Gino /33-35

di in: Gino

33.
Giochi

Adesso erano in due, imbacuccati dentro la miseria, al freddo. Passavano le giornate a farsi durare le tessere e le quattro lire dei risparmi, a cercare di scroccare da bere agli amici del bar, a giocare a carte scommettendo sigarette e a gironzolare per strada. A Gino gli veniva male a pensare ai sogni che faceva a Siena, di andare con lo zio fuori a cena e a donne… glieli raccontò anche, quei sogni, mentre passeggiavano sul Lungarno coi lampioni fiochi.

Lo zio rise.

“Eh… magari…”.

Si fermarono a guardare l’Arno argentarsi di ombre e rimasero tutti e due zitti, coi bracci appoggiati alla spalletta, a lasciarsi coprire dal freddo della sera che saliva su dal fiume. Finché Alcide cominciò a tossire per l’umido e fu meglio tornare a casa.

Il giorno che lo zio si vendette l’ultimo gilè, che tornò con la faccia livida per quanto poco gli avevano dato e chissà che cavolo ci avrebbero comprato al mercato nero, a Gino gli scattò una molla nel cervello.

“Io vo a cercare soldi”, disse, e  Alcide sgranò un tanto d’occhi. “Auguri” gli riuscì di replicare mentre tossiva dal ridere.
Gino si mise a camminare per Firenze a cercare un lavoretto, una mancia, un’elemosina. Qualsiasi cosa. Però trovava solo delle facce consumate dalla fame e arrabbiate perché credevano fosse un cliente e invece era un altro pezzente a arrabattarsi in quell’inverno merdoso.

A sera la nebbiolina d’umido se l’era ricoperto da capo a piedi e la stanchezza lo sgomentava; la luna e il Lungarno lo fissavano annoiati, scintillando i fasti perduti sull’acqua, stufi di vederselo camminare su e giù.

Perciò stava avviandosi per un budello di stradicciola buia, che almeno non gli sarebbe toccato di offendere quegli sdegnosi coi suoi passi strascicati.

Nel vicolo dov’era entrato c’era una botteghina coll’uscio socchiuso e, dietro, rumore di sega e odore di trucioli e colla. Un falegname ci dava dentro di braccia, sudato e incurvito dallo sforzo. Gino si intrufolò col naso nell’anta: “disturbo?”.

Il falegname doveva fare delle casse per gente che viaggiava e c’aveva fretta. Gliel’avevano detto così, all’ultimo… gli Aldovrini, li conosceva? Quei nobili con tutti quei palazzi antichi… se n’andavano all’estero, beati loro. Gliel’avevano detto così, dall’oggi al domani… se s’accontentava di poco gli poteva dare una mano, ma senza andarsene finché non finivano.

“Va bene”, disse Gino, e lavorò delle ore. Segando e inchiodando, martellando e piallando e incollando, tutto avvolto di polvere fina e dei gemiti del legno lavorato.

A notte fonda avevano finito. Il falegname gli dette cinque lire e una manata sulla spalla. Poi, prima che Gino potesse prenderlo per il collo e strozzarlo, gli sbatacchiò la porta in faccia e ci dette tre mandate.

Ma Gino era così stanco che non ce l’avrebbe fatta nemmeno a dirgli “maiale”. Si accucciò sul gradino lì dov’era e dormì fino all’alba. Ovvero un paio d’ore. Il falegname gli inciampò addosso, la mattina, e si impaurì; credeva l’avesse aspettato per via della mancia striminzita. Allora “senti, non c’ho una lira da darti”, gli disse. “Però se vuoi vieni con me e mi aiuti a portargli la roba fino al palazzo; ho affittato un carro… è qui vicino. Così ti prendi la mancia”.

A Gino non gli pareva vero. Gli Aldovrini… c’era da guadagnare bene.

In tutto il grande palazzo di pietre grigie lisce e sbalzate, a file ed archi, vetri smerigliati e colonnine a torciglioni, ad accoglierli c’era solo una cameriera in lacrime e una vecchia contessa rinciprignita.

“Sono già partiti tutti, i bagagli li raggiungeranno dopo.”

Alla contessa i capelli grigi gli tremolavano di rabbia.

“Non hanno preso che due valigie, tanto avevano fretta di andarsene!”

Il falegname sembrava abbastanza intimo della casa e chiese senza imbarazzo.

“E voi, signora contessa, voi rimanete?”

La contessa strinse la faccia e guardò il falegname con furore.

“Certo, che domanda….”

Il fiato e il raccapriccio della contessa rimasero un minuto lì nell’aria, prima di svanire insieme alla sua schiena.

Il falegname si strinse nelle spalle, si grattò il mento e si rivolse alla cameriera.

“Oh, quella donna! In dove si devano mettere, queste casse?”

La cameriera, piccola e tonda, indirizzò il falegname e Gino per i meandri del palazzo. Piagnucolando “che tristezza, chiudere le cose…” gli fece mettere le casse di qua e di là, aprire, predisporre, spostare.

“Mamma mia… non ce la fo mica, da sola… non è che voi, per caso…?”

Il falegname si tirò subito indietro.

“Io non posso; c’ho di già la schiena rotta… magari il giovane, qui.”

La cameriera lo blandì con un sorriso e l’offerta di un pasto caldo. Gino rimase a lavorare.

Si dovette mettere i guanti
bianchi per toccare i vestiti e la biancheria, i libri, i documenti. Negli androni enormi delle sale, fra tende e affreschi che Gino mai aveva visto in vita sua. Ci si incantava a momenti, a naso in su, sui puttini e le nuvole, gli stucchi dipinti e i cieli celesti. “Così non si finisce più!” gli urlava la cameriera mentre si asciugava la fatica dal viso con le mani. Allora Gino si dava una mossa e ricominciava a piegare e appilare roba nelle casse di legno che avevano ancora l’odore forte della piallatura.

Casse e casse di roba che a sera avevano sgobbato come muli e erano solo a metà dell’opera. Il pasto caldo l’ebbe già a buio, con la testa che gli girava dalla stanchezza.

La cameriera mangiò e bevve vino, si lisciò la divisa e fece per andarsene.

“E la mancia…?”

“Mancia? Io non ne so nulla. Vai a chiedere alla contessa. Che stanchezza… io vo a letto. Buonanotte.”

Se la filò da una porticina accanto alla cucina economica. Una porta liscia come il muro che nemmeno si vedeva, che c’era.

A Gino, con la zuppa ancora calda nello stomaco, gli toccò andare per gli androni dei corridoi, per le sale enormi, sotto gli affreschi e fra gli arazzi. Ma senza incantarsi, questa volta, perché quel posto al lume basso degli stoppini gli dava più soggezione d’una chiesa.

La contessa, la trovò dopo qualche minuto e qualche sudarella, in un piccolo camerino. Ricoperto di tessuto rosso e di cassettoni scuri al soffitto con in angolo una stufa antica di ceramica dipinta. Seduta a un tavolo da gioco, la contessa stava apparecchiando, con stizza, portaceneri per tre persone.

Sussultò, sentendo entrare Gino, che per la soggezione si muoveva più piano di un ladro.

“Che fai ancora qui?”

Lo guardò appena e poi si mise a smazzare velocemente con dita lunghe, magre e esperte. Aveva un abito lungo e giri e giri di perle sul petto magro.

Gino farfugliò di soldi e di lavoro, di compenso promesso…

“Io ti ho promesso qualcosa?”

La contessa si voltò verso di lui e continuò a mescolare le carte, intanto.

“Guarda, vattene. Già stasera sta andando tutto così male…”

Non era tanto vecchia, in fondo. Magari per via di quella cipolla lente sulla testa… o il cignolino nero intorno al collo… pareva del secolo scorso, più che vecchia.

“Posso… posso esserle… esservi utile?”

“Tu?!”

La contessa rise e si alzò, strusciandogli addosso l’abito da sera. E andò verso una consolle di legno nero dove le sue sigarette erano adagiate su un vassoio d’argento.

“Il mio compagno di gioco mi ha appena telefonato… parte stasera, va a Ginevra.”

Si accese una sigaretta e inspirò il fumo fino a profondità impensabili.

“Banda di vigliacchi, tutti.”

“Lei… voi… rimanete qui?”

La contessa inspirò di nuovo fino all’apice dello sfinimento, poi sbuffò il fumo insieme alle parole: “non è pensabile, lasciare l’Italia.”

Scosse la cenere in aria, attraversò la stanza, sparì in un corridoio.

Gino, guardando il tavolino verde, le quattro sedie intorno e l’aria già pregna di fumo ebbe un’idea.

La contessa tornò con tre lire in mano e gliele porse allungando il braccio.

“Signora contessa… io se vuole… se volete, conosco qualcuno, per stasera…”

La contessa si sedette al tavolino.

“Ma cosa vuoi conoscere tu… vai, vai!”

“E’ un signore… un vero signore, sta sul Viale dei Colli e io… posso andare a chiamarglielo, se vuole… è un gran giocatore e in questo momento è libero, è appena rientrato dalla villeggiatura, è stato a sciare in Svizzera… gli farebbe senz’altro piacere, se la Signora contessa vuole… se volete…”

Due minuti dopo si tuffò giù a perdicollo per le scale e di corsa lungo l’Arno, poi attaccato a una carrozza che trotterellava rapida, poi, quando il fiaccheraio si accorse del clandestino e schioccò la frusta all’indietro, giù in un balzo e tutto d’un fiato lungo l’acqua e per le strade di case striminzite, nel corridoio e nella casa di Alcide. Vuota.

Gino cacciò quasi un urlo e poi si gettò per le vie, a ficcare il naso in tutti i bar e in tutte le bettole dove poteva essere lo zio. Lo trovò alla terza. In uno stanzino di due metri per tre dove c’era più fumo che aria e più fame che soldi, però giocavano tutti in silenzio e concentrati, pareva n’andasse dell’onore.

Lo zio non si voleva mica staccare dal tavolo; pensava che Gino scherzasse. E persero tempo lì e a casa, a rimpulizzirlo tutto e usare la brillantina rimasta per pettinarlo un po’, la colonia allungata con l’acqua sulle mani per stirare i vestiti buoni e la cravatta, che puzzavano di naftalina.

Coi soldi guadagnati da Gino comprarono un castagnaccio fumante, delle sigarette e un passaggio su una vettura. Non era bello arrivare trafelati.

Alcide si concentrò un secondo sul personaggio, prima di tirare il campanello, e quando la contessa aprì era bello pronto, mondano e rilassato. Gino lo guardava con meraviglia, come vedesse un arcangelo.

La contessa lo guardò e gli si piegarono gli angoli della bocca. Non c’era cascata. Chiese solo il nome di Alcide, per poterlo presentare, e poi fece un cenno minimo della mano per farsi seguire.

“Sbrigatevi, gli altri sono già arrivati da un’ora.”

Gino e Alcide entrarono e attraversarono i corridoi e le volte buie, le scalinate, i saloni. Nel camerino c’erano già due signori in abito da sera e un uomo grosso con la divisa nera piena di decorazioni.

La contessa fece entrare Alcide e chiuse la porta sulla faccia di Gino.

Che, già che c’era, si intrufolò in cucina e piluccò tutto quello che riuscì a trovare.

Dopo le ore piccole Gino li vide passare uno ad uno: la contessa, i signori eleganti, il gerarca, lo zio Alcide. Chiacchierando e tossendo frasi stanche, uscirono portandosi dietro scie di fumo e di tempo speso, insieme all’odore di soldi spostati, di notte sprofondata nelle ossa.

Lo zio era raggiante: aveva vinto. Non riuscì a tenersi e già nell’atrio si avvicinò a sussurrare nell’orecchio di Gino.

“Non ci vai più a chiedere l’elemosina!”

Poi uscì per ultimo, cercando di baciare la mano della contessa, che si voltò di colpo e lo lasciò chinato come un allocco.

Camminarono qualche minuto aspettando le prime luci e i primi bandoni aperti.

Alle “Giubbe rosse” erano gli unici clienti, fra i raggi dell’alba e i camerieri ancora freschi di sonno.

Lo zio si sedette e cacciò fuori un sigaro, lo tagliò in due e ne passò mezzo a Gino. Si muoveva lento apposta, voleva farlo schiattare di curiosità.

Si affumicarono ben bene di aroma buono e dolce prima che Alcide si decidesse a parlare.

“Ora non ce n’è quasi più, di gente che gioca davvero… con la miseria che c’è in giro.”

Poi gli venne un accesso di tosse e dovette spegnere il sigaro, schiacciandolo con delicatezza per riaccenderlo più tardi.

“Ma la contessa… è una introdotta… fascistoni pieni di grana!”

Alcide si scrocchiò le dita delle mani, poi aspirò una boccata di soddisfazione e la soffiò in alto, come avesse ancora il sigaro, guardando i cassettoni del soffitto.

“Ha detto che giocano di nuovo martedì e vuole che io torni. Le cose cambieranno, Gino… sarà una pacchia, d’ora in poi, per noi.”
In effetti, se la godettero.

Proprio ora con la guerra, i tempi bui e la gente magra magra. Ora che tutti c’avevano fame e paura e che Gino non lavorava, non girovagava, non faceva nulla per niente e per nessuno. Ora se la godette.
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Il pomeriggio al cinema. O dal sarto con Alcide che finalmente si poteva rifare degli abiti da sera. O dal barbiere a farsi lisci e belli. E dopo, a cena fuori. Per Alcide e lui c’era sempre da mangiare bene, c’era sempre cortesia dappertutto.

Poi a qualche rivista, a bere e fumare e tirar tardi. Sul piccolo palco, odorose di movimento, le cosce tonde e le sculettate delle ballerine vestite da marinarette. Al tavolino, Gino, Alcide e qualche scroccone che trovava il modo di sedersi con loro e farsi offrire qualcosa. E il gestore a salutare e chiedere come andava, se si divertivano, se li avevano serviti e avevano visto il nuovo numero?

Per loro sempre sorrisi e benvenuti e montagne di credito, credito a non finire. Perché a frequentare quelli che frequentava lo zio adesso, s’aprivano tutte le porte. E anche se non uscivano mai, insieme ai compagni di gioco, tutti lo sapevano da dove veniva i soldi di Alcide. Allora, anche quando non c’aveva che debiti perché perdeva, lo stesso lo trattavano come un signore.

Lo zio pareva un pascià. A suo agio fra gli ozi e i vizi, se ne stava in panciolle; tirato a lucido e bello come non mai; piaceva a tutte le donne. Ci fu l’Armida, sposata, moglie di un impiegato di banca. Lunga lunga e cogli occhi spiritati, il vitino più sottile che Gino avesse mai visto e la bocca più grande. Si videro di nascosto tutti i giorni, con Alcide, il pomeriggio dopo pranzo; finché il marito si insospettì e mandò la moglie a stare con la madre, a Ponte a Greve.

Alcide, non che gliene importasse più di tanto: il giorno dopo andò con Gino al bordello e si fece passare
la malinconia. Insieme a due morettine sveglie e giovani che ridevano tutto il tempo. Quella di Gino, col caschetto arricciato ai lati, si spogliò a tempo di musica, poi fece dei giochini coi labbri rossi tinti di fuoco che Gino non credeva nemmeno esistessero. Alcide si affacciò ore dopo, in vestaglia, ridendo, e disse a Gino di rientrare, se voleva, che lui ne aveva ancora per un po’…

Non solo alle donne, piaceva Alcide. Perché era premuroso con i compagni di gioco e gentile sempre con tutti. Anche col gerarca del circolino, quando si vedevano, s’era fatto amico. E tutti lo trattavano con rispetto e simpatia. Tutti tranne la contessa, che si sforzava di parlargli solo davanti agli ospiti e poi si affrettava a chiudergli l’approvazione, come un rubinetto avido, appena erano soli.

A parte questo andava tutto bene. Non c’avevano un nemico né un problema al mondo, solo gentilezza e soldi e soddisfazioni. Pensava Gino, e mentre camminava con Alcide verso il centro notò come finalmente avesse cominciato a stiepidire. Vide i boccioli di biancospino sulle siepi dei viali, pieni di promesse. La mimosa che profumava qua e là, all’improvviso, da sopra i muri dei giardini, piovendo il dolce giallo pollinoso giù sui passanti. Gino guardava Alcide camminare nella luce forte di marzo e pensò che anche a lui, di lì a poco, la primavera gli avrebbe portato sollievo.

Arrivarono alla bottega del calzolaio e Alcide porse le belle scarpe bicolore all’omino curvo.

“Me le faccia per benino, eh?”

“Che c’è bisogno di dirlo, signor Alcide? Come sempre…”

Ma fu interrotto da uno sbotto duro, rasposo, cavernoso che gli partì di colpo in gola, a Alcide.

Dovette uscire per strada e aggrapparsi al muro perché i singulti lo piegavano in due a collo lungo e faccia in avanti, come il gatto che deve sputare il pelo. Il calzolaio sgranò un tanto d’occhi e disse in un soffio a Gino “ma che c’ha… il mal sottile?”. E Gino, anche se se lo sentiva già nel petto da mesi, a sentirlo dire così, dal calzolaio, gli venne uno stranguglio. La saliva gli andò di traverso e si mise a tossire anche lui. Il calzolaio disse che doveva chiudere e gli rimise in mano le scarpe che avevano portato a risolare, poi tirò il bandone.

Da quel giorno non ci fu più pace: invece che tossicchiare tutto il tempo qua e là, a Alcide gli veniva degli attacchi maligni che lo piegavano in due e lo lasciavano sfinito con gli occhi lucidi e il naso spalancato.

34.
Attese

La mamma si mise in apprensione, al racconto di Gino, che gli aveva dovuto spiegare perché lo zio non andava più a trovarla. E da quella volta gli preparò tutti i giorni infusi e impacchi da portare a casa. Più larga che lunga era, la mamma, con una pancia che gli girava tutta intorno e gli saliva fin sotto il mento schiacciandogli il seno enorme sulla faccia. Il babbo la guardava a malapena mentre armeggiava permurosa coi bricchi, scuoteva la testa e poi bofonchiava che non era bene si agitasse così, lei che era in attesa.

Gino, invece, il babbo se lo squadrava lentamente da capo a piedi per vedere se c’aveva addosso i segni della debosciataggine. Sapeva bene, che vita faceva adesso, insieme a Alcide. E se c’era lui, in casa, Gino ci restava poco poco: il tempo di salutare la mamma e prendere i fagottini che aveva preparato per Alcide. Lo sguardo del babbo non lo reggeva più di pochi minuti.

Di peggio e di poi, su tutto, incombeva la partenza per il militare. Fra poco arrivava i diciott’anni, questione di settimane ormai. Sicché Gino se ne stava sospeso, in attesa anche lui. Di giorno a traccheggiare in casa, a spassarsela di notte.

Allo zio, invece, la tosse dopo averlo fatto rinviare più e più volte gli servì a farlo riformare proprio del tutto.

Tornò dalla visita pallido ma sorridente.

“Che grulli… sto proprio bene, io!”

E festeggiarono portando fuori a cena due ballerine del varietà. Due poverette che si facevano toccare il sedere e le tette come se ce l’avessero scritto nel contratto, che dovevano trombare col primo che arrivava. O forse era l’impresario, che l’aveva addestrate per benino.
Non gli riusciva di smettere di pensarci, a Gino, mentre si agitava sul corpo magrolino sotto di lui. Perso in un’indifferenza che lo faceva distrarre peggio che durante la messa.

E anche a succhiargli i capezzolini scuri. Anche a prendergli in bocca le labbruzze e morderle fino a fargli male, sempre a Gino gli pareva che la ragazzina non pensasse che a quando avrebbe finito.
E siccome a lui di finire in quel modo non gli riusciva, le uscì dalla pancia di scatto, si tirò su i calzoni e chiuse
la patta. La ragazza pareva solo sollevata e si prese in mano i soldi senza nemmeno chiedere nulla.

Allo zio gli era andata anche peggio. Gino lo trovò nel corridoio a aspettarlo mentre l’altra ragazzina stava a cincischiare col bordo della gonna  e l’aria chiusa.

“Non c’è voluta stare, quella…”.

Lo zio lo prese per un braccio e lo fece allontanare a grandi passi dall’alberghetto buio.

“Dice che lei coi malati non ci sta.”

Erano tornati a casa senza festeggiare, muti e intontiti.

E nei giorni dopo, forse per l’umido della stagione, forse perché fumava e tirava tardi oltre la sua resistenza, Alcide c’ebbe un tracollo. Gli attacchi arrivavano sempre più spesso, il giorno e
la notte. E il suono della tosse veniva da punti schiantati del petto che evocavano vuoti e risucchi.

La contessa, adesso, aveva paura di ammalarsi. Lo guardava sempre più storto e gli parlava sempre più di lontano. Lo zio si alzava e andava a smaltire gli attacchi in corridoio e quando rientrava li trovava tutti con gli occhi fissi sulla porta.

Così una sera la contessa lo aspettò all’ingresso e gli diede il benservito. Era indecente, non poteva continuare a frequentare gente, in quello stato. Che ringraziasse la sorte, gli era  andata anche troppo bene fino a quel momento.

“Come un fattorino! Non mi ha fatto nemmeno entrare…nemmeno salutare gli altri…”

Lo zio ci mise un sacco a inghiottire il rospo. Rimase abbacchiato, quasi sempre sul letto, senza far nulla per due settimane. Per fortuna i soldi non mancavano in quel momento. E anche se nessuno gli faceva più credito, così da un momento all’altro, anche allora se
la cavavano. Sparirono i cinema e i varietà. Sparirono i sigari e gli scaldini pieni. Poi, piano piano, sparirono anche i ristoranti. Ma da mangiare ce l’avevano sempre, e in quel momento era davvero un lusso.

Poi, una mattina, Alcide si riebbe; si rialzò, e andò nei vecchi bar. E con gli ultimi soldi rimasti cominciò a riunire degli amici a casa.

Colle finestre sbarrate e il fumo che li soffocava. Stava lì notti intere a cercare di rifarsi e un po’ su, un po’ giù, fra gli attacchi di tosse e le lacrime e le ore piccole, alla fine della fiera erano più i soldi che uscivano di quelli che entravano. Soprattutto perché quando vinceva era difficile farsi pagare, dopo. Eppure, maniche arrotolate e faccia gialla come le cicche, lo zio se ne stava curvo sul tavolino a ore. Gli occhi fissi ai numeri nella testa. Il petto sempre più incavato, lì da dove partivano i singulti.

Allora, via via, cominciarono a sparire anche i piatti caldi e i vini. Via la carne e i sughi. Di nuovo a far la spesa con le tessere, che la razione era di già poca per uno e in due non c’era di che nutrirsi.

Steso sul materasso, troppo vicino al pavimento pregno d’umido, Gino stava tutta la notte a stringersi nel paletot, con il bavero fino agli orecchi, a contare le ore che mancavano a alzarsi, che era meglio stare proprio svegli piuttosto che così mezzo infreddolito, mezzo affamato, mezzo in dei sogni stravaganti di donne e di cibo.

Finalmente la stagione finì di sciogliersi negli aliti tiepidi e nei voli delle rondini, che avevano deciso di tornare. Tornarono anche le piogge fini e calde. Tornarono le nuvole bianche con sopra i cieli celesti e puliti.

La mamma si trascinava nei giorni, con la faccia e le caviglie gonfie. Non riusciva più a mangiare perché gli girava la testa ma nonostante questo era grossa come non mai. Stava quasi sempre seduta, cogli occhi chiusi, bendati da una pezza umida, e adesso le tisane e gli impacchi li preparava Gino, sotto le sue indicazioni. Mica le potevano sprecare quelle erbe; le aveva pagate un occhio della testa, e poi Alcide ce n’aveva bisogno…

Alcide che migliorò solo un pochino, con la stagione buona, e rallentò un poco gli attacchi. Ma c’aveva gli occhi così infossati dentro il cranio da non parere più lui.
A primavera inoltrata, coi cinguettii e tepori di terra, i frutti sui rami e i fiori a colorare i colli, quasi com’era nato Gino, nacque
la bambina. Senza problemi, nacque in una mattina di sole tiepido e talmente veloce che quando la levatrice arrivò era bell’e tutto finito. Mica come con lui, che s’era messo doppio e l’aveva fatta strillare
una notte intera, per uscire. La mamma, appena un po’ provata ma con tanta di quella agitazione da parere perfino ringiovanita, non smetteva di parlare.
Si zittì solo quando Gino sollevò sulle mani
la piccola Angiola. Che aveva voluto nascere in quell’anno brutto. E era tanto bella. Lo guardava con gli occhi acquosi e senza coscienza. Lo guardava con la bocca rosa storta da una parte e le guance grasse sparse sul lino delle fasce. Gino la inondò di benedizioni. Poi la rese alla mamma, che si asciugò veloce gli occhi sul grembiule e la rimise nella culla.

Il giorno dopo, Gino dovette andare a passare la visita.

Tutti in fila con la paura nella pancia e le mani sul pisello.

Abile e arruolato.

Abile a fare la guerra, era sicuro. Arruolato chissà per dove; l’Africa, la Grecia, l’Albania… c’era parecchi posti, dove andare a morire ammazzati.

Gino filò veloce e sicuro dal babbo, quel giorno. Che facesse quel che poteva, per amore, per pietà, per carità. Lui forse poteva, lui c’aveva delle conoscenze…

“E gli amici di tuo zio, e quel pezzo grosso? Non ti possono aiutare, loro?”

Il babbo voleva sfottere, ma non ci riusciva, a ridere.

“Lo zio non li vede più… adesso sta da solo. Sono cambiate le cose… non è più come… prima.”

E la mamma con la poppa enorme sulla faccia di Angiolina, la mamma si voltò verso il babbo.

“Ma sì… sì che ci penserà lui. Vedessi, Gino, come scattano tutti sull’attenti, quando entra il babbo…”

Gli ci volle parecchie altre manfrine e qualche lacrimuccia, ma poi il babbo si decise.

“Ma sì, ma sì… farò quel che posso. Mica c’era bisogno che me lo chiedevate…c’avevo già pensato da me.”

Gino abile e arruolato tornò dallo zio con le idee secche e la gola confusa.

E trovò Alcide che dormiva. Sentiva russare già dalla porta. Gino varcò la stanza di fumo che si era formata dopo
la partita. Spalancò la finestra e agitò le ante per muovere un po’ l’aria.

Lo zio dormiva spalancato sulle voragini di stanchezza che gli dava il gioco. Aveva la faccia livida, contratta sempre più al passare del tempo. E in terra accanto al letto, un fazzoletto appallottolato stretto per non far vedere il sangue.

Due giorni dopo, Gino andò col babbo da un suo amico medico. Un vecchio compagno di studi che aveva dei favori da chiedere per un figliolo d’una cugina, richiamato e comandato nella stessa caserma sua.

S’erano grattati un po’ la testa sulle malattie adatte e con una degenza abbastanza lunga e poi avevano trovato: paratifo. Ci poteva essere delle ricadute, si poteva tirarla avanti per un bel po’.

Uscirono poco dopo, per la stradina stretta e lunga lunga, giù per la discesa di San Niccolò, dove stava il dottore. Le rondini giocavano a mangiare più insetti e cacciare più stridii nel vento. Nel cielo azzurro intenso e forte, che sapeva di cose pulite e belle. I loro passi erano i soli a rintoccare sulle facciate delle piccole case e i loro respiri e sospiri erano i soli suoni. A parte un soffio leggero di vento libero fra la strada e i tetti.

Gino stringeva il certificato in mano e si sentiva gonfiare di un sollievo quasi cattivo, tant’era forte. Gli montava e gli straripava fuori dal petto e dalla gola, avrebbe voluto urlare e cantare, e gridare grazie al babbo, abbracciarlo.

Invece gli si avvicinò e gli prese un avambraccio, glielo strinse.

Il babbo si girò di soprassalto e lo guardò stupito, poi annuì sorridendo.

Quando arrivò l’estate, il certificato ancora lo proteggeva e Gino era ancora a casa da Alcide, a guardarlo giocare e tossire. Lui usciva poco, stava giusto qualche ora coi suoi per aiutare un po’ la mamma e prendere i fagottini per lo zio.

Convinceva Alcide a bere gli intrugli della sorella e dopo lo lasciava riposare, poi si metteva a guardar riverberare il caldo sui muri del giardino, pieno di gramigna e erba secca. A tirare i sassolini contro le lucertole che sgusciavano rapide fra le fessure. A sentire i suoni dalle case accanto, che si affacciavano a sbirciare sul giardinetto, seguendo le faccende delle donne, i piagnucolii dei bambini, i borbottii degli uomini rincasati. A guardare per ore il fumo lieve dei comignoli, che preparavano l’odore dei pasti e lo spennellavano su e giù per l’aria; fino a Gino a faccia in su, fino ai tetti rossi di caldo.
Intanto Mussolini mandava l’esercito in mezzo mondo e la guerra aveva già regalato tanti morti, uno in ogni casa. Chi non c’aveva un figliolo, un parente o un amico morto?

Al babbo gli morì un cugino, giovane. In Russia, s’era perso fra i primi scontri e non ne avevano saputo più nulla. Che era ancora peggio perché non sapevano se piangerlo o aspettarlo. E a trattenere le lacrime per sempre era proprio una brutta cosa. Poi, a ferragosto, era arrivata la lettera: era morto.

Il babbo ci stette parecchio male, alla notizia. Per dei giorni girò cogli occhi rossi e la bocca stretta. Guardava tutti con lentezza e i propri figlioli, quelli se li centellinava addirittura. Loro che non erano partiti. Anche sulla piccina che non se la sarebbe mai ricordata, la guerra, posava a lungo gli occhi prima di andare al lavoro, in caserma.

Comunque, fra i morti e i dispersi, arrivato settembre, nemmeno al babbo gli riuscì più di trattenere Gino. Serviva alla patria.

35.
In caserma

Quello che più era tremendo era la fame. Poi anche la noia e la preoccupazione. Nella caserma dove gli era riuscito di imboscarsi, lì a Firenze, pericoli veri non ce n’era ma c’era la paura di essere trasferito, la fatica di star sempre ad aspettare il peggio.

Il babbo gli scriveva delle lettere, ora che erano commilitoni. E gli dava consigli, gli mandava i saluti per questo e quell’altro ufficiale. Anche se le raccomandazioni vere se le stava giocando tutte in quell’altra caserma, dove stava lui. I contatti che c’aveva e anche quelli che non c’aveva; tutti se lo vedevano in continuazione d’intorno per quel suo figliolo che doveva restare a Firenze.

In quel periodo Gino fece in modo di non inciamparsi addosso, di dimenticare le preoccupazioni, di darsi un’arte e di mettere da parte tutto quello che gliene poteva venire.

Cercavano volontari per la banda e lui si offrì. Tanto si impegnò che ci misero addirittura qualche settimana prima di accorgersi che non sapeva suonare. Perché gli veniva bene, di far finta di soffiare nel piffero. E con quelle tre note qua e là gli pareva pure di contribuire.

Cercavano volontari per il pugilato, e lui si offrì. L’aveva visto parecchie volte e gli pareva che in fondo, ma sì, non era mica difficile. A parte gli spruzzi di sangue sulle prime file di spettatori, era un diporto come un altro. Saltellò ben bene sul palco e come gioco di gambe ce n’aveva davvero parecchio. Prima di riuscire a picchiarlo, nell’unico incontro che dette, l’avversario se lo dovette tenere fermo per una spalla, prima di prendere la mira e spedirlo dall’altra parte con un cartone da maestro.

Insomma, di giorno si dava da fare e il tempo passava. Ma il problema era
la notte. La notte a Gino non gli riusciva più di dormire. Col freddo incrostato a mezz’aria nella camerata e il puzzo dei calzini e dei peti. Con gli incubi di tutti che premevano sulle teste per uscire al buio e strisciare fra i letti tirando i piedi. Gino preferiva restare sveglio e guardare le sue paure colargli giù dal cervello e metterglisi davanti.

Le uscite erano una boccata d’aria. A casa, entrava, salutava e subito dormiva. Sul divanetto sconciato dagli anni lui si buttava e subito si addormentava. Perché intorno c’era la mamma gonfia di latte che armeggiava oggetti e spandeva odore di cibo. Angiolina che gorgheggiava nella culla e i fratelli che parlavano della scuola.

Il babbo era fiero. Tornava e subito si informava, consigliava. Da pari a pari, quasi, che finalmente erano sulla stessa barca. E poi perché Gino non si lamentava, non chiedeva. Pronto a fare il proprio dovere e a servire in silenzio la patria che chiamava. Non stava più a fare il debosciato perditempo. Capelli rasi, divisa tirata, colorito sano. Così gli piaceva. Glielo diceva proprio: “così mi piaci!” mentre si sedevano a tavola. Ogni tanto, però, se lo guardava fisso fisso. Si imprimeva la faccia del figlio che sarebbe partito e chiedendosi se ne valeva
la pena. Di vedere un figlio partire alla guerra. Poi, quasi a convincersi, cominciava a raccontare i ricordi.

Lui c’era passato che aveva appena compiuto diciott’anni. S’era quasi congelato ma aveva continuato a tenere la postazione insieme ai compagni. Sepolti nelle trincee gli pareva quasi d’essere già morti. E avevano continuato a sparare e a parlarsi con quelli della trincea di fronte, con i nemici, finché dall’altra parte non aveva risposto più nessuno. Lui e i suoi compagni avevano preso tutti un sacco di medaglie.

I fratelli ancora riuscivano a sgranar gli occhi ammirati, dopo dugento volte che l’avevano sentita. La mamma non sbuffava più come in passato, ma offriva un altro piatto di minestra, un’altra fetta di pane, un altro bicchiere d’acqua?

Poi, una volta, dopo i ricordi il babbo sorrise furbetto preparando
la sorpresa. La mamma capì e gli prese gli occhi coi suoi.

“C’è novità?”

C’era, e il babbo la soffiò fuori, gonfio di soddisfazione.

“Ho ritrovato qualcuno, dei vecchi amici, anche loro di nuovo sotto le armi. A uno di questi, un capitano, gli ho scritto raccomandandoti… vedi di fare bene.”

L’amico del babbo lo prese come attendente. E Gino si dette da fare giù di spazzola sugli stivali. E faceva il caffè e correva di qua e di là. Se lo lisciava e curava proprio per benino, quel capitano, che non voleva deludere ancora una volta il babbo.

Il capitano era lungo allampanato e distratto. Le corbellerie che faceva Gino, non gli davano noia. Si guardava i bottoni attaccati male penzolare giù per il cappotto e non diceva niente. Era buono. Ma
una notte , per beccare i soldati che uscivano di nascosto dal muro di cinta, si mise in borghese e fece come loro. Un fischio: “oh, sono sotto, tiratemi su!”

Quei grulli lo tirano su, vedono che è il capitano e “oddio!” lo lasciano andare. Una gamba rotta e la testa fasciata, costole incrinate e a casa chissà per quanto.

Ma tanto, oramai, al babbo di tenerlo lì a Firenze non gli riusciva più, gli era durato anche troppo.

Allora, a fine gennaio, ci fu l’ultima vacanza prima di partire. E la mamma era così grossa che quasi non gli riusciva di abbracciarla. I fratelli gli strinsero le braccia e gli fecero gli auguri. Il babbo lo tirò a sé e gli dette dei gran colpi sulla schiena. Poi lo staccò e cercò di dire qualcosa ma non gli venne che un borbottio strozzato che parevano incoraggiamenti e consigli.

Mentre s’allontanava da casa a Gino gli pareva d’essere una lumaca strappata dall’accoppiamento. Le viscere gli restavano agganciate alla porta e si tiravano di dentro, una lunga scia di budelli grevi sempre più lunghi, fra la casa e lui che partiva.

Poi dallo zio.

Sentiva i colpi di tosse già per la strada.

Lo trovò seduto al tavolo da gioco, già preparato per la serata e col portacenere ancora colmo del giorno prima. Lo zio stava smazzando e disponendo un solitario ma si interruppe per asciugarsi col dorso della mano le goccioline della tosse.

Gli bastò di guardare Gino un momento e capì.

“Mi lasci…”

E si alzò rovesciando la sedia.

Lo tenne stretto e non lo voleva più mollare. Gino soffocava quasi, ma non si mosse.

Anche perché lo zio cominciò a singhiozzare e Gino gli mise le mani sulla schiena curva e ossuta e cercò di calmarlo.