La tradizione del poliziesco e il poliziesco senza tradizione: sulle tracce di Ricardo Piglia

1. Il genere poliziesco è stato definito come un racconto mate­rialista ossessionato dai fatti e dal denaro. È di tradizione nordame­ricana e nasce con alcuni racconti di Edgar Allan Poe che, come sappiamo, visse la sua età adulta in costanti ristrettezze economi­che. In Poe, tuttavia, il denaro non è ancora un rumore di fondo continuo; se fosse nato mezzo secolo più tardi avrebbe constato che il genere poliziesco, oltrepassati i limiti secolari del gotico, si sarebbe rivelato per più di un secolo un vero affare per la lettera­tura: relativamente facile da tradurre e molto appetibile per imita­tori e plagiari. Si tratta di un prodotto dell’industria letteraria e ci­nematografica che sfrutta le passioni fin troppo umane di uomini e donne per il guadagno e il protagonismo di quell’eroe della profes­sionalità che è il detective. Quest’ultimo lavora per chi lo paga e segue senza tentennamenti un codice deontologico retto dall’unico dio del noir: il denaro.

Questo articolo si sarebbe potuto intitolare Il thriller della storia argentina secondo Ricardo Piglia. Avrei dovuto parlare di come il romanziere, in questo caso Ricardo Piglia, è sempre un detective in grado di costruire un ritmo narrativo al fine di creare quel thriller su crimini e segreti che è la storia di un paese, di una famiglia o di un individuo. Non ho però voluto deludere con un titolo tanto az­zeccato le aspettative dei lettori, giacché ho la sola pretesa di met­tere ordine in alcune riflessioni sorte a partire dalla lettura dell’ul­timo romanzo del maestro argentino, Blanco nocturno (Piglia 2011).

Piglia, che apre il cammino al romanzo del XXI secolo, fonda la sua concezione dell’arte sulla poetica del romanzo di Macedonio Fernández. Per Macedonio essa consiste soprattutto in una serie di domande sull’uso che si può fare di un romanzo. Per l’autore di Museo de la Novela de la Eterna [1] sono tre: come si scrive un ro­manzo? Come lo si legge? E come può un romanzo farsi realtà? Per Piglia, Macedonio Fernández inverte la direzione delle grandi teorie del romanzo del XX secolo di Auerbach, Lukács e Bachtin: il romanzo aspira a costruire una non-realtà, ciò che deve avvenire, ciò che ancora non è. In questo senso, il romanzo è un metodo arti­stico per la conoscenza e si inquadra all’interno del pensiero uto­pico. Per Fernández, tuttavia, la trama, la suspense e i diversi stra­tagemmi narrativi sono componenti della poetica del romanzo, sebbene di quello che lui chiama il «romanzo brutto».

Macedonio Fernández distingue tra romanzi «brutti» e «belli». Il romanzo brutto è facile da leggere, realista, lineare, provvisto di suspense e di un finale; quello bello invece è il romanzo incoe­rente, inconcluso, disordinato, nel quale la trama è subordinata alla tecnica. Fernández immagina il romanzo utopico come una mac­china della prosa che consente di raccontare tutti i futuri: è il miste­rioso oggetto artistico intitolato Museo de la Novela. Quasi un se­colo più tardi Roberto Bolaño, che sogna come il suo predecessore un romanzo utopico, annuncia nella sua poesia l’idea di un «ro­manzo-neve», un romanzo che nel suo modo di accadere sembra un fenomeno naturale, un romanzo che attende un nuovo lettore:

 

       I miei lavori letterari 10 aprile 1980. Ossessionato

       da gambe in camere da letto dove tutto è femminile

       persino io che assassino un’aria da casse e segugi

       mummificati. Non scrittura nella cadenza dei miei giorni

       senza soldi, né amore, né sguardi; solo confidenze

       camere da letto scure dove sono la calza di seta

       circondato da canarini e torce di luna. Tuttavia

       quando posso parlare dico scrivi cose divertenti

       qualcosa che interessi alla gente. Pianoforti astratti

       nelle imboscate del silenzio, il mio stesso mutismo

       che circonda la scrittura. Forse sono solo cieco,

       mentre approdo a un terminal dove «il mio talento»

       possa essere espresso dai frammenti combustibili

       il mio collo nel romanzo-neve.

 

Addentrarsi nella neve del romanzo, secondo Bolaño (2007), condurrebbe direttamente al romanzo utopico del XXI secolo.

Torniamo dunque a Macedonio, che fu maestro e amico di Bor­ges e forse uno dei pensatori letterari più influenti dell’Argentina del XX secolo. In quanto avanguardista della prosa e sognatore di un romanzo futuro, per Fernández è imprescindibile costruire un nuovo tipo di lettore. Nei romanzi di Ricardo Piglia compare in modo ricorrente la figura di Emilio Renzi, alter ego dell’autore: in Respiración artificial (1980)[2] è un giovane scrittore, mentre è un ricercatore, giornalista, detective e confidente di Sofía Belladona nella risoluzione del caso di Blanco nocturno (2010). Renzi è con­cepito come il progetto di un nuovo lettore. Nelle sue Note su Ma­cedonio in un Diario, Emilio Renzi sembra avere compreso il piano di Macedonio:

 

Il pensiero negativo in Macedonio Fernández. Il nulla: tutte le varianti della negazione (paradossi, nonsense, antiromanzo, antirealismo). Soprattutto nega­tività linguistica: il piacere ermetico. L’idioletto, la lingua in codice e perso­nale. Creazione di un nuovo linguaggio come massima utopia: scrivere in una lingua che non esiste. […] «Una grammatica onirica», dice Renzi. «In questo somiglia a Gadda. L’oratoria creola come pastiche. La payada [3] filosofica. Un chitarrista. Era», dice Renzi.

 

Piglia racconta che Macedonio aveva in mente di pubblicare un libro segreto, un libro che sarebbe stato pubblicato dopo la sua morte. Stabilì anche la data, il 1980, e che sarebbe stato pubblicato sotto falso nome, con uno pseudonimo. Lo considerava «il capola­voro intenzionalmente sconosciuto», un’opera «cifrata e nascosta nel futuro come un indovinello posto alla storia». Senza dubbio la letteratura di Macedonio è ciò che un sociologo della letteratura potrebbe definire un’anomalia, ma è anche possibile che sia un genere in codice senza interlocutori nel suo tempo. Un emigrato polacco, dominato dal caso e dall’immaturità, sarà il suo primo interlocutore artistico:

 

Finché Witold Gombrowicz non arriva in Argentina si può dire che Mace­donio non ha nessuno con cui parlare dell’arte di scrivere romanzi. Transatlan­tico, romanzo argentino, è già un romanzo macedoniano (per non parlare di Ferdydurke). A partire da Gombrowicz si può leggere Macedonio. O meglio, Gombrowicz permette di leggere Macedonio.

 

Macedonio Fernández avrebbe voluto pubblicare El Museo de la Novela de la Eterna come romanzo d’appendice su La Nación. Una decisione che definisce molto bene la tensione del romanzo moderno tra utopia e popolarità. A proposito di quel progetto Pi­glia annota nel suo diario:

 

Movimento tipico dell’avanguardia: isolamento, rottura con il mercato e al contempo ambizione di entrare nei mezzi di comunicazione di massa. Studiare questa strategia (sempre fallita) significa comprendere la tensione interna della forma nel suo romanzo.

 

Poco più di un decennio dopo, nel prologo a La invención de Morel (1940) [4] di Bioy Casares, Borges (20002) traccia una vera e propria poetica della ‘finzione’ ed esprime le ragioni della sua dif­fidenza nei confronti del ‘romanzo psicologico’. Ricorda che R. L. Stevenson si accorse che nel pubblico del suo tempo esisteva un disinteresse sempre maggiore per la trama e aumentava invece l’attenzione per un romanzo senza intreccio o con una trama «infi­nitesimale». Borges, che conosce bene le idee di Ortega y Gasset, se ne allontana per difendere il rigore di un romanzo di peripezie rispetto al «tipico romanzo “psicologico”». Nel suo costante inter­vento per la riorganizzazione di un canone letterario, egli avverte la mancanza nella tradizione ispanica di opere frutto di un’imma­ginazione ragionata:

 

Le finzioni di natura poliziesca – un altro genere tipico di questo secolo che non può inventare argomenti – raccontano fatti misteriosi che poi un fatto ra­gionevole giustifica e illustra. Adolfo Bioy Casares, in queste pagine, risolve felicemente un problema forse più difficile. Dispiega un’Odissea di prodigi che non sembrano ammettere altra chiave che l’allucinazione o il simbolo, e pie­namente li decifra mediante un singolo postulato fantastico ma non soprannatu­rale. [5]

 

Il fatto interessante è che le idee di Borges sul racconto polizie­sco vanno al di là del genere e si possono considerare come un’idea generale della letteratura. Come osserva Martha Barboza, Borges «‘usa’ il poliziesco per costruire uno spazio nel quale il genere funzioni come tale e come un luogo dal quale leggere i suoi stessi testi e la letteratura argentina» (Barboza 2008). Il suo pro­getto è quello di fondare una nuova forma di leggere e scrivere, una nuova tradizione argentina che aspiri ad essere parte della let­teratura mondiale e a resistere alla parodizzazione delle trame. Af­ferma Martha Barboza:

 

In questo senso, si può affermare che la letteratura poliziesca argentina si crea su questo supporto ‘estraneo’ e ‘altro’ dato dai classici inglesi e dai thril­lers nordamericani. Questo, tuttavia, non impedisce che molti scrittori ‘insi­stano’ su una produzione nazionale del genere per mezzo di plagi, imitazioni e parodie. Una delle strategie utilizzate in questa ricerca è l’eliminazione o la parodizzazione del personaggio chiave ed essenziale del genere, il detective, pur mantenendo gli altri tratti caratteristici: enigmi, misteri, crimini, investiga­zioni, indizi.

 

Due anni dopo il prologo a La invención de Morel, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares scrivono a quattro mani il romanzo Seis problemas para Isidro Parodi (1942), [6] nel quale il detective protagonista ha nel proprio cognome la parola ‘parodia’, anche se con una lettera in meno. Parodi risolve casi dalla sua cella, non ha bisogno di esaminare il luogo del delitto. Le sue soluzioni sono congetture.

 

2. Viviamo nel tempo della finzione, della narrazione multiorga­smica che domina il XXI secolo, fondata su un’onnipotente cultura visiva che cresce ad ogni riciclaggio delle trame delle tradizioni letterarie. È la fiction, il duro impero della trama, ma anche del complotto, della cospirazione, giacché plot significa anche questo. L’ossessivo scorrere della narrazione, le implosioni ed esplosioni, sono una conseguenza della suspense, un mezzo che nel cinema produce l’effetto narrativo attorno al quale ruota tutta l’architettura della finzione. Questa è la conclusione a cui giunge François Truf­faut nell’introduzione al libro-intervista che realizzò su Hitchcock:

 

Come regola generale le scene di suspence formano i momenti privilegiati di un film, quelli che la memoria trattiene. Ma guardando il lavoro di Hitchcock, ci si accorge che lungo tutta la sua carriera egli ha cercato di co­struire film in cui ogni momento fosse un momento privilegiato. Film, come dice egli stesso, senza buchi macchie. [7]

 

La trama si oppone a quello che possiamo chiamare ‘carattere’ del romanzo moderno. Per Henry James si tratta di un falso pro­blema. «Che cos’è il carattere se non la determinazione di un evento? Che cos’è l’evento se non l’illustrazione del carattere?», si chiede in The Art of Fiction (1884). La trama, pertanto, è una forma riconoscibile della finzione popolare, la soluzione di alcuni codici che spiegano quanto è accaduto realmente. Una trama logica presuppone un mondo che, sebbene non sia controllabile, può al­meno essere conosciuto e spiegato, ed è perciò in grado di svilup­pare un’estetica della compiutezza e dell’unità.

Torniamo in Argentina. Ernesto Sábato, in Sobre héroes y tum­bas (1961), [8] parla di «un certo tipo di finzioni attraverso le quali l’autore cerca di liberarsi da un’ossessione che non risulta chiara nemmeno a lui stesso». In una Buenos Aires labirintica, sotterra­nea, qualcuno sospetta una cospirazione che nessuna indagine po­liziesca può chiarire, ma che attraversa i sogni e gli incubi dei per­sonaggi. Sobre héroes y tumbas comincia con un articolo di cro­naca nera pubblicato nel quotidiano «La Razón» di Buenos Aires nel 1955. L’articolo ammette come prova un altro rapporto, il «manoscritto di un paranoico», il noto «Rapporto sui ciechi», pre­sentato come un «nuovo elemento di giudizio». Sulla base di que­sta premessa, il delirio intellettuale o raziocinio allucinato rappre­senta la strada verso la spiegazione. In Sábato culminano due tra­dizioni del mistero urbano della capitale argentina, quella chiara e geometrica di Borges e quella caotica e allucinata di Roberto Arlt.

Rispondere all’esametro di Quintiliano, Quis, quid, ubi, quibus auxilis, cur, quomodo, quando?, non significa necessariamente risolvere l’enigma. I formalisti russi si interessarono molto al rac­conto poliziesco. In Unione Sovietica, durante la Guerra Fredda, la scuola che studiava i romanzi polizieschi americani rimandava co­stantemente ai lavori formalisti, soprattutto alla Teoria della prosa di Šklovskij (1925). Tuttavia, il detentore del segreto non viene scoperto solo rispondendo alle domande di Quintiliano o vagliando le possibilità combinatorie che costituiscono lo stimolo per le nar­ratorologie formaliste.

Il romanzo poliziesco, tanto quello poliziesco classico quanto il noir, è un racconto in cui l’autore e il lettore condividono, secondo Piglia, «il feticcio dell’intelligenza pura». In seguito arriverà il de­naro e l’inseguimento del suo flusso occulto, a un punto tale che Piglia considera che al noir si deve applicare la lente brechtiana:

 

Senza avere nulla di Brecht – salvo, forse, Hammett –, questi autori devono, credo, essere sottoposti a una lettura brechtiana. In questo senso c’è una frase che può costituire un punto di partenza per questa interpretazione: «Rapinare una banca è poca cosa al confronto di fondarne una», diceva Brecht, e in quest’affermazione c’è – se non mi sbaglio – la migliore definizione che cono­sca del noir.

 

Proprio questa frase di Brecht apre Plata quemada (1997), [9] un romanzo basato su un fatto di cronaca nera che riguarda un gruppo di rapinatori che opera a metà degli anni sessanta a Buenos Aires e a Montevideo. Piglia, all’epoca, ebbe accesso a molto materiale riservato, fascicoli giudiziari e registrazioni segrete. La vicenda, infatti, coinvolgeva poliziotti corrotti e membri di bande criminali. Lavorò sulle testimonianze e i documenti e scrisse una prima ver­sione che lasciò nel cassetto per trent’anni: «La distanza temporale mi aiutò a lavorare sulla storia come se fosse il racconto di un so­gno». Piglia pone come primo requisito per la creazione romanze­sca la distanza, l’allontanamento dall’attualità. Il detective si fa romanziere, e non il contrario, come succede di solito. Sapere la verità non è sufficiente, bisogna immaginarla.

In Blanco nocturno (2010), si racconta dell’omicidio di Tony Durán che, all’inizio degli anni settanta, giunge in un paese della provincia di Buenos Aires inseguendo le conturbanti sorelle Bella­dona. Le sorelle sono implicate in uno strano labirinto di dinastie familiari che gravitano attorno al fratello, Luca, che ha concepito un progetto demenziale nella Pampa, un’utopica macchina ottica, simile a quella che troviamo nel Romanzo della Eterna di Macedo­nio Fernández. Siamo di nuovo alle prese con il carattere fantoma­tico del denaro e con la trama della storia argentina, la quale è sot­toposta a tre filtri interpretativi: l’investigazione di Emilio Renzi, l’analisi dei fatti del commissario Croce, la conversazione fram­mentaria tra Renzi e Sofía Belladona, aiutati da sniffate di cocaina:

Sofía aveva spesso constatato che la storia della sua famiglia era patrimonio di tutti nella zona – un racconto del mistero che l’intera popolazione conosceva e riraccontava ma senza mai riuscire a decifrarla completamente – e non si preoccupava delle varie versioni e alterazioni perché facevano parte del mito che lei e sua sorella, le Antigoni – o le Ifigenie? – di quella leggenda, non ave­vano bisogno di chiarire – «abbassarsi a chiarirle», come diceva – ma adesso, in mezzo a quella confusione, dopo l’omicidio, era forse doveroso tentare di ricostruire – «o capire» – quello che era successo. [10]

 

Addentrandosi nel mistero, il veterano commissario Croce offre al lettore una chiave in più per appurare la verità: «La certezza non è una conoscenza, pensò, è la condizione della conoscenza». Per il commissario ‘comprendere’ è «passare dall’ordine cronologico dei fatti all’ordine logico degli eventi». «Non bisogna tentare di spie­gare quello che è successo, occorre soltanto renderlo comprensi­bile. Per prima cosa devo capirlo io stesso». E cosa c’è di meglio che scrivere un romanzo per capirlo? Piglia non solo scrive ro­manzi, ma ogni suo romanzo è un intervento critico sulla storia e la teoria del romanzo moderno. Il personaggio di Luca Belladona, l’illuminato fratello delle conturbanti sorelle Belladona, è descritto come un romanziere della stirpe dei Macedonio:

 

Lo accusavano di essere irrealista, di non avere i piedi per terra. Ma lui era uno che pensava, l’immaginario non corrispondeva all’irreale. L’immaginario era il possibile, quello che non si è ancora realizzato, e in tale proiezione nel futuro c’era, al contempo, ciò che esiste e ciò che non esiste. Quei due poli si intercambiavano continuamente. E l’immaginario costituisce questo intercam­bio. [11]

 

Luca Belladona usa i suoi sogni come «anticipazioni ermetiche dell’avvenire, le parti discontinue di un oracolo»; in questo si op­pone al metodo dell’intelligenza pura che si riflette nel feticcio dell’immaginazione. Luca Belladona definisce così il suo metodo:

 

Perché noi lavoriamo con le metafore e le analogie, con il concetto di uguale a, con i mondi possibili, cerchiamo l’uguaglianza nella differenza as­soluta del reale. Un ordine discontinuo, una forma perfetta. La conoscenza non è la rivelazione di una essenza occulta bensì un legame, una relazione, una somiglianza tra oggetti visibili. [12]

 

La realtà è che il thriller della storia non sempre si risolve grazie a un’intuizione o a un colpo di fortuna come nei romanzi polizie­schi. Anzi, è raro che si risolva. Possiamo solo avvicinarci alla ve­rità, farci un’idea di quanto sia potuto accadere, immaginare:

 

Isoliamo dei dati, ci soffermiamo su alcune scene, interroghiamo vari testi­moni e avanziamo a tentoni. Più sei vicino al centro, più ti invischi nella ra­gnatela che non ha fine. I romanzi polizieschi risolvono elegantemente o in modo brutale i crimini perché i lettori rimangano tranquillizzati. [13]

 

Mano a mano che ci avventuriamo verso la fine del romanzo, tutto quello che è stato chiarito si rivela in realtà più oscuro, al punto che l’unica via d’uscita è un’investigazione senza fine, quello che Renzi chiama la finzione paranoica:

 

Tutti sono sospettati, tutti si sentono indagati. Il criminale non è più un in­dividuo isolato, ma un groviglio che detiene il potere assoluto. Nessuno capisce cosa stia succedendo; le piste da seguire e le testimonianze sono contraddittorie e mantengono i sospetti nella confusione, come se cambiassero a ogni inter­pretazione. [14]

 

Luca Belladona trascorre i giorni precedenti alla sua morte ad annotare i sogni e a dettare al segretario un rapporto. Nel suo alto stato di lucidità allucinata giunge a concepire il laboratorio della trama: una macchina per tessere tutti i complotti della storia, tutti i personaggi coinvolti nel complotto. Piglia, curiosamente, gli offre anche la possibilità di abbozzare una poetica della tradizione ar­gentina:

 

Stavo pensando ai tessuti creoli. Filo, nodo, filo, croce e nodo, rosso, verde, filo e nodo, filo e nodo […]. Ricordiamo quella strofa di Fierro: È un telaio di sventure / ogni gaucho che lei vede. La filatura e la tessitura ineluttabile del destino! Quel tessuto mette i brividi. Da qualche parte si tesse, e la nostra vita si dipana nella trama dei fili. Ah, se potessi tornare anche solo per un istante nel laboratorio dove c’erano tutti quei telai. L’immagine non dura che un at­timo, perché subito dopo ricado nel sogno brutale della realtà. Ho un sacco di cose spaventose da raccontare. [15]

 

Come quasi sempre accade, l’etimologia è un sapere molto con­creto e romanzesco.

 

[Traduzione di Daniele Crivellari]

 

Note

 

1. Fernandez, 1992.

2. Renzi, 1990.

3. La payada, o pallada, è una forma d’improvvisazione orale, in rima e con l’accompagnamento della chitarra, tipica del Sudamerica, che può coinvolgere una o più persone; nel caso in cui i partecipanti alla payada siano più di uno, essa assume la forma di un dibattito poetico [N.d.T.].

4. Borges 20002.

5. Borges 20002, 19-20.

6. Borges, Bioy Casares 19962.

7. Truffaut 2002, 14.

8. Sábato 1993.

9. Piglia 2000.

10. Piglia 2011, 46.

11. Ivi, 197.

12. Ivi, 205-206.

13. Ivi, 238.

14. Ivi, 2011, 239.

15. Ivi, 2011, 242-43.

 

Bibliografia

 

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M. Barboza, Novelas negras argentinas: entre lo propio y lo ajeno, «Espéculo. Revista de estudios literarios», nº 38 (2008). (www.ucm.es/info/especulo/numero38/negarge.
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J. L. Borges, A. Bioy Casares Seis problemas para Isidro Pa­rodi (1942) [trad. it. Sei problemi per don Isidro Parodi, Editori Riuniti, Roma 19962].

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F. Truffaut, El cine según Hitchcock (1966), Alianza, Madrid 2010 [trad. it. Il cinema secondo Hitchcock, il Saggiatore, Milano 2002].