Ispirarsi all’ingenioso hidalgo

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Ne parlano e lo invocano Miguel de Unamuno, José Ortega y Gasset, María Zambrano, ma anche Luigi Pirandello e Thomas Mann: Don Chisciotte (o, a seconda dei punti di vista, il suo creatore Miguel de Cervantes) è l’eroe moderno per eccellenza, l’uomo creatore di mondi, avversario e complice segreto del ridicolo. In breve: il simbolo di un’umanità frustrata ma orgogliosa – quella moderna, appunto; secolarizzata, emancipata, ma continuamente sedotta e smarrita dalle lusinghe della tradizione. I pensatori spagnoli, nel riproporre ai contemporanei le avventure e  le “conquiste” del Cavaliere dalla Triste Figura, scorgono in esso – compiaciuti – una sorta d’incarnazione della spagnolità, dello slancio spirituale custodito dagli abitanti di queste terre assolate. Scrive Unamuno in Vita di don Chisciotte e Sancio Panza: «non può narrare la tua vita, né può spiegarla né commentarla, signor mio don Chisciotte, se non chi sia stato contagiato dalla tua stessa follia di non morire». Lo scarto tra ideale e reale sarebbe dovuto all’impossibilità dell’uomo spagnolo di accettare l’essere sterile così come appare, immemore delle bellezze spirituali promesse da Dio. Ecco perché Don Chisciotte vuole vedere dei giganti in luogo di semplici mulini, per combatterli, per conquistarsi, a suon di duelli, il regno celeste. E così vivere per sempre.

In questo modo, però, cade il mito dell’eroe moderno. Don Chisciotte non è moderno, come d’altronde neanche noi, gli stessi peccatori di hybris di sempre. E cade anche il mito della spagnolità, o della mediterranietà. C’è un qualcosa nell’uomo, forse proprio la sua quiddità, che spinge fragorosamente fuori dai confini territoriali e culturali. Ma allora perché il Chisciotte affascina così tanto? Come fa a rubare così dolcemente la nostra attenzione? Forse proprio per questa sua astoricità, delineatrice d’una condizione umana che, a dispetto dell’inesorabile scorrere del tempo, rimane sempre uguale a se stessa, perlomeno nei suoi aspetti costitutivi.

Achille aspirava a gloria eterna, una gloria mondana che si sarebbe edificata bocca per bocca; Don Chisciotte, invece, aspirava sì a gloria eterna, ma spirituale, qualcosa che solo Dio avrebbe potuto concedergli; una gloria, però, che andava guadagnata su questa terra. Entrambi inseguivano il sogno, la realizzazione di un’esistenza che emerge senza senso dal nulla. Entrambi coltivavano il proprio ego e protestavano contro il brutto della vita, contro la materia che frena l’ambizione e la propagazione indefinita del proprio essere.

Noi uomini frenetici, desiderosi di vita piena, lottiamo contro i mulini a vento scambiandoli per giganti, a volte anche fingendo, lucidi, di vedere ciò che non vediamo. Il tutto per protesta contro una vita che ci vuole morti.

Eppure, alla fine, Don Chisciotte rinsavì, e, ormai divenuto Alonso Chisciano, spirò nella sconfitta. La morte è troppo forte, la paura di essa ancor di più. Ma quello che conta è quello che si è stati, non quello che si è, stremati, al traguardo.

Dunque, se vogliamo mordere il fuggire della vita, per lasciarle un segno (anche solo per noi), dovremo, ancora una volta e chissà ancora per quanto, ispirarci all’ingenioso hidalgo.