Un altro mestiere

1.

Aveva trascorso la sua giovinezza nei cantieri edili. Per quindici anni, dall’alto delle impalcature, aveva visto crescere le periferie di molte città del nord. Lo sforzo del costruire, l’ossessione delle forme edilizie aveva consumato per intero un fenomeno cui si era trovato a contribuire, una sorta di sradicamento, tanto invocato, quanto poi sofferto, perché avvenuto per i figli nello stesso terreno su cui aveva costruito la generazione dei padri. Solo dieci metri più in là. Il compito di dar forma alle delusioni dei committenti aveva cambiato la vita dei cantieri (e, per lungo tempo, anche la sua). In fondo, per chi lavorava in un’impresa, non era male.

Ora, sulla strada per Cima, riattraversava alcune delle terre che aveva lasciato per andare a fare il fotografo ai matrimoni. Era morta una sua lontana cugina. Nei rari tratti di pianura le case presentavano tipologie tanto diverse da non avere più nulla in comune, da escludersi reciprocamente, non fosse, appunto, che per il fatto di essere state erette una vicina all’altra. Questo vagabondare tra forme e materiali aveva preso di stagione in stagione un nuovo ritmo. Erano stati anni davvero particolari.Girando fra un cantiere e l’altro, dopo un po’ si capiva al volo che persona fosse il proprietario: ciascuno sperava di staccarsi da un passato doloroso, di arretratezza e miseria. Non c’era niente da fare. Così, alla cura artigianale del mestiere, si era sommata in lui questa esperienza che progressivamente aveva assunto peso maggiore, fino a fargli decidere di andarsene e di farsi un’altra vita. Quando pensava ai primi tempi, non aveva più grandi rimpianti. Capire le delusioni degli altri, questo sì, risultava sempre decisivo.

Era quasi primavera. Un sabato mattino, mentre scendeva le scale, sua madre gli venne incontro e lo fece sedere su di una sedia, vicino alla finestra. Gli mise un asciugamano attorno al collo e, dopo avergli bagnato i capelli, cominciò a tagliarglieli. Lui guardava i fratelli in cortile. Finito, la madre lo mandò a lavarsi, raccomandandogli di fare presto. Poi, gli mise addosso una camicia bianca e gli disse di aspettare. Due ore dopo suo padre lo accompagnò dal titolare della ditta ed il lunedì successivo prese servizio.

2.

Sua cugina abitava in una piazza alla periferia di Cima. Quando gli avevano comunicato della sua morte, aveva detto alla moglie che sarebbe andato al funerale e la mattina dopo aveva preso il treno. La città, con le sue vecchie mura, non aveva nulla di notevole. Il Palazzo comunale sembrava sempre troppo piccolo e la chiesa, con il campanile gotico a tutti i costi, dopo tanti restauri sembrava sfigurata. Molti anni prima, durante il suo apprendistato, era rimasto alcuni mesi a Cima lavorando alla costruzione di un complesso di case popolari.

La prima volta che era andato a letto con sua cugina (e l’unica, secondo le ricostruzioni che ne avrebbe dato in seguito) era stato tutto il giorno ad occuparsi dei ballatoi delle case. Sua zia era una donna dal forte temperamento, cui Clara non aveva saputo opporre una volontà altrettanto tenace. In quelle settimane di lavoro aveva trascorso le sere e il sabato pomeriggio ad ascoltarne gli umori, le frustrazioni, i propositi di fuga. Passeggiavano lungo il viale. La domenica mattina tornava a casa da sua madre e rientrava a Cima per la sera. A quel tempo non pensava di avere un futuro, gli pareva che quel che gli stava riservando il presente fosse il massimo di quanto gli potesse capitare. Non aveva altro. Perciò non gli sembrò male approfittare dell’occasione. Capiva bene le delusioni di lei.

3.

Quando si comincia senza grandi attese è difficile pensare che l’attività che si intraprende si porterà via buona parte della vita. Si pensa a quel che si ha da fare.Sono molte le cose da imparare in silenzio, senza dare a vedere di averle apprese. Poi viene il tempo in cui il lavoro, anche se l’orario non è rispettato, non dà più fastidio: si comprende l’ordine delle cose, si comincia ad identificarvisi, e progressivamente questa identificazione diventa completa, non si guarda più l’orologio. E’ qui che la sera diventa più difficile. Aveva imparato la misura del mestiere, aveva compreso che ogni eccesso si paga poi nell’opera finita. Dopo il lavoro, uscendo in strada sul piccolo ponte che si incontra verso la campagna, si immergeva nella desolazione delle case, con i cortili tutti ingombri di mattoni e calcinacci e rimaneva in attesa.

Da ragazzo, un giorno, se ne era andato lungo i campi per tutto il pomeriggio ed aveva fatto tardi. Arrivato a casa, aveva aspettato deliberatamente a pochi metri dall’entrata, dove finiva la striscia di luce che proveniva dalla porta. Sperava di sentire qualcuno che avvertisse la sua mancanza, ma dopo un po’ si era deciso a entrare.

Qualche anno più tardi, quando era già lontano, aveva cercato di aiutare Clara nel tentativo di avviare un commercio di detersivi, ed anche in seguito, quando le riuscì di aprire il negozio di alimentari che avrebbe tenuto a lungo. Poi, per quindici anni non ne aveva saputo più niente, se non che viveva ancora poco lontano dalla città e che si era sposata.

Sulla strada per Cima ripensava a tutta quella stagione.

Anche la sua geografia era cambiata. Un giorno, tornando a casa dopo aver concluso il getto di un solaio, non era riuscito a perdersi nel paesaggio urbano, aveva sentito indifferenti le strade, il quartiere in cui era vissuto. Silenziosamente, dopo alcuni mesi, trovata un’offerta da un’altra impresa, aveva lasciato il suo posto.

Il mestiere è la difficoltà che si porta con sé al termine di un lavoro, quando si rimane con quel che non si è riusciti a dire di se stessi, con quanto è rimasto intentato; il residuo dell’opera, quel che professionalmente non importa. Nel corso del tempo, in mezzo alle costruzioni più banali ed ossessive, anche l’esperienza della forma cominciava a venir meno. Così si era ritrovato spesso a pensare ai committenti.

Ora, fuori della stazione, la città sembrava deserta, popolata da persone troppo lontane da lui per età ed esperienza. In un certo senso è vero che nella seconda parte della vita tutto ciò che abbiamo conosciuto diventa straniero. Anche Clara negli anni era diventata un’altra persona. Tuttavia, ricordando quelle prime stagioni di lavoro, rivedeva soprattutto la sua giovinezza, la fiducia che ingenuamente aveva posto nelle sue azioni e in quella che sembrava la possibilità di ricominciare ogni volta da capo, come se fosse così anche per gli altri, quelli che vi sono coinvolti.

Le persone che, come lui, si dirigevano verso la casa di sua cugina non avevano un aspetto familiare; ma era difficile rimanere estranei in quello scenario. Durante la cerimonia, si disse, si sarebbe mantenuto in disparte.

4.

Le due figlie di Clara, Carmen e Giovanna, dopo gli studi superiori avevano rilevato una rivendita di cancelleria e materiale per ufficio, cui piano piano avevano aggiunto una cartoleria ben avviata. Negli anni successivi Carmen, più incline allo studio, era riuscita a laurearsi in economia e commercio. Poco tempo dopo la laurea, nello stesso anno, entrambe le sorelle si sono sposate, rispettivamente con Giulio, titolare di un’impresa idraulica e Corrado, impiegato comunale. Secondo il volere della madre, che ha voluto che la competenza si tramandasse di generazione in generazione, frequentando dei corsi serali si sono entrambe diplomate sarte, come la nonna materna e come, appunto, la madre. Nel loro ufficio, una grande immagine le ritrae sorridenti con in mano questo diploma, “quello che vale di più”, come in un’occasione ha commentato la madre. Continuano a vivere a Cima. Per il trentesimo anniversario di matrimonio della madre le hanno regalato un quadro con la riproduzione della città in argento.

Giulia, la figlia di Carmen, è da poco risultata vincitrice del titolo provinciale di corsa campestre.

5.

La sera, sul treno per casa, guardava dal finestrino le costruzioni che sfilavano sulla pianura. Aveva tentato di isolarne qualcuna, una alla volta, cercando di scegliere quelle che avevano conservato una forma coerente, come aveva fatto quando aveva incominciato a fotografare. Seduto al suo fianco, un uomo sfogliava una rivista che forniva consigli sulla sistemazione dei giardini. Dei giovani, di ritorno dalle vacanze, stavano giocando: uno mimava il titolo di un film e gli altri provavano ad indovinare di quale si trattasse. Ricordando un gioco simile, che facevano da ragazzi – quando uno mimava un mestiere e gli altri dovevano indovinarlo – per un momento aveva avuto voglia di intervenire.

Arrivato a casa, era rimasto per un po’ sulla soglia, guardando verso la strada illuminata. Sua moglie stava già dormendo.

Questo racconto è il primo della raccolta Il ritardo di Water Nardon, QuiEdit 2009

QUARTA DI COPERTINA de Il ritardo

I protagonisti degli undici racconti di questo libro cercano di andare avanti con fiducia in un mondo che si è fatto quasi indecifrabile. Li seguiamo nei loro incontri e nelle loro avventure, cogliendoli talvolta in un momento di esitazione davanti all’esigenza di una disciplina interiore, di fronte a un ricordo, a un’intuizione improvvisa. Come ha scritto Massimo Rizzante : “Il loro sopralluogo nelle province della giovinezza è solo l’inizio di un lungo tirocinio quale l’età adulta in effetti è una volta che ci si è convinti, come afferma uno dei personaggi del libro, che quella che si sta vivendo è davvero la nostra vita”. Sono esistenze intere colte in poche pagine. “L’inattesa felicità che si sperimenta leggendo i racconti di Nardon è quella che nasce dalla nostra scoperta che ogni gesto o evento della nostra vita si perde nel mare dell’oblio perché noi desideriamo correre all’impazzata verso mete sconosciute, essere sempre altrove, in luoghi lontani a vivere momenti irripetibili. Nardon ci congeda dalla nostra eterna giovinezza, affermando che nulla è così memorabile come la vita quotidiana”.

Walter Nardon(Zurigo, 1970) ha pubblicato alcuni racconti sulla rivista Sud, sul blog letterario Nazione Indiana e sulla rivista elettronica Zibaldoni e altre meraviglie. Qualche intervento è apparso su altre riviste ( Nuova Prosa , Humanitas, Il Margine). Nel 2007, presso l’Editrice Università degli Studi di Trento, ha pubblicato il saggio La parte e l’intero. L’eredità del romanzo in Gianni Celati e Milan Kundera. È uno dei coordinatori del Seminario Internazionale sul Romanzo presso l’Università di Trento. Vive a Cembra e lavora a Trento.