paesologo guarda e cammina. Non studia un paese, lo annusa, lo ascolta, ma non si fida di quello che si dice.

 

Uno arriva in una piazza, guarda delle facce e si fa un’idea del luogo in cui si trova. Pensa ai motivi per cui quel luogo gli piace o non gli piace.

 

La paesologia potrebbe anche chiamarsi etnologia soggettiva.

 

Il carattere di un paese dipende molto dalla terra in cui è piantato. Stare sull’argilla non è la stessa cosa che stare sulla roccia. La prima cosa che bisogna insegnare alle persone è un poco di geologia.

 

Nel posto in cui vivo c’è una libera università degli accidiosi. Io sono docente di una disciplina che si chiama «teoria e tecnica della passeggiata». Ho appreso l’arte in tempi passati.

 

La sera che ci fu il terremoto io stavo bene. Mi piaceva tutta quella gente per strada, tutti che si guardavano come se ognuno fosse una cosa preziosa. Quando molti si sono messi a dormire nelle macchine mi sono fatto un giro, li ho benedetti uno per uno.

 

Tutti se la prendono comoda. Tutto si ripete, l’indugio e il rinvio. Forse per questo ai funerali c’è un’aria viva. Forse perché finalmente è successo qualcosa.

 

Un paese non è un luogo adatto a far transitare il tempo in maniera divertente. Qui si crea quasi naturalmente un gorgo, un peso intenso di smania o inerzia. E allora il tuo peso s’incontra con quello degli altri e ti preme addosso.

 

La paesologia nasce dall’esigenza di raccontare un fenomeno nuovo, l’alienazione paesana.

 

In principio erano tribù di guerrieri. Un pedante rancore al posto delle anime feroci. Ora non ci sono lance, non ci sono più pastori e lupi. È tutto un pentolame casalingo: uomini seduti, ombrelli, imbuti.

 

Se uno abita qui e se ci sta con gli occhi aperti, è costretto a sentirsi invaso da un dolore, oppure invade il luogo col suo dolore.

 

Ormai sono quattro giorni di fila che vado in giro. Mi sveglio presto ora che i giorni si allungano. Ho fretta di andare verso la luce, verso le cose. Una macchina parcheggiata, un lampione, un cane, una porta chiusa, tutta la giostra del mondo esterno mi pare infinitamente più allettante di questo baraccone di fantasmi che porto in testa.

 

C’è chi sta fermo e chi va lontano. Io seguo un’altra strada, viaggio nei dintorni.

 

Quelli che visito più volentieri, quelli che mi emozionano di più sono relitti ad alta quota, monasteri dello sconforto, nascosti nella nebbia e nell’argilla, nella neve degli inverni che durano migliaia di giornate. Adesso questi paesi sembrano reliquie, ossari, barche sfondate. Ed è proprio questa sventura che non finisce mai di produrre qualcosa di sacro, anche se in deboli striature, in dosi omeopatiche.

 

La paesologia ha due fili: uno di pietas e l’altro di necrofilia.

 

Vado nei paesi quando le porte sono chiuse, parlo dell’inverno, parlo della stagione vera, non di quella in cui prendono forma di villaggi turistici a uso di emigranti di ritorno e di qualche loro conoscente. Vado nei giorni in cui non va nessuno. Parlo di quei mattini di dicembre in cui la tela è ammuffita e non c’è la chiara pittura della bella giornata e della buona salute.

 

Il paese, prima che di case e di strade, era fatto dei racconti di cui era fasciato. Immaginate un vasto telaio a cui ognuno forniva il suo filo per tessere un vestito di voci che servivano a farsi compagnia, a rendere più lieve la fatica di stare al mondo.

 

Quando si parla della grande migrazione degli italiani all’estero di solito si omette di ricordare che non si partiva dalle città, ma dai paesi. Sicuramente chi è partito ha migliorato le sue condizioni, ma il prezzo è stato altissimo. E in questo prezzo bisogna includere anche il dolore di chi è rimasto. Quando uno della famiglia partiva per un po’ di giorni non si cucinava, proprio come accadeva dopo un lutto.

 

Il mio paese è una nave in un mare di vento.

 

La paesologia è la scienza che studia i paesi, ma è una scienza strana a cui si dedica un solo scienziato. Una scienza che è il frutto di un banale ripiego: non potendo più vivere nel suo paese ed essendo incapace di lasciarlo, si è deciso a studiarlo.

 

Noi usiamo una sola parola, paese, per definire cose assai diverse tra loro. È come dare lo stesso nome a una pietra, a un imbuto, a un martello.

 

Una volta quelli che volevano cambiare il mondo arrivavano per parlare ai braccianti. Adesso dovrebbero parlare ai malati, alle vedove, agli anziani.

 

Il paesologo non ama il narrare disteso, ma la smania aforistica, la frase singola, spaiata.

 

I ragazzi non vanno ai funerali dei nonni. Può perfino capitare che il nipote sia al bar a consumare i soldi che il nonno gli ha dato due ore prima di morire.

 

La paesologia è poco adatta ai luoghi pianeggianti. Per capire come la comunità sia rotta basta andare in un cimitero. Non troverete due lapidi uguali. Eppure in molti casi c’è un solo marmista.

 

Che lingua si parla nei paesi? Prima c’era il dialetto per la vita comune e un italiano imbarazzato per le occasioni particolari. Adesso c’è una lingua senza carattere, una lingua che non canta, che non resta per aria.

 

Quello che sembra avere forza è solo ciò che ci sfugge, gli appuntamenti che manchiamo, i baci che non riceviamo, il paese in cui non viviamo.

 

La paesologia non si occupa di chi parte ma di chi resta. È la disciplina che segue chi non avanza a vele spiegate, ma chi inciampa, chi sente la vita che si guasta giorno per giorno, paese per paese.

da Vento forte tra Lacedonia e Candela, Laterza 2008