La Montagna Sainte Victoire, 1867

Un estratto dall'ultimo libro di Lucetta Frisa e Marco Ercolani, Il muro dove volano gli uccelli (L'arcolaio 2014).

di in: De libris

Paul Cézanne, Montagna Saint Victoire, 1867

Le tovaglie e le mele dipinte da Cézanne appaiono, a un poeta come Rainer Maria Rilke, la tenace resistenza della cosa vista, la sua ultimasalvezza, l’ultima occasione di sopravvivenza. Cézanne conferma la sua intuizione con le infinite variazioni sulla Montagna Sainte-Victoire. Molti paesaggi sono, per alcuni pittori, una specifica ossessione. Così della Sainte-Victoire lui scrive: «…lentamente le basi geologiche mi appaiono, le stratificazioni e i grandi piani affiorano, io ne disegno mentalmente lo scheletro pietroso. Vedo emergere le rocce, vedo pesare il cielo». E ancora: «Non c’è che una via per rendere tutto, per tradurre tutto: il colore. Il colore è biologico: lui solo rende vive le cose». Il colore cezanniano è biologico, non mimetico, disinteressato a restituire una superficiale rassomiglianza con la realtà dipinta, ma vivente e diverso, fondato sulla “particolarità” della percezione soggettiva.

Il cavalletto radicato al suolo, i movimenti della mano sulla tavolozza, senza variare punto di vista, senza avanzare di un passo, Cézanne pensa un unico gesto: dipingere. Un unico soggetto: la montagna. Prima il paesaggio, la descrizione. Poi la forma pura, senza spazio intorno, senza aria o alberi. Cubi bruni, rettangoli neri, trapezi bianchi. Cancellati prati, foglie, ruscelli, alberi, uomini. Il trionfo della struttura, sempre più luminosa. È quello che accade quando ci allontaniamo dall’oggetto, quando cerchiamo di ricordarlo. Se il pittore fosse vissuto ancora qualche anno, la montagna, già semplificata a visione geometrica, si sarebbe trasformata in blocco di pura luce, in antimateria. Una questione di tempo. Come se la cosa vista non aspettasse altro. Come se quell’espressione solitaria di risentimento per il mondo esterno, che emerge da uno dei suoi più celebri autoritratti, fosse il segreto della sua opera: quella “cifra del tappeto” che Hugo Wereker, lo scrittore protagonista del racconto omonimo di Henry James, dichiara essere la chiave di tutta la sua opera.

 

[Tratto da Il muro dove volano gli uccelli, di Lucetta Frisa e Marco Ercolani, L’arcolaio 2014]