Cronache americane/ 4

di in: Paesologia

Fotografia di Francesca Andreini

Spennati e contenti

 

Che sistema cinico, complesso, difficile…

Vien da chiedersi come si orientino, come trovino l’ottimismo e la forza d’animo per procacciarsi l’assistenza medica, gli americani, in questa foresta di affari privati.

 

“Che assicurazione ha?”

 

Dice, spiccia, la segretaria dello studio medico.

Sorvolando sul fatto che dalla tua risposta dipende la qualità e quantità di cure che riceverai. Dipende il futuro della tua vita.

 

Io porgo il cartoncino con i dati della mia assicurazione, dove sta scritto a cosa ho diritto e cosa mi posso scordare e intanto penso con tenerezza all’orticello dove ci deposita la cicogna, in Italia. Un sistema sanitario nazionale, recintato e sicuro. Dove nessuno può dirti che non hai diritto a una cura. Qualche volta si scoprono gli angoli bui, o si finisce in una buca. Lo critichiamo e a volte perfino lo malediciamo. Per tutta la vita, comunque sia, lo diamo sempre per scontato.

Questa superficialità, adesso, mi pare un’ingratitudine.

 

Mentre la segretaria sparisce con il mio cartoncino io immagino, parto.

 

Ho appena dato il cartoncino di un’assicurazione sanitaria che copre solo poche spese perché il mio datore di lavoro non è disposto a fornirmene una migliore.

Sono un’americana media, sto ancora ripagando il prestito della banca che mi ha permesso di studiare all’università. E ho le rate del mutuo, quelle per l’auto… la mia malattia rischia di mandarmi in rovina. Sarebbe meglio, per me, essere una nullatenente, una barbona per strada o una madre single con quattro figli a carico e senza lavoro. Che quelli se la cavano con un’assistenza di base, gratuita. Niente di raffinato, certo. Ma già qualcosa. Invece io sono un’impiegata con uno stipendio fisso, e quindi se mi ammalo devo pagare, e caro. Ma sono comunque messa meglio di mio marito, a cui il datore di lavoro non ha dato nessuna copertura…. Solo che ho già finito i risparmi messi da parte per gli studi dei figli. Ho avuto un bel rinegoziare con la compagnia di assicurazione, andare a scovare cavilli nel contratto, fare appello al programma di assistenza gratuita della contea, chiedere aiuto a un gruppo di supporto, affidare il caso a un consulente volontario… Sono in ritardo con le rate dell’auto, e la casa rischio di perderla, se continuo così. Con cosa pagherò le prossime cure? E se non pago, semplicemente, muoio. Potrei convincere la mia biscugina a giocare i risparmi ai cavalli…

 

“Grazie, lo può riprendere adesso.”

 

Mi risveglio, riprendo il mio cartoncino, che è stato debitamente fotocopiato e inserito nel sistema, e sospiro di sollievo. Ho una buona assicurazione sanitaria. Anche se sono ammalata potrò lasciare in pace la biscugina e non cadrò in rovina.

Ringrazio con eccessivo entusiasmo la segretaria, che mi guarda di sbieco e non ricambia.

Mi siedo ad aspettare il mio turno e prendo in mano le solite riviste su come stare in forma e belli e magri, così da evitare di dover finire dentro uno studio medico a farsi visitare, spendere soldi e rovinarsi.

Qui in America si capisce pienamente il senso della prevenzione…

 

Che poi, anche per chi ha una buona assicurazione sanitaria, i giochi non sono del tutto semplici.

 

“A quelli con una copertura discreta fanno fare un sacco di analisi in più.”

 

Mi ha detto più di una voce.

 

E mentre volto le pagine a colori cercando di ignorare quella piccola vibrazione di tensione che aleggia negli studi medici, invece di distrarmi continuo a rievocare casi o voci di amici che mi hanno messo in guardia.

 

“Chi può pagare i medici è una gallina dalle uova d’oro, da queste parti!”

 

“Qui non si guarisce mai, ci si cura a vita!”

 

Finché la pagina che sto leggendo, con la foto della bella stradina americana dove sul pratino di casa una bella la signora americana si dice grata al medico che le ha diagnosticato la sindrome delle gambe agitate (SIC) mi si trasforma sotto gli occhi. Diventa più vasta e complessa, piena di cose e di animali… una fattoria.

 

I cittadini assicurati zampettano in giro con gli occhietti tondi e le penne all’aria. Mentre loschi individui in camice bianco, intanto, li guatano di nascosto. Ogni tanto uno di loro acchiappa un pennuto e lo spreme, facendogli cacare un ovetto, e un altro, e un altro. Quello prova a gracchiare che non è malato, che si sente bene. Allora il medico lo mette sopra a un grosso pentolone bollente, pronto ad inghiottirlo: i pericoli delle malattie. Gli dice che finirà lì, se non lo lascia fare, e il poverino si spaventa tanto che si lascia spennare vivo, e continua a espellere oro.

 

Intorno, a guardare la scena senza reazioni, ci sono gli altri cittadini, quelli con le assicurazioni mediocri. Alcuni ci provano, ad attirare l’attenzione dei camici bianchi, perché non si sentono bene. Ma se ne stanno lì a belare, ragliare e grugnire invano perché sono solo animali comuni: buoni come bestie da lavoro e inutili quando si ammalano…

 

Metto giù la rivista, tanto non leggo più, ormai. E non vedo più nemmeno la fattoria, ma penso.

Penso a President Obama a cui era parso un po’ iniquo, questo sistema.

Lui e i suoi sostenitori si erano provati ad argomentare che magari con tutte quelle belle uova d’oro ci si poteva fare qualcos’altro. Se i soldi dell’economia americana non fossero più finiti a fiumi nelle nelle tasche dei medici della fattoria coi loro prezzi gonfiati all’inverosimile (tanto pagano le assicurazioni) magari le gallinelle avrebbero investito in borsa, o messo su aziende, o fatto viaggi, comprato case… e la fattoria stessa avrebbe potuto farsi più bella e più larga, meglio tenuta, più confortevole. Ci si sarebbe addirittura potuto curare qualche cavallo zoppo, o qualche coniglio sterile con una piccola parte di quelle uova d’oro.

E poi aveva detto che i padroni dovrebbero essere obbligati per legge a fornire una protezione sanitaria agli animali che lavorano per loro. Che non è giusto che quando si ammalano vengano abbandonati a grattarsi la rogna da soli.

 

Ma no. Non ha funzionato. Pare le lobby si siano messe nel mezzo. E muovi il potere un po’ qui un po’ là, maneggia, briga e spendi alla fine l’hanno spuntata quasi tutta loro.

Ai repubblicani poi, quando gli parli di far intervenire lo stato su qualsiasi campo del vivere civile gli viene un attacco di sdegno furibondo, come se gli avessi proposto di uccidere tutte le nonnine inermi, o i neonati in culla. E questa volta hanno detto che i malati poveri sono tali perché sono fannulloni e non c’è motivo di aiutarli. E che se il presidente obbliga i datori di lavoro a fornire assistenza sanitaria ai loro sottoposti, allora è un’ingerenza bella e buona, come se obbligasse tutti i cittadini degli Stati Uniti a mangiare le rape. Davvero, hanno detto così.

 

Questo bailamme di argomentazioni era stato una palude limacciosa in cui la piccola barchetta della mia fiducia era affondata piuttosto rapidamente.

Fin dal nostro arrivo, del resto, l’istinto mi aveva suggerito di starmene tranquilla e in disparte; nella fattoria mi ero nascosta dietro una botte, con le ali spiegate sui pulcini, cercando di non farci notare troppo dai camici bianchi  a caccia.

 

E però poi, col gran cianciare dei medici sui pericoli che tutti noi ci portiamo dentro, che a sentir loro ce ne andiamo in giro stupidi e sereni senza sapere di averne in corpo più di una centrale nucleare, mi erano sorti degli scrupoli: almeno i pulcini, magari, sarebbe stato meglio farli vedere…

 

Il pediatra di qui mi aveva guardata con l‘occhio serio, mentre la sua assistente faceva sì con la testa  a ogni parola che lui diceva e io mi spaventavo.

Potevano avere chissà cosa, i miei bimbi, davvero di tutto. Anche nuove minacce alla salute mai sentite prima, come il piombo nel sangue.

 

“Il piombo nel sangue?”

 

L’assistente annuiva di nuovo mentre il pediatra mi spiegava che qui le tubature sono molto vecchie e possono contaminare l’acqua. C’erano già stati tanti casi…

 

Oppure alcune vecchie questioni, che però qui diventavano nuove perché nessuno ci aveva mai dato peso, prima. Fino alla visita da questo pediatra con l’assistente signorsì accanto.

 

Abbiamo affidato i pulcini ai camici bianchi e per noi sono iniziate settimane di controlli ed allarmi, preoccupazioni, analisi e spese (perché anche le assicurazioni buone mica le coprono interamente, le somme) finché, finalmente, abbiamo potuto appurare la verità: i ragazzi erano davvero sani come avevamo sempre saputo.

 

“Ecco, vedi?”

 

Aveva detto il marito gallo.

 

“Te lo dicevo che non c’era da allarmarsi. E quanta paura per nulla… basta, ora di medici ed analisi non se ne parla più!”

 

Era saltato su una botte e aveva cominciato a prendere a beccate tutti i camici bianchi che cercavano di avvicinarsi.

 

“Vieni anche te!”

 

Mi aveva detto.

 

“Non ti far prendere!”

 

Invece io, con chioccia mansuetudine, mi ero affidata ai dottori e sottoposta a tutte le analisi e tutti i test.

 

Che poi, a saperlo prima, ci sarei saltata anche io su quella botte. Invece di lasciarmi afferrare dagli allarmi e dai controlli. Da questi modi così brutali di affermare le situazioni, questo lasciare sempre tutte le decisioni nelle tue mani. Che  è una caratteristica dei medici di queste parti. Ti informano tanto, ti informano su tutto. E poi a te decidere. E se gli fai presente che gradiresti il loro parere si chiudono come un’ostrica, tenendosi stretta dentro la perla della loro conoscenza. Rischiano la denuncia, se ti creano un’illusione o se non si fanno capire correttamente. Meglio darti i dati in mano e lasciarti fare.

 

E poi qui ci sono le specializzazioni specializzatissime, che ti obbligano a percorsi lunghi e sfiancanti… a volte mi sembra di stare in una barzelletta, come quella dove c’è quello che sa scrivere e quello che sa leggere. Perché di uno specialista italiano qui se ne fanno almeno due. Raddoppiando i tempi, le spese e le attese…

 

E i misteri della comunicazione, che mi arrovellano il cervello ogni volta che si passa alla fase successiva, come in un videogioco spietato, dove in gioco c’è la mia buccia… Come si dice in inglese chiamo per un appuntamento come si dice in inglese ho portato i precedenti come si dice in inglese atipico, come si dice anormale, come si dice non capisco la differenza, come si spiega non voglio le statistiche, voglio capire quanto è seria la situazione da un’espressione, un’incrinatura nella voce, un barlume di qualcosa nello sguardo, come posso farmi un’idea di cosa ho, davanti a medici giovanissimi se i miei pregiudizi vogliono quelli bravi con le teste canute?!

 

“Prego, il dottore l’aspetta.”

 

Finalmente. Posso smettere con i ricordi e le considerazioni, con i paragoni fra i sistemi sanitari. Mi sbrigo ad afferrare le mie cose e a seguire in fretta l’assistente, che ha stampato in faccia il sorriso teso di chi lavora per uno che non ha tempo da perdere.

 

E quindi non ha inutili sorrisi per il paziente. Non ha preliminari e, come mi aspettavo, non ha pareri. Ha solo i fatti, come sempre, e la scarna comunicazione.

 

“Potrebbe essere una cosa molto grave. Ci vorranno altri esami, un intervento.”

 

Questo è quanto, e a me decidere il se e il quando.

 

Lascio il medico, lascio l‘ascensore, l’atrio, il palazzo e infilo una strada.

 

C’è un’energia nuova, da qualche giorno; ora che la buona stagione si inoltra nell’anno, c’è in giro una luce forte che non deve più ritrarsi dal buio prepotente dell’inverno. In qualche modo, ha prevalso. E adesso mostra le cose un po’ da esaltata: i building con gli uffici e quelli con gli appartamenti, le vetrine dei mall, le strade lunghissime. Lo scorrere delle macchine e il camminare dei pedoni. Tutto scolpito, tutto brillante di impegni, movimento, scopi.

 

Io, con le mie cartelle cliniche in mano, stringo gli occhi al riverbero luminoso e  non ricordo bene in quale parcheggio avevo lasciato l’auto. Attraverso senza fare caso al traffico che riparte, veloce, dopo il semaforo. In salvo sul marciapiede opposto, osservo la gente che ride e parla eccitata al telefono, che parcheggia, si incontra, si incrocia. Come se pochi minuti prima non avessi fatto parte anche io di quel mondo colorato e pieno di suoni, di storie… li guardo e mi sento una controfigura. Un personaggio di un film in bianco e nero, muto, finito per sbaglio in una storia a colori. Non capisco la trama, non ci prendo gusto, recito senza partecipare.

 

Ritrovo l’auto, l’avvio e parto verso casa, chiedendomi come potrò portare avanti il solito tutto, sentendomi come mi sento. I ragazzi e la casa, la socialità, gli impegni…

 

Parcheggio e nemmeno passo da casa, ma entro subito nel parco.

 

C’è una primavera brillante, intorno.

 

Gli inverni, e il buio, il freddo e le croste di ghiaccio, i colori morti. Tutto è stato strappato via, tutto è stato sospinto lontano da questa linfa di forza che ha adesso la natura. Sono passati anche i colori sgargianti dei fiori, adesso, anche le sfumature frivole delle foglie nuove. E hanno lasciato il posto a questo rigoglio verde e solido, nuovo e ancora intatto. Lavato spesso dalle piogge forti di queste parti, ogni vegetale respira e risplende, ce l’ha fatta, ha vinto e guadagnato un’altra estate di vita.

 

Sono settimane, ormai, da quando hanno cominciato a soffiarmi addosso i refoli freddi degli allarmi, che mi dirigo spesso in questo parco vittorioso. Cerco di alimentare la speranza, di scaldare e mettere in circolo anche io una linfa capace di portarmi oltre i pericoli. Ma invece, via via, mi sento sempre più staccata e a parte. Diversa, bloccata. Sempre meno in sincrono con la stagione. E oggi, poi, è addirittura nocivo continuare a camminare: serve solo a farmi sentire un ramo malato, uno sterpo secco che non riesce a vincere verso la primavera…

La sera, a cena, durante il quotidiano esercizio della pazienza e della speranza, mentre cerco di tenere lontani i soffi ghiacci delle preoccupazioni perché non circolino addosso agli altri, il marito mi lancia una domanda inattesa.

 

“Ti ricordi quell’invito a Disneyland? Ci aspettano, cosa facciamo?”

 

Arriva da un altro copione, questo viaggio. Una vecchia storia dove c’erano proposte, inviti e amici entusiasti che a Disneyland ci tornavano ogni anno e che, gentilissimi, ci volevano ospitare a casa loro.

 

“Ma… sarà il caso? Disneyland. Adesso.”

 

E però ci sono i precedenti accordi, ci sono le aspettative dei bambini… e la speranza che, forse, a Disneyland i miei cari si accorgeranno meno di me, e io potrò allentare lo sforzo di tenere a bada le folate gelide…

 

A Disneyland il film muto diventa frenetico. Una vera comica d’altri tempi, con gli attori che saltellano veloci lanciando espressioni esasperate.

Su e giù dai trenini, dentro cinema in 4 dimensioni, squagliati nelle code che si attorcigliano intorno ai desideri dei bambini e si snodano, sudate e frignanti, per ore ed ore ed ore sotto il sole ahi molto caldo della Florida…

Il film avanza e si riavvolge, si ripete ognuno dei tre giorni con piccole varianti: una grotta di personaggi scanzonati una volta, i guerrieri di saghe stellari un’altra, scivoloni fra spruzzi d’acqua un’altra ancora.

La mia controfigura partecipa e si sottopone, pesticcia i piedi nelle code, rabbrividisce sotto le voragini fredde di aria condizionata che si spalancano in ogni teatro.

 

“Come va?  Forse non era il caso…”

 

Indaga l’amica.

 

“Invece va bene, davvero.”

 

Qui non c’è niente da capire e di cui sentirsi parte; tutto è così abnorme e finto, con Topolino alto due metri che fa ciao ciao, con le navi dei pirati, con le foreste e i castelli di cartapesta che finalmente la disperazione ha trovato un luogo dove gli riesce di non sentirsi fuori posto.

 

E dove puoi aggrapparti ai braccioli dei sedili, puoi aggraparti al pop corn e il caldo e le risate degli altri. Come alle maniglie di quel gioco dove si appendono i bambini, una mano per volta, per andare avanti e avanti. Questi momenti fra le confezioni di divertimento del parco ti transitano più in là. Ti portano alla fine della gita.

 

E sono tre giorni in avanti, verso la conclusione, qualsiasi essa sia.

 

 

In funambolico equilibrio

 

A volte i “lieto fine” grondano sangue, fatica, digrignamento di denti e disincanto. Dopo un parto, ad esempio, quando le famiglie sono in festa per la pioggia di benedizione raccolta in quel rimescolume di geni e cromosomi che è la nuova creatura e la puerpera, invece, se ne sta con l’occhio umido, buttata in un angolo della gioia collettiva. Deve riprendersi dallo strapazzo brutale, dal senso di tradimento della natura. Che l’ha presa e trapassata di dolore così a lungo da fargli dimenticare, quando tutto è finito, di essere al sommo della felicità.

 

Deve essere successo qualcosa di simile anche a me, penso, mentre tengo l’ultimo referto medico in mano: il responso negativo, che dice che va tutto bene.

Troppe complicazioni, per arrivare a questo, operazioni andate storte, spaventi, imprevisti e sofferenze. E adesso, mentre leggo e rileggo il foglio tanto atteso, mi esce appena un sospiro di sollievo, attraverso il groviglio di delusioni, rabbie e fatiche che mi si è intrecciato sopra l’umore.

 

Ero tornata con i ragazzi in Italia, ad affrontare la parte più difficile della situazione, per ritrovare le parole, gli stereotipi e i gesti che mi risuonavano dentro vibrando di un che di conosciuto, comprensibile, circoscritto.

Gli sguardi dei medici e i loro umori, le trafile burocratiche, le parole sulle diagnosi… tutto così chiaro, di colpo, da sembrare facile. Intorno non più una giungla in cui avventurarsi in una caccia grossa alle informazioni, ma una comoda biblioteca, dove sistemare gesti, frasi e conoscenze in un casellario esatto. Da consultare a piacimento per valutare le informazioni del male, metterle in prospettiva e guardarle da ogni angolo che mi aggradava.

 

Ero riuscita a saltare su una dimensione eroica di resistenza e sfida, in Italia, e sentivo che avrei preso il male per il bavero, se c’era, e l’avrei scaraventato via dalla mia vita.

Ma il male non c’era, e invece ci sono state le conseguenze dell’operazione, che mi porterò dietro per sempre.

 

E allora adesso, a riposo in campagna, quando potrei ricominciare a camminare dritta e spavalda, con gli allarmi passati alle spalle, invece me ne vado curva, in bilico, scivolando piano come un funambolo. La salute e la sicurezza un filo sottile e fragile, sospeso sopra i barati orrendi e divoratori dei pericoli e degli imprevisti…

 

“Mamma, è tutto a posto, vero? Perché sei ancora preoccupata?”

 

“Certo che è tutto a posto. Non sono preoccupata…”

 

Solo, non riesco a scacciare quel modo di sentire e di camminare, scivolando piano…

 

“Mamma, facciamo una passeggiata?”

 

Andiamo a passeggio fra i colli impervi accesi dalla luce calda del tramonto.

Loro agili e guardandosi intorno, con corse improvvise e gare all’ultimo è scemo. Io passo passo, con la stanchezza dell’intervento e delle sue conseguenze su ogni fibra. Ma sopratutto con questa cautela di vivere che mi si è appiccicata addosso come un fungo infetto. E che non riesco nemmeno a desiderare di mandare via.

 

“Mamma, guarda, una lucciola…”

 

Lucciole preziose. Lì a far brillare una frase, qua e là, in queste lunghe sere d’estate.

 

“C’è un senso, da qualche parte. Un bagliore di gioia che affiora e si illumina di tanto in tanto… lo vedete? E’qui… no è qui… qui… qui…”

 

Stasera sono rade, il crepuscolo sta spegnendo lentamente i colori sui cespugli e le  erbe selvatiche e loro volano ancora timide, l’una distante dall’altra.

 

“Mamma, fra poco torniamo in America e poi, che facciamo?”

 

Già, che facciamo?

E’ difficile collocarsi, quando ti senti come mi sento. Incontrare un cammino che ti si confaccia, un’attività che ti contempli.

 

Continuo la passeggiata e mi ricordo di quando ero ragazzina, e camminavo da sola per questi sentieri e per questi boschi.

 

“Mi piaceva risalire i torrenti. Mi perdevo, a volte, mi graffiavo e strappavo i pantaloni. Ma non mi fermavo.”

 

“Davvero? Non avevi paura?”

 

No, non avevo paura. Stavo dentro al camminare come in mezzo a una dimensione sicura, dove io non stavo da nessuna parte, ero libera e irraggiungibile da tutti e da tutto, anche dai pericoli.

 

Poi, da grande anche, mi piaceva andare e andare. Uscivo senza soldi, senza documenti.

 

“E perché?”

 

“Non volevo  oggetti addosso, volevo sentirmi leggera…”

 

Camminavo ore ed ore. Nelle strade, lungo fiume, fra i campi. Senza fermarmi per una giornata, facendo percorsi da pellegrino di altri tempi.

 

“Perché camminavi tanto?”

 

“Chissà…”

 

Forse perché il mondo preferivo esplorarlo, piuttosto che viverlo.

 

“E quando sei cresciuta?”

 

“Camminavo ancora di più! Col bagaglio sempre minimo, che potesse stare in uno zaino.”

 

Che contenesse tutta la mia storia, tutte le mie esigenze. E poi andare e andare.

 

Quel momento continuo. Quell’attimo che non passa, perché tutto ti scorre accanto e tu sei sospeso. Fuori da tutto eppure in mezzo. Al centro del mondo, perché lo attraversi. Non ti perdi niente, non ti nascondi, non fuggi. Non ti impegni e non dipendi. Non leghi, non fai, non costruisci. Non rinunci, non sbagli, non incontri, non fraintendi. E nella negazione di tutto vai e vai. Con tutto te stesso. Senza perderti niente.

 

“Ragazzi, ho deciso. Quando torniamo in America facciamo un viaggio.”

 

 

Attraverso

 

Il bagaglio minimo, ora, sono sacchi e valigie enormi e il mezzo un aereo e poi una grande automobile. Ma quel che conta è che è che ognuno di noi è tutto lì. E si sposta senza strascichi di senso. Senza bave di doveri e aspettative. Con quello che gli serve e lo contraddistingue chiuso in una valigia.

 

Il paesaggio è come sospeso oltre qualcosa. Il paesaggio del cielo, dapprima. Vago e infinito, nell’altitudine, oltre i piccoli oblò dell’aereo.

Poi il paesaggio urbano, oltre i finestrini dell’auto, con scene di strada: case basse e squadrate, grigie, colorate; studi televisivi cubici, cartelli pubblicitari, pali pali e pali elettrici con i lunghi cavi spogli. Non si intrecciano agli alberi e i rampicanti come dalle nostre parti, perché qui le strade sono scarse di piante. Ci sono solo file di palme dal tronco alto e la chioma piccola, nei viali principali. E agavi, piante grasse, qua  e  là. Siamo a sud, il deserto è poco lontano. Niente fa ombra, c’è la luce forte della California che sovrintende a tutto, e tutto è visibile e netto, sulle groppe lievi delle colline di Los Angeles.

 

Potrebbero essere scene di un’altra natura, di un’altra latitudine e niente cambierebbe: sfilano e passano e non si sovrappongono a nessun pensiero, non si fanno osservare, non si fanno scoprire. Ovunque fossi, adesso, mi sentirei comunque in questa negazione piena di benessere che mi attraversa insieme alle immagini… un senso torpido, benevolo dell’andare che non mi abbandona nemmeno quando ci fermiamo e scendiamo.

Quando il paesaggio sono le lunghissime strade dove ad ogni passo, nel marciapiede, è incastonata una stella dorata, e scolpito il nome di un divo.

E le ragazze camminano in silenzio, guardandosi intorno con aria trasognata.

 

“Sembra di stare dentro un film…”

 

Gli occhi della figlia grande contemplano la dolcezza di un sogno.

 

E io annuisco. È vero. Sembra di stare in un film. Ma non dentro uno in particolare; qui stiamo dentro i film stessi, la loro essenza… Come se tutte le migliaia di pellicole prodotte da queste parti avessero impregnato l’aria, i marciapiedi, i palazzi e in qualche modo noi potessimo partecipare alla loro creazione e fruizione allo stesso tempo, semplicemente camminando per strada.

Dispiace quasi chinare la testa, distogliere la mente da questa illusione per abbassare lo sguardo a leggere i nomi di glorie su glorie passate: cantanti jazz, attori del muto, dive dei telefoni bianchi, bluesmen e presentatori.

 

“Guardate, ho trovato Bill Evans! Venite, qui c’è Chuck Berry! Ehi, guardate: Groucho Marx!”

 

Grido io, in mezzo ai passanti.

 

La figlia di mezzo mi guarda, comprensiva. Il suo sorriso parla al posto della sua voce e dice che mi capisce, mi vuole bene e ci prova, a emozionarsi per le mie stesse cose… ma a lei questi nomi non le dicono proprio niente. A lei, come a milioni di altre persone. Orde di turisti che ci camminano sopra ogni giorno, indifferenti, frugando con gli occhi alla ricerca dell’ultima celebrità.

Come io stessa… su quante stelle passo senza che il loro nome mi stappi nel cervello alcun ricordo!

 

Hollywood Boulevard di colpo mi si ferma, dentro. Le sue pizzerie, cinema, teatri, negozi di parrucche e famiglie che leccano gelati, ragazzine che fingono gridolini di eccitazione, bambini riversi sui passeggini, maniaci che fotografano le stelle sulle mattonelle con il treppiedi… Tutto questo immenso e celebrato monumento all’effimero, si ferma e mi fissa. Con un ghigno, mi soffia nell’orecchio un suono lieve, un suono morto e dimenticato, di vite oscure, nonostante tutto, di facce struccate, di mode finite. La vita non un palcoscenico su cui recitiamo i nostri ruoli, come diceva quello che ha messo in scena tutte le rogne umane, ma un grande camerino pieno di odori umani, ciabatte e carni stanche.

Il camerino ci accoglie, guarda i nostri trucchi, le nostre smorfie. Ci guarda e ci sorride e ci lascia giocare a questo e a quello. Ci lascia stampare nomi e imprimere impronte, agitarci, rifulgere. Ci accoglie e sorride, fino al prossimo attore. Ne ha visti passare tanti, ce ne sono tanti che devono ancora arrivare…

 

“Mamma, che succede? Papà, cosa aspettano questi?”

 

Fra le stelle e le riflessioni siamo arrivati davanti al Chinese Theatre, quello con un piccolo spiazzo, davanti, dove i divi imprimono le mani nel cemento.

Adesso è coperto da una folla.

 

“Aspettano l’arrivo di qualche attore famoso. Ci deve essere la prima mondiale di un qualche film, tra poco, nel teatro…”

 

“Aspettiamo anche noi, dai, aspettiamo! ”

 

Ce ne stiamo stretti nella folla che freme d’attesa per intravedere fra le teste e le spalle un pezzetto di attore che scende dalla macchina, saluta i fan e entra nel cine. E tutti questi entusiastici spettatori pesticciano indifferenti sulle impronte grandi e piccole che i divi del passato hanno lasciato per terra. A imperitura memoria…

 

A me non va di restare a pigiarmi fra le spalle e le gambe. Non ho mai capito bene chi aspetta ore per poi gridare e sbracciarsi davanti a un artista… Mi imbarazza. Come vedere uno che piange disperato in mezzo alla strada o che si mette a insultare qualcuno. Uno sbraco dei sentimenti, mi sembra, e anche un po’ forzato.

Il massimo che riesco a concedere alla nostra piccola comitiva è di proseguire nella caccia al nome. Ci chiniamo di nuovo, e frughiamo con gli occhi, spazziamo le mattonelline.

 

“Eccola, eccola!!! Guardate, la stella di Harrison Ford!”

 

Finalmente abbiamo trovato il nome che tutti mette d’accordo, fan di allora e ragazzi di ora…

 

E ci troviamo d’accordo anche subito dopo, decidendo di andare a intrupparci nella visita agli Universal Studios. Come potevamo resistere? A Los Angeles i film ti entrano nei respiri, nei sogni e nelle decisioni… Non se ne può sfuggire, è la stregoneria della fabbrica del divertimento, la manipolazione ardita della nostra immaginazione. Ci ha allevati fin dalla più tenera infanzia, del resto. Ha formato, quando nemmeno lo sapevamo, i nostri eroi e le nostre reazioni. E allora diventa rassicurante e giusto, doveroso, quasi, andare a vedere i luoghi dove tutto questo ha avuto origine.

 

Con una sorpresa: la visita diventa un viaggio nel viaggio. Sul trenino che ci fa visitare gli studios tutto è scorrere, senza niente fermare, senza trattenersi. E questo scorrere si fa quasi fluido, su e giù fra le collinette dolci sopra cui si articolano i set.

Attraversiamo strade finte e finte piazze, villaggi, torrenti e pezzi di baia.

 

“Questa strada la conosco!”

 

“E anche questa… ma credevo fossero a New York!”

 

Le abbiamo viste in tanti film, come se varie storie si fossero ambientate nello stesso angolo di città. E invece era la stessa strada di cartone…

Ci siamo abituati a un falso, ci siamo affezionati all’effimero. Abbiamo riconosciuto e ci sono sembrati nostri i pezzi di un mondo che non esiste… o forse lo sapevamo. In fondo alla coscienza c’era questo segnale che ci avvertiva di qualcosa che non andava ma noi lo abbiamo ignorato o lo abbiamo messo a tacere: “lasciami in pace, sto guardando il film!” Che importa se usa gli stessi trucchi di cento altri? Pago al mio cervello il biglietto d’ingresso, mi siedo nel buio della storia e accetto. Fammi vedere qualcosa. Portami da qualche parte!

 

Il trenino intanto ci porta in un pezzo di metropolitana crollato, sull’acqua sotto cui corre lo squalo, accanto al motel di Psyco, fra le fiorite strade di Wysteria Lane…

Narra brandelli di storie, a tratti. Anche lui, come un film, come un racconto, ci solleva fra le emozioni di un’atmosfera e ci fa respirare l’alito di una scena, di un fatto. Poi via, passa ad altro, su e giù fra le colline dolci.

 

E’ una metafora perfetta, questo trenino. Descrive così bene il viaggio della nostra immaginazione, i nostri percorsi, fra le parole e gli stupori, fra le immagini e i tremori di un racconto…

 

Entriamo in un tunnel a 4 dimensioni.

Dopo pochi istanti in una giungla, il trenino si scuote e sobbalza. Arriva a passi pesanti un tirannosauro, addenta l’ultimo vagone, lo strappa agli altri, lo getta via via in un fragore assordante di urla e ruggiti; fra le grida terrorizzate di tutti noi. Le gocce di saliva del tirannosauro ci sbavano sulla faccia. Lui si volta verso il nostro vagone, siamo il suo prossimo bersaglio… Nuovi colpi, nuovi ruggiti lontani e tonfi che rimbombano nel nostro ventre. E’ Gozzilla che arriva, in soccorso. Evviva!

 

Usciamo fuori dal tunnel, di nuovo alla luce del sole e lontani dai dinosauri, ce ne stiamo per qualche minuto tutti un po’ affannati e sghignazzanti, frastornati e divertiti.

 

Certo, è stata un’emozione. Però… non abbiamo fatto niente. Non abbiamo mosso un muscolo del cervello. Ci siamo spaventati e eccitati, emozionati e sollevati in un flusso continuo e facile di percezioni. Era tutto vero. Era lì davanti a noi, a portata di tutti i sensi. Nessun salto, ostacolo, nessun percorso lungo e accidentato o scivoloso e facile di lettura, di visione, di ascolto, di quel che sia. Niente scoperta, nessun incanto. Solo fruizione totale e immediata, comoda. Come farsi trasportare da un nastro invece di camminare…

Chissà se davvero prenderà piede questa nuova forma, penso. Chissà se sarà il brillante futuro dell’intrattenimento, questo nastro trasportatore della fantasia.

 

Poi continuiamo a scorrere, sul trenino degli Studios e il nastro trasportatore, e sorridenti avanziamo verso un nuovo tunnel, che dalla piramide egizia ci porta al centro della terra…

 

Ne scendiamo con le gambe allegre e la mente malferma, aperta allo stupore e non ancora richiusa. Ci aspettiamo un refolo di sorprese che debba alzarsi all’improvviso, da un angolo qualsiasi degli Universals, per prendere controvento le emozioni e sollevarle qua e là, di nuovo leggere e imprevedibili. E così è, subito dopo e di continuo.

 

Come non stupefarsi allo spettacolo degli stuntman? Quegli uomini e quelle donne hanno fatto del corpo un attrezzo immortale. Chissà su quale piano vivono… Come usano le dimensioni loro, che si lanciano, cadono, prendono colpi e passano fra le fiamme. Quanti piani devono esistere, nella realtà, se alcuni possono muoversi sugli oggetti e fra le dimensioni in un modo che a nessun altro è concesso… non deve essere un semplice allenamento. Non è solo questione di fatica e sudore e forza nei muscoli o agilità. Ma piuttosto sentirsi liberi nell’aria e nei movimenti. Vedere lo spazio e il corpo in una prospettiva di gioco e potere, dove tutto è concesso e niente fa male. “Ferirsi non è possibile, morire meno che mai…” cantava quello del ragazzo a piedi nudi sui vetri. E infatti tutti i giocolieri, i saltimbanchi, i domatori, i trapezisti, tutti gli artisti del circo e quelli che fanno le controfigure nei film pericolosi. Tutti sono accomunati da questa dimensione diversa in cui si sentono di vivere, e in cui loro non si feriscono e non muoiono. Quasi mai.

 

Di colpo penso alla mia, di dimensione. Molto spigolosa, accidentata, semovente e un po’ viscida. Penso al mio muovermi cauta, temendo sempre il peggio… Il mondo non un giocattolo su cui saltare a piacimento ma un canyon di pericoli da attraversare cauti, camminando su un filo sospeso.

Questo pensiero raccoglie la pena, la distilla, la spreme in gocce che vorrebbero uscire dagli occhi.

Mentre guardo gli attori che si inchinano sorrido. Finalmente ho voglia di piangere.

 

 

California, torno a casa

 

L’automobile scorre attraverso la leggerezza delle ruote, la sospensione del paesaggio oltre i finestrini: i grandi spazi secchi e luminosi della costa della California. Scorrono più veloci del vento, oltre il vetro, da un lato all’altro dell’orizzonte senza sosta, senza affanno.

Il paesaggio rimbalza immagini tutto intorno e noi giudichiamo, scegliamo, decidiamo…

 

“No, qui non mi va; andiamo più avanti.”

 

E avanti andiamo, con la radio accesa. Come paesaggio che scorre sugli occhi, la musica scorre sulle lande libere della mente. Che guarda e guarda, giudica, sceglie, e sta in pace.

Tutti entrano nel gioco. Guardano e scherzano, si imbattono in bellezza da trattenere, da voler agguantare e allora gridano:

 

“Qui, qui, dai ci fermiamo qui?!”

 

Oppure si distraggono nella culla del motore, dei giochi elettronici o della guida turistica, e mettono in folle i pensieri.

 

Ci lasciamo sorprendere.

 

Santa Barbara, letta sulla guida, ci evocava una cittadina di mare simile a quelle italiane. Il posto di villeggiatura della città vicina. Baie e spiagge, palme, pontili. Un posto di mare con gente sciolta e vestita di chiaro. Il passeggio fra le strade che hanno un che di messicano, bianche e un po’ squadrate. Folle al mare, barche stipate nei porticcioli, struscio serale sulle vie principali.

Santa Barbara, dal vero, risulta come lo scherzo di uno specchio deformante. Perché è tale e quale a come l’avevano formato i pixel del cervello. Stessi colori e geometrie e atmosfere. Ma slargato, spostato qua e là, spalmato nello spazio, rarefatto nelle presenze e nei suoni.

 

Dopo tanti mesi negli Stati Uniti ancora stupisce, questo lusso dello spazio. Questo permettersi di piantare case che non sfiorano nemmeno le prospettive, strade che si spanciano fra prati larghi, spiagge che fanno fuggire l’occhio su un punto irraggiungibile. E barche ampie, distanti, in file serene. Il vento che sembra adeguarsi allo stile e si precipita fra le ampiezze, irrefrenabile, solleva granelli, piega cime, scuote gomene.

Il mare è ampio e sorridente, in bonaccia quando ci arriviamo noi. Le onde di un blu profondo sciamano verso riva una dietro l’altra, spruzzate di macchie chiare di gabbiani. Eppure, a frugare con gli occhi verso il largo, anche il mare si spalanca in una prospettiva senza freni.

 

Gli americani non dicono mare, dicono Oceano…

 

Lì dove nel Mediterraneo si sa che esisterebbe una fine, un contenitore invisibile ma non tanto lontano, qui, chissà se è per via di una la luce diversa, una sfumatura di colore in più, o per la consapevolezza geografica, fatto sta che nell’orizzonte si percepisce un senso nuovo di perdita e di sconosciuto.

 

Più grandi di quelle mediterranee sono di sicuro le dune di sabbia del parco di dune di sabbia, poche miglia più a nord.

Sono vaste un orizzonte e scacciano oltre la vista tutte le altre formazioni terrestri, le altre vegetazioni, le costruzioni umane. Solo una passerella di legno dipinta di bianco, per camminare nel mezzo fra le dune e gli stagni, è memore dell’uomo. Di un’opera, di un movimento. Tutto è silenzioso e fermo. Brulica di una vita da stagno: intensa vita a filo d’acqua, schiumante di uova, voli rasi di uccelli, brezza fra le canne e riflessi gialli. Ma silenziosa, schiacciata sulla terra dal cielo bianco e basso che copre le dune come la porta di un forziere. Niente deve fuggire. Niente deve cambiare. Tutto fermo in silenziosa attesa sembra essere, questo mondo, dalla notte dei tempi.

 

Oltre a noi solo qualche altro visitatore si muove. Un paio di famiglie messicane piene di radioline e panchetti, sacchi e stuoie. Stranamente silenziose anche loro. Vanno al mare, vanno in spiaggia, conciati come ci andremmo noi, se fossimo in Italia. Asciugamani buttati sulle spalle, secchielli, infradito e magliette. Li guardo e rabbrividisco un po’, sotto il mio strato di maglie, felpa e giaccone pile. Tira un vento teso, umido e freddo, e le famigliole messicane mi sembrano alieni scesi per errore sulla landa sbagliata.

“Astronave madre, non è che avete sbagliato i calcoli? Qui fa un freddo cane…”

“Affermativo, squadra d’esplorazione, c’è stato un errore. Ma la missione non è annullata. Ripeto, la missione non è annullata: fate finta di niente e andate avanti.”

Quando arriviamo in spiaggia, li osservo sistemare le sedie intorno al cibo e alle radioline e accendersi di rumore, tutto insieme. I grandi che ridono e scherzano, i bambini che gridano mentre si tuffano nell’acqua color ghiaccio e sicuramente altrettanto fredda.

Chissà dove hanno nascosto l’astronave…

Noi ci sistemiamo fermi, nelle buche scavate contro il vento. Sotto il cielo bianco e forte, sotto i pellicani e i gabbiani che scivolano su correnti basse, poco sopra le nostre teste.

Io sto nella mia buca e accanto mi scorrono le immagini delle dune, degli uccelli, del silenzio. Scorre il gioco del mio bimbo che fa canali e costruzioni con legnetti  grandi e piccoli portati a riva dal mare. Scorrono le famiglie messicane che sfidano il vento e il freddo e mangiano attorno al tavolino da campo.

Qui, nella buca di sabbia riparata dal vento, fra i legnetti e i gabbiani, e il cielo bianco, per un momento non c’è più una strada da percorrere, né sul filo né senza. Ma questo posarsi a terra, dolcemente.

 

Poter stare sempre così. Lasciare il viaggio senza rimpianti. Fermarsi e vivere.Tutti i giorni, senza aguzzare la mente sul futuro. Senza reticoli che ti invischiano nel passato. La vita, un gioco di spostamento fra una percezione e l’altra, fra un incontro e l’altro. Via l’uno e avanti l’altro, senza porsi e senza rammaricarsi. La paura un disturbo lieve e passeggero come uno starnuto, che subito arriva e subito si scorda…

 

Come i rivoli d’acqua che scorrono nei canali tracciati dalle dita di un bimbo sulla sabbia: sposti un granello, metti un legnetto di traverso e i pensieri trovano un letto nuovo, ci si immettono da soli.

Allora, adesso che siamo sulla statale numero uno, fra i sobbalzi del paesaggio del Big Sur, sento che l’acqua pensierosa fluisce da un’altra parte, sta finendo in un posto sconosciuto.

 

La strada si snoda lungo il parco stretto, compatto fra le montagne da un lato e l’oceano dall’altro. Una striscia di asfalto tutta curve, tutta sali e scendi. Abissi, calette inaccessibili in fondo agli strapiombi da un lato, e boschi sopra alle rocce a picco dall’altro. E subito dopo una discesa seguita un tratto piano, con prati a bordo mare e mucche al pascolo. Poi di nuovo la salita, e le rocce impervie, una cascata d’acqua sulla spiaggia. E tratti di sole e di caldo, giù i finestrini, ecco gli occhiali scuri, gli occhi che si rallegrano sui paesaggi luminosi. E subito dopo tratti di nebbia, buio e freddo, riecco gli occhiali da vista, “chiudete non sentite che freddo?!” E intorno uno spettro di luce fioca che a malapena ti indica la strada.

 

La nostra macchina si incurva, sola, lungo le scivolate di salite e discese a tornanti, fra gli odori pieni di natura e le bave d’umido sul tramonto.

Guardo e inspiro, guido e manovro. Mentre delicatamente una sensazione dimenticata torna goccia a goccia nella mia mente. Una vibrazione leggera di appartenenza: un diritto a esserci, a vedere. Momento per momento…

 

Questi luoghi sono stati il viaggio di tanti. Menestrelli, scrittori, Viandanti. Passati di qui, trasportati, persi, tutti attraversati da queste luci e da questi soffi di mare.  Ognuno col suo viaggio, diceva quello. E molto diverso. Sono decenni che si affollano i viaggi delle persone, in questo angolo di coste scoscese di mondo. E tante pagine, tante note, hanno raccolto quei viaggi e li hanno rimandati in giro come gli specchi scintillanti di diamanti sfaccettati. Pezzi di viaggio proiettati per i continenti.

Da ragazzina ci perdevo i sogni su questi paesaggi mitici e sui viaggi che li attraversavano. Sulle musiche e le parole che riflettevano miriadi di immagini sfaccettate. Da così lontano, fino a me.

Viaggiare. Perdersi. Trovarsi. Poter sentire quello che si sente, e basta. Senza sapere di prima e di dopo. Essendo tutti se stessi, con le mani del proprio essere nelle tasche del proprio destino. Bastanti al proprio scopo, che è di non avere scopo. I capelli sciolti e sporchi di vita. La pelle bruciata dell’odore intenso dell’incerto e del cambiamento. Quanti venti soffiavano su quelle facce. Quante giacche sbattevano sulle traiettorie libere delle moto che si piegavano per questi tornanti.

Adesso ci sono io, su queste scogliere.

Siamo scesi dall’auto e ora osservo il mare.

Coi miei capelli corti e la mia faccia pulita. Le braccia strette intorno a una giacca a vento contro tutte le intemperie e gli imprevisti. Eppure il posto è quello giusto. Sono giusti i salti della mente che, come una capra, scorrazza su e giù fra le scogliere a cercare gli angoli dove brucare fantasie buone. La lascio andare, libera.

Siamo di nuovo con i nostri amici di un anno fa. Quelli con cui avevamo condiviso angoli di Maine. Quest’anno loro venivano dal nord della California e proseguiranno verso sud, il contrario del nostro tragitto. Ci siamo allacciati brevemente a metà, risaliremo insieme un tratto breve per poi proseguire ognuno nella sua direzione.

Scendiamo tutti insieme in una caletta battuta dal vento. Gli scogli davanti a noi sono lavorati dalle maree in anfratti e archi, grotte in mezzo all’acqua.

“Che spettacolo…”

Dico in un soffio.

“Anche noi, guardaci!”

 

Ride l’amico indicandoci, tutti imbacuccati nelle giacche a vento incastrate sopra i maglioni, i foulard legati sui cappellini da sole sotto i cappucci delle felpe.

“Magari po’ meno maestoso…”

Qualcuno propone di andare a vedere dove finisce la spiaggia.

Io non riesco a staccare gli occhi dall’arco perfetto di roccia sulle onde.

“Vi raggiungo, voglio fare una foto…”

“Stai attenta, con questo vento…”

E l’amico si allontana con gli altri, abbassando la visiera sugli occhi.

Ha ragione, è un po’ assurdo voler tirare fuori la macchina fotografica adesso. Ma come posso lasciar andare questo paesaggio irripetibile? Tiro fuori la macchina fotografica dallo zaino e scelgo l’inquadratura, mentre il vento mulinella la sabbia in aria facendola infilare negli anfratti invisibili dei vestiti, delle labbra, delle ciglia e fra le dita che cercano in qualche disperato modo di riparare l’apparecchio, che non ce la fa e si rompe.

Rimango ferma, a guardare il sole che si è messo d’accordo con gli scogli per calargli esattamente dietro, in una gloria di raggi gialli e malinconici, la possanza delle onde che pare smorzarsi insieme alla luce.

Quanto vorrei fermare questo momento…

Ancora inebetita di dispiacere mi muovo, mi avvio a raggiungere gli altri, che mi hanno già staccato di un pezzo e camminano curvi contro il vento, verso il punto in cui la parete di roccia si sbriciola nel mare.

Io cammino e rifletto sul dolore della foto persa. Sul mio bisogno di portarmi a casa quell’immagine. Come tutti i momenti che ho fotografato in passato: gite e incontri, paesaggi, primi passi, una strada. Devo conservarne un oggetto fisico, una particella di esistenza, con l’illusione di ricrearli, conservarli per sempre, moltiplicare all’infinito le possibilità di replay…

E non solo foto. Le vecchie cartoline, i biglietti di auguri, i vestitini smessi dei bambini e i giocattoli ciucciati nella prima infanzia. Ogni oggetto un pezzo magico che contiene in sé tutta la bellezza, gli odori, i sapori, il pulsare specifico di quel periodo di vita. E conservarlo, tenerlo gelosamente al riparo dal procedere ineluttabile del tempo e dal macinio continuo della memoria che fa strage dei ricordi per far posto a nuove percezioni mi dà l’illusione di poter prima o poi rievocare un’epoca, riportarla alla luce da piccoli brandelli di memoria e qualche oggettino residuato. Come un Jurassic Park casalingo, dalla tutina sporca di latte cagliato dei tempi andati dovrebbero rimaterializzarsi l’odore tenero e carnoso del bimbo, e il caldo della stanza, il suono del carrillon e i gorgheggi che tentano l’aria, i colori tenui delle pareti, quella stretta dell’aria intorno a me che creava uno spazio unico, sacro e luminoso, in cui mi muovevo con il mio neonato.

Mi fermo.

Che c’entra tutto questo con Kerouac e il Big Sur, con la libertà vuota e sfrenata dei capelloni, con gli sballi, la ribellione e il non fregarsene un cazzo di niente che la mia fantasia ha celebrato così a lungo?

Desidero il mondo, ma non so che conservare brandelli di tempi morti…

Lascio la presa delle mani sul cappuccio, lascio che il vento e la sabbia mi entrino fra i capelli e guardo le onde dorarsi di luce sempre più bassa.

Se non ora, nella costa ovest dell’America. Così lontani, così persi e al centro dei sogni… se non ora quando?

Aprire le porte del possesso: le foto a migliaia, i libri, i vecchi fumetti, le statuine di pongo, i regali degli amici… via in groppa alla sella di una moto, lasciandoli volare all’indietro a manciate, guardandoli dissolvere a mezz’aria.

Il sole è per un tratto nel mare, adesso. E i raggi lo incoronano da sopra, si tuffano e corrono sull’acqua in iridescenze abbaglianti. Brillano a tratti scomposti sulle onde, arrivano a riva. Il loro sbrilluccichio semovente è come una frase ripetuta, è il messaggio che la natura stessa esala in ogni momento e che finalmente mi penetra in testa: il tempo è tempo, passa. Non esiste di per sé. Non lo possiamo vivere, percorrere, aggrapparci per frenarlo, o spingerlo per accelerarlo. O ricrearlo con gli oggetti magici. Ogni particella che si sposta nell’universo e migra da una condizione a un’altra. Ogni spostamento infinitesimale porta le cose e le persone da un momento all’altro della loro esistenza. E io vorrei fermare questo processo…

Aprire le porte e lasciarlo andare… come gli oggetti rotti e quelli scomparsi. Come le persone morte, come le esperienze passate.

Una visione di leggerezza. In un capogiro abbraccio la percezione di un’esistenza di vero abbandono, di vera impalpabile e incrollabile fiducia che tutto vada avanti e vada avanti così come deve essere.

Guardo il sole ormai quasi sparito fra la caligine rossastra lontana sopra l’oceano.

“Aspettatemi!”

Grido al mio gruppo, ormai lontano, ma il mio grido se lo porta il vento.

Allora mi metto a correre per raggiungerli, e mentre corro nel crepuscolo rido, per aver provato tutti questi anni ad inceppare, nella mia cantina piena di cianfrusaglie, il meccanismo di funzionamento dell’universo.

 

Poche ore e miglia dopo siamo sulla lunga spiaggia di Carmel. La sabbia è fredda e umida. La nebbia si dirada solo a momenti e il mare si intravede appena, poi sparisce. Le case oltre la spiaggia anche, vanno e vengono fra le bave bianche. Potrebbe sembrare un sogno. Potrebbe essere il più lontano dei mondi possibili. Eppure è qui che mi scappa un momento di stasi e di giudizio. I pensieri escono dal viaggio e si fermano a braccia conserte, con la bocca storta e la testa piegata di lato.

 

Guardano le case ognuna diversa dall’altra, in un alternarsi di piccole variazioni di stile: un po’ più baita, un po’ più mediterranea, un po’ più Old England, un po’ più Far West… ma tutto sobrio e elegante, con grandi vetrate che mostrano interni ricchi di invenzione, comodità, piacere di stare bene al mondo e di starci con un personalissimo, intelligente, senso di sé.

Mi ritrovo in una situazione simile a quella del Maine, con gli amici che si esaltano di cotanta privilegiata eleganza, e io che guardo la nebbia pesante e umida che grava su tutto, che cancella quasi la vista del mare e della spiaggia. Bellissima, lunga all’infinito, va bene. Ma se non si vede quasi? E anche tutto questo aggraziato benessere. Queste costruzioni perfette in uno dei luoghi più cari degli Stati Uniti… questa voglia di stare tutti insieme, noi gente colta, ricca e di buon gusto… Come si fa a desiderare di non vedere che i propri simili? Essere disposti a passare le ferie in un clima disgraziato in qualsiasi momento dell’anno pur di far parte di questa comunità, appartenere, esserci…

“Ma che c’è? Cos’è che non ti va?”

C’è che è troppo, il salto.

Dalle scogliere libere e ventose dove i viaggiatori di tutti i tempi continuano a scivolare lungo i loro percorsi, spinti dall’incapacità di provare soddisfazione per l’ordine costituito delle cose, a questa spiaggia, dove c’è a chi gli piace talmente tanto il buco di mondo in cui si trova da averci scavato con la pala, e essercisi infilato dentro fino al mento…

Lasciamo la spiaggia affondando i piedi nella sabbia che scricchiola ricchezza umidiccia.

Ci sarà un altro percorso che può fare questo povero abitatore della vita? Mi chiedo io, intanto. Esiste un modo di essere più equilibrato, fra libertà e scelte, fra gioco e stasi?

La risposta mi arriva poco dopo, declinata su un tipo umano particolare, che qui in America va per la maggiore.

Perché qui, più che negli altri paesi che mi è capitato di vedere, ci sono persone che vagano per il mondo con quella stessa leggerezza con la quale gli stuntman fanno le capriole fra le dimensioni dello spazio.

Queste persone hanno la spavalderia di appartenere, sempre e comunque, a buon titolo, al posto dove stanno. Non è questione, per questi soggetti, di sentirsi vivi e connessi solo in alcuni luoghi. Il mondo è il loro grande giocattolo, il luogo pericoloso e affascinante su cui vanno a porsi, lì dove gli fa comodo e piacere, a cercare nuove strade e modi di vivere più confacenti

“Salite, salite, e tu, piccolino, appena usciamo dal porto ti faccio guidare.”

Il pescatore Giovanni ha lasciato la Sicilia da ragazzo. È minuto, scuro e forte, con la solita pelle intagliata dal sole e dal vento che hanno tutti i pescatori, in ogni parte del mondo. È sicuro e calmo. Mentre noi, col mio bambino alla guida del peschereccio dentro l’enorme baia di Monterey, non ci sentiamo tanto a nostro agio. Ci stringiamo agli appigli che troviamo e cerchiamo di ignorare le onde lunghe dell’Oceano. Intanto Giovanni ci spiega le abitudini del mare, da queste parti. Della bonaccia nella baia che basta che metti il naso appena appena fuori dalla punta finisce di colpo, le onde si alzano, il vento spazza tutto, ti si blocca il respiro dal freddo e le mani fanno un male cane dal dover lavorare mezze congelate. E se pensa a com’era pescare in Sicilia, a Giovanni gli si allarga il sorriso e le rughe si spostano docili agli angoli della faccia. Gli occhi si stringono sui ricordi.

“Eh… c’era sempre il sole forte, c’era sempre il caldo, che anche all’alba si pescava in maglietta, e cantando, fischiando. Non come qui, che si batte i denti e non si vede l’ora di tornare a casa!”

Però Giovanni non ci ha pensato due volte, a lasciare il mare tiepido in cui cantava da ragazzo. È saltato su uno di questi movimenti del cosmo che trascinano alcuni individui da una parte all’altra del pianeta. Niente a che vedere con biglietti e traghetti, o aerei o navi. Roba di energie toste, sommovimenti grandi di volontà e opportunità e inserimento in correnti invisibili.

Allora Giovanni ha lavorato sodo e si è comprato una barca qui in California e una in Alaska, dove va una volta l’anno a pescare i salmoni.

 

“Mi basta una volta l’anno, e mi metto a posto. Poi pesco anche a Monterey, ma senza affanno, perché in due mesi d’Alaska metto via abbastanza da non stare in pensiero.”

 

E allora si può permettere di stare fermo a riparare la barca a lungo, un mese intero. Piano piano, la pulisce, la rivernicia, la scrosta e la liscia qua e là. Ce la mostra tutto fiero. Era una barca da guerra, la usavano in Vietnam. Però aveva una buona chiglia, tanto spazio e una buona tenuta. Allora lui gli ha fatto levare le armi e mettere le reti, e da tanti anni ci gira per il mare.

 

E si può permettere di fannulleggiare mezzo pomeriggio con questo gruppo di italiani in gita, che l’anno beccato per caso in un parcheggio, di raccontare gli episodi della sua vita, di mostrargli la baia.

 

Il mio piccolo guida il peschereccio con piglio fiero e vigile sotto la supervisione di Giovanni, che sorride o forse stringe gli occhi contro il riverbero del sole, non saprei dire. Ma parla pacato e spiega, indica, fissa il mare. Ci fa arrivare, con la delicatezza del grande scafo mandato al minimo, vicini alle lontre. Piccole, lunghe e snelle. Dormono avviluppate intorno alle alghe enormi, che salgono per quaranta metri dal fondo del mare per venire ad abbracciare la pelliccia folta e morbida di queste bestiuole. Fanno impressione, così immobili nell’acqua gelida. Ma ovviamente non hanno freddo, loro, con il grasso e il pelo e le sostanze che secernono apposta per potersene stare lì, avvolte fra spirali di alghe dai tentacoli frastagliati e lunghissimi. Hanno gli occhi chiusi teneramente, le lontre, e abbracciano un piccolo. Quasi tutte. Se lo tengono stretto perché le alghe non bastano a non farlo trascinare via dalle forti correnti dell’oceano.

Lasciamo Giovanni nella baia ventosa e poco dopo lasciamo gli amici, sui tornanti della Route 1. Li guardo allontanarsi verso la macchina e per un momento vedo i metri, le decine, le migliaia e presto centinaia di chilometri che loro cominciano a mettere fra di noi, con quei primi passi. Li immagino finire la vacanza, e rientrare in quel luogo lontano dove stanno gli altri nostri amici, e i conoscenti, la famiglia. Li vedo ricongiungersi con quello che ho lasciato indietro. Li guardo voltarsi un’altra volta,

“Vi chiamiamo da Firenze!”

li saluto. E scaccio le immagini del loro rientro, le sostituisco con un’illusione che schiaccia le distanze, forza il tempo e lo sbriciola nell’immagine degli amici che salutano e che rimangono così, per sempre vicini.

Salgo in macchina, infilo gli occhiali da sole per quelle quattro curve di costa che sono baciate di luce e mi metto a cantare una vecchia hit di una cantante canadese. Lei viaggiava tanto, dice, e in posti tanto fighi. Ma quando andava in California tornava a casa.

 

 

La mammella di pietra

 

Ci passa intorno un paesaggio sempre più assolato, sempre più brullo, mentre ci spostiamo verso l’interno. Su e giù fra colline dolci, pendii infiniti con appezzamenti infiniti di vigne, di mandorli, di mais tagliato, di campi incolti dove mucche grandi, sbiadite nella lontananza, brucano erbette gialle. Non c’è niente di intensivo, da queste parti, figuriamoci allevare animali. Infatti il latte è buono, è buono il burro, come è buona la frutta che vendono in certe baracche a ridosso di enormi magazzini.

I paesini hanno un’essenzialità piena di polvere e bisogno. Le case sono dedite alle funzioni minime, miserelle, rattoppate con materiale andante. Tante, quasi tutte, sono grosse scatole monopezzo.

Ne vediamo una che viaggia per strada.

“Ehi, guardate, quel trattore tira una casa! Mamma, guarda, una casa! Ma perché la portano in giro?”

“L’hanno fabbricata da qualche parte, l’hanno venduta a qualcuno e ora gliela portano.”

E poco dopo inizia tutta una zona di casette prefabbricate. Hanno un solo piano, un piccolo terreno, intorno, con un recinto di rete di metallo e un’altalena sbilenca che pende da un ramo. E la bandiera degli Stati Uniti appesa ad un pennone alto e dipinto di bianco.

Alcune di queste scatolone sono chiese, e hanno pratini mal rasati, mal irrigati, e insegne al neon che promettono preghiere, canti, l’amore di Dio. L’orario delle funzioni in bella mostra lungo la strada tale e quale fosse il tabellone di un teatro di provincia. Altre sono ristoranti con parcheggi spianati dall’asfalto, insegne al neon con nomi di piatti e di persone (Tom’s steak, Gigi’s pizza, Old ma’s pie) e un odore bisunto tutto intorno.

Non ce la fanno, rifletto. Gli americani, anche se poveri, devono allontanarsi gli uni dagli altri. Avere le proprie cose, il proprio movimento, la propria indipendenza dai rumori e dalla vista degli altri. Non importa se stai in una baracca ma importa se hai spazio intorno. Se è tuo, se ci fai quello che vuoi.

A me non dispiaceva stare nel condominio. Mi rassicurava, mi faceva sentire a casa. Una grande famiglia, sopra, sotto e accanto, che condivide riti simili: dentro e fuori per la scuola, il lavoro, le malattie, i lutti… Una famiglia con i caratteri simpatici e scorbutici, invisibili, discreti, rumorosi e via dicendo.

Mi piaceva, nelle notti di solitudine mentale, sentire una televisione accesa. O nei pomeriggi di calura a finestre aperte il pianoforte dei bambini del piano di sopra. Mi piaceva sentirmi nel mezzo di una specie di organismo che respirava, e soffriva e si rallegrava insieme con me del tempo e delle stagioni, dei fatti comuni.

Avevo amato anche la vita in campagna. Gli spazi eroici e liberi, il contatto forte con quello che nutre e con quello che ammazza. Pere e vipere, borri e prati verdi. Ci sono vissuta anche da sola, a periodi. In un isolamento che osservava ogni suono nella notte, ogni cambiamento di luce nel giorno. Tanto tempo e tanta concentrazione, intorno.

Le giornate vibravano di un respiro estremo, grondante di odori e puro. Erano immerse in una forza cristallina che purificava tutto, anche la paura e la solitudine. Senza emissioni, senza le onde a intrecciarsi fuori dalle antenne, dai ripetitori, dagli apparecchi medici, dai telefonini a milioni. Niente pubblicità, niente segnali stradali, richiami di marche, segnali di status. In questa pulizia semantica, in questa assenza di campi elettromagnetici lo spirito si fa più libero e leggero. Può, al limite, anche godere dell’isolamento.

Ma in città, con l’animo sempre ingombro di rumori e segni, le pretese di tutto su tutti e di tutti su tutto, le aspettative, le notizie… come si fa a non cercare gli altri? A non tentare di mettersi in falange contro gli sgomenti della vita?

Lo spazio, ancora. Sempre prima e all’origine di tutto. Qui si è venuti per secoli in fuga, cercando di liberarsi dagli altri, dalle imposizioni di una cultura, di una politica, di una religione ostile, o semplicemente della miseria.

Mentre da noi, dalla notte dei tempi, si fa necessità virtù dell’ammasso di corpi e pensieri, tutti stretti l’uno all’altro, cercando di tollerarsi, di litigare il meno possibile e a volte senza riuscirci, ma insomma, siamo stretti e lunghi, noi italiani, mica possiamo allontanarci troppo. Uno sull’altro a litigare, fare amicizia, conoscere e sgomitare, dobbiamo stare.

Qui nella California dell’interno, le scatole di case col terreno bruciato intorno si susseguono a distanza di sicurezza l’una dall’altra, create, pur con pochi soldi, per evitare il più possibile ogni contatto. E appena il piccolo centro abitato volge al termine si slargano, si rarefanno e lasciano il posto allo spazio vuoto.

Che si puntella di oggetti sperduti.

Un negozio, un benzinaio, una fattoria.

E di rottami.

La carcassa di un pick up nel cortile di una casa, un negozio coi vetri sfondati in mezzo al niente, un mulino a vento tipico del West, con le piccole pale sopra la torre tozza di legno. Una pompa di benzina rosicchiata dal vento.

Non riusciamo a resistere, dobbiamo scendere a osservarli come fossero monumenti imperdibili, questi residuati di chissà che.

“Sembra di stare in un film…”

Lo dice il marito, questa volta. Mentre il vento si porta le sue parole e gli scompone i capelli. E io immagino il film nel quale si sente. Un film di grandi spazi e di oggetti isolati, un film come se ne vedono a migliaia e che sono ammantati di un che di epico. Le loro immagini raccontano qualcosa di temibile e grandioso. Rendono conto di questa durezza di vivere così, senza un coro di commento, senza stare gomito a gomito con le impressioni degli altri.

La pala del mulino a vento cigola nel silenzio e ti fa sentire speciale e forte, come l’eroe di un film on the road, perché sei solo, a osservarla. Le auto scorrono, rare, sulla strada vicina, e non rilasciano impressioni.

Risaliamo in auto e a me, a questo punto, con la civiltà, la sicurezza, la compagnia degli esseri umani ormai alle spalle, viene la voglia di sentirci ancora più liberi e spersi. Del tutto staccati, vigorosi e eroici. Vorrei restare a camminare nel vento, o galoppare a cavallo, finire la giornata sotto le stelle… Chissà come dev’essere buia e perfetta la notte, da queste parti.

Ma riprendono le costruzioni e l’incantesimo finisce. Qua e là, perse nella distanza, vediamo le fattorie quadrate, di assi di legno, enormi. Senza finestre, con un’unica  grande apertura centrale e i tetti ampi, piegati due volte all’in giù. Sono le stesse fattorie che ci sono dalle nostre parti, nel Maryland. Queste, però, hanno vernici scrostate, recinzioni pencolanti, strade in terra battuta polverose e sconnesse.

Noi siamo stanchi e affamati, più che cavalcare fino a notte vorrei trovare un posto dove mangiare e dormire, adesso. Sogno una doccia e distendermi senza più macinare strada.

Invece, continuiamo a mangiare un’infinità di chilometri su strade dove i villaggi si susseguono polverosi, rettilinei e abbacinanti, pieni di motel e di hotel già pieni. E di case e fattorie poverelle, che di affittare una stanza agli stranieri non ci hanno mai pensato nei secoli.

Rifletto sulla differenza fra qualsiasi europeo affamato di affari e l’ineffabile, superiore rassegnazione delle zone agricole americane al proprio destino. L’America, la terra delle opportunità. Vero. Ma per chi?

Ci avviciniamo all’attrazione nazionale, al grande parco del Yosemite, e le grandi catene del turismo hanno già fatto il tutto esaurito. Leggiamo i soliti nomi che, in tutti gli Stati Uniti, distinguono gli alloggi secondo lo stile. Il motel della catena cheap, quello della catena decent, quello della catena lusso… tutti stracolmi. E a noi che arriviamo dopo altre due macchine il cui padre di famiglia scende frettoloso, fa un salto nella reception, esce scuotendo la testa sconsolato, non resta nemmeno la speranza. Del resto, lo dicevano già dall’insegna luminosa sulla strada, che non c’era posto… ma la stanchezza fa fare cose stupide e anche il nostro, di padre di famiglia, scende e saltella nella reception, pigola frasi senza speranza, esce scuotendo la testa.

Noi abitanti del Mediterraneo ci siamo abituati allo scambio spicciolo, a quel mercanteggiare diffuso che non ci fa perdere un’occasione, lì dove può tintinnare il denaro. Non c’è bisogno di essere grandi commercianti o investire grossi capitali: se uno ha bisogno di una cosa che io ho, gliela faccio usare, e mi faccio pagare. Noi genitori abbiamo dormito in Grecia sopra i tetti, in Spagna in un corridoio, in Turchia in una rimessa e mangiato in Siria nella tenda di un beduino, in Libano sotto la tettoia di un pescatore…

Qui negli Stati Uniti è meglio organizzato. Tutta una storia di strategie e grandi cifre, pianificazione, managing di alto livello. Ci si imposta, si studia il terreno, si pagano licenze, si fanno studi di mercato. Questi, magari, non proprio efficaci, perché noi e altre centinaia di turisti non troviamo posto per dormire, dalle parti del Yosemite, e questo vuol dire che qualcuno ha sbagliato i suoi calcoli.

Mi verrebbe da litigarci, ora che ho così sonno e così fame. Vorrei dirgliene quattro, a quei saputelli di direttori pianificazione marketing che hanno previsto poche camere. Scendo anche io, adesso, insieme al marito. Col risultato che adesso siamo in due, a tornare a testa bassa in auto.

Però, a forza di pigolare, salta fuori un appartamentino vuoto.

“Non lo proponiamo perché non è messo molto bene, avrebbe bisogno di un restauro…”

Noto con piacere che a me e a mio marito la voce esce all’unisono per dire.

“Ma non importa, assolutamente, per noi va bene così!”

Avrà pure servito qualcosa aver dormito nei vari anfratti scomodi del mediterraneo… in quanto ad adattabilità ci battono in pochi.

Con i ragazzi ci fiondiamo nel piccolo appartamento bisognoso di restauro, esplodiamo i bagagli fra grida di giubilo e ne facciamo la nostra cuccia per quattro giorni.

Nemmeno troppo lontano, l’appartamentino mal messo. Ci vuole un’oretta soltanto di viaggio, tutte le mattine, per arrivare al parco. Che, per le distanze di qui, è una vera sciocchezza.

Si percorre la valle già meravigliosa, si arriva a pagare l’ingresso al casottino di legno del ranger, che sorride, grigioverde, affacciato alla piccola finestra, e subito si è in una nuova, selvaggia, dimensione enorme.

In questo mondo che si apre su curve, dietro dirupi, in fondo a cime e in cima a valli profonde. Tante e tante prospettive, continue, su e giù di monti martoriati da catastrofi preistoriche. Lave e terremoti, faglie, squarci, erosioni. Una mano violenta ha scagliato qua e là gli elementi, come un pittore esaltato e un po’ schizzato che volesse stupire ad ogni costo con gli abbinamenti drammatici. E ci fosse riuscito.

Le cime sassose dei monti sono state spinte lontane le une dalle altre da forze titaniche che se la sono presa con loro e le hanno sollevate, scavate, hanno amalgamato le loro cime con fuochi lavici, facendone manti omogenei e lisci, poi le hanno aperte a metà, hanno solcato la roccia in canyon ricchi d’acqua sul fondo, e infine le hanno lasciate in pace. Per ere ed ere.

E davanti a tutto questo lavorio della natura anche agli uomini gli è venuto un sacro rispetto. Perfino i bianchi che erano arrivati a farsi proprie le terre, sfruttare le risorse, sbaragliare tutti e tutto quel che stava sul cammino della loro conquista si sono convinti che questa zona della terra era troppo possente per metterci le mani sopra.

“Ragazzi, siamo in uno dei primi parchi, è nato nel 1890…”

Ci sono foreste antiche come le prime civiltà dell’uomo. Leggiamo nella guida. E sui cartelli accanto a singoli alberi, scopriamo che alcuni sono coetanei di Marco Polo o addirittura di Gesù Cristo. Sono enormi, chiari tronchi di sequoie, così grandi che i redwood di trenta metri tutto intorno appaiono fragili e sottili come betulle, al confronto.

“Mamma, prova a toccarla… la corteccia è calda! E morbida!”

Il piccolo ne abbraccia un pezzo, della corteccia morbida e calda. La sua figura è una macchiolina, nella superficie immensa della sequoia. Io ne risalgo con gli occhi il tronco fino a trovare le foglie. Sono appena intuibili, schizzate così lontane dal terreno, sulla cima talmente alta da sembrare piccolissima.

Poi abbasso lo sguardo sulle radici. Sono grandi come tronchi che afferrano la terra e si diramano a decine, dall’immenso tronco chiaro. Penso all’età dell’albero, penso alla minuscola figurina di mio figlio attaccata sopra, penso che queste radici scavano la terra declinando il tempo e la forza in una potenza incomprensibile.

E non sono che alberi. Poi ci sono le rocce.

Dal punto panoramico dove si ritrovano le comitive a spaventarsi dell’altitudine “non ti sporgere, per carità, mi dà le vertigini…”, vediamo le ere geologiche che si rimescolano e giacciono a memoria del passato, della notte dei tempi.

Sulla cima davanti alla nostra, oltre la valletta scura di alberi, i turisti si arrampicano lenti. Piccole formichine pazienti con le gambette minuscole perse sulle pareti e le giacchette colorate che avanzano sulle salite. Sulla roccia che ha tanti strati, ogni migliaia di anni una piccola ruga in più, sulla paziente fronte della montagna. Che c’era e ci sarà in una dimensione di tempo che si inghiotte le formichine tutte quante, e milioni di loro prima e dopo di queste che ci si avventurano sopra.

“Scusi, mi farebbe una foto?”

Prendo la macchina fotografica della simpatica coppia asiatica e scatto il loro ritratto con la montagna alle spalle.

La coppia ringrazia e si allontana, si confonde con le altre decine di turisti che saltellano e si mettono in posa, ridono agli obiettivi di altre macchine fotografiche.

Intanto penso a noi formichine colorate, perse su queste montagne.

Un nulla, la nostra esistenza, un nulla da saltellarci sopra, ridere e fare foto. Perché è così grande che non vale la pena nemmeno provarne terrore.

Prendiamo la macchina e scendiamo ai piedi della cima più alta. Certo, la valle è verde e immensa, larga di abeti e prospettive di monti lontani. Ma a noi lo sguardo scappa all’indietro, verso il cocuzzolo, poco più in alto. Una cima tonda e liscia, dove la lava ha mescolato pietre bianche e pietre nere creando un manto variegato, luminoso e invitante.

“Andiamo sulla vetta!”

Voglio vedere da più alto ancora.

“Ma che fai, ti togli le scarpe?”

“Provate, è bello!”

A piedi nudi, parto.

“Aspettaci!”

Non posso aspettare, non potrei non correre. Devo andare, devo saltellare anche io sopra la rappresentazione del mio niente.

Corro ridendo e bevendomi l’aria, ansimando, a falcate, verso la cima.

E finalmente me ne vado. Con un balzo hop là, via dalla corda tesa allo spasimo sulla quale cammino da mesi, la corda tesa sul canyon dei pericoli e delle paure.

Sulla cima liscia, in cima a tremila metri di paesaggio che corrono sotto, a perdita d’intelletto. Aderisco coi piedi scalzi a questa grande mammella di pietra che allatta il paesaggio e guarda benevola lo scorrazzare dei piccoli uomini lattanti, sopra di lei.

Il vento mi sfiora e si porta i pensieri. Scivolano via dalla dalla punta dei ricordi e si disperdono nell’aria tersa. Volano spanti sull’orizzonte estremo.

Mi fermo a dilatare gli occhi e inghiottire luce.

Sull’alta cima dell’altitudine massima, è arrivata la fine. Il perdono di tutto quello che c’è stato. Il paesaggio accoglie il vento e si prende gli spiriti di tutti i respiri, li spinge e li sfina in rivoli freschi di aria nuova.

 

Fotografia di Francesca Andreini

Fotografia di Francesca Andreini