Io sono così e resto così

di in: Filosofia portatile

Bill Brandt, Battersea Bridge 2

Vado spesso in bicicletta lungo il fiume, chiuso in casa tutto il tempo certe volte mi sento una pentola a pressione. L’altro ieri, di lontano sulla pista ciclabile, ho intravisto una coppia che si agitava, man mano arrivando ho visto un ragazzo e una ragazza che stavano litigando. C’era un gran vento contrario, le voci mi arrivavano a brandelli e concitate, li ho superati proprio nel momento in cui lui urlava: “Io sono così e resto così!”, per rimarcare chissà che cosa, quasi sicuramente che certi comportamenti che a lei non stanno bene fanno parte del suo carattere e non c’è speranza, oltre che la volontà, di cambiarle.

Chiaro che qui sto immaginando, ma non è poi così difficile, tanto più che ho avuto l’impressione di aver urlato pure io una frase simile, parecchi anni fa. Ma è stato quasi sicuro grazie al gran vento che là sotto s’incanala nel letto del fiume se di botto mi son reso conto dell’immane fatica che facciamo per avere l’impressione di essere sempre gli stessi, uguali vita natural durante. E mi è parso proprio strano, oltre che controproducente, o meglio contrario ai nostri interessi. Ripeto, c’era un gran vento lungo il fiume che smuoveva tutto quello che poteva, carte foglie e milioni di buste di plastica abbandonate d’inverno sugli alberi dopo la piena invernale, e lì per lì passando quella frase mi è apparsa in tutta la sua assurdità. Ma come è possibile, tutto è impermanente compreso il nostro corpo, e fin qui ci arriviamo, e l’io no?

C’è una storiella classica in cui uno sta su una barca che va sul fiume e pensa siano gli argini a muoversi. Dalla barca può sembrare che la costa sia in movimento, mentre in realtà è la barca a muoversi. Allo stesso modo, di solito abbiamo l’impressione che le cose che ci circondano cambino e siano in movimento, mentre noi restiamo gli stessi. Così cerchiamo di scoprire il principio alla base di tale movimento in modo da poter controllare le cose. Non rendersi conto che facciamo parte del continuo mutamento interno ed esterno è il vero problema, mi è parso in quel momento col vento talmente contrario che nonostante pedalassi con forza stavo quasi fermo. Mi è parso come il nucleo del problema sta in una carenza di fluidità, una rigidità nel modo in cui si guarda al mondo, una mente a comportamenti stagni incapace di collegarsi alle cose che succedono, perfino a quelle che ci succedono. È quel disperato tentativo, continuativo, esaustivo e faticoso di lasciar separate le cose, tener lontane da noi e tra loro le migliaia di cose che incontriamo nella vita di ogni giorno, mentre si fa meno fatica a tenerle insieme, associarle con tutta naturalezza, sobrietà e tempi giusti. Un tentativo che non solo è inefficace, ma ci impedisce di vedere che tutti gli eventi e le cose al mondo, noi compresi, sono invariabilmente collegati, intrecciati da nessi cangianti, e ciò che li collega può addirittura definirsi il ‘sacro’. Sacro è ciò che rende possibile la relazione, connette e allaccia, intesse, vale a dire l’analogia proporzionale, la fantasia, la facoltà combinatoria, e se il potere conoscitivo della fantasia è ormai svilito più che sottovalutato, se a guardar bene la sola possibilità è come atrofizzata o subappaltata, con esso è giocoforza svilita ogni sacralità sensibile, qualsiasi opportunità funzionale per la vaghezza e il mistero. Perché la fantasia non è l’immaginazione, non è per niente l’infanzia del pensiero come ci fanno credere, ma la sua originaria pienezza…

Mentre pedalavo sulla riva del fiume, stando più o meno fermo nel vento, ho avuto il tempo perché mi venisse in mente come ci siamo abituati, da trecento anni almeno, alla fissazione che la libertà non si sa esattamente che cos’è, ma almeno la cosa sicura è che è disordinata, l’assenza di regole è un suo attributo costante. Una fissazione come un’altra, anche questa con parecchie conseguenze, tra le quali il pensiero pauroso a una vita fatta di regole, al metodo. Questo è senz’altro vero, se non altro quando le regole non sono le nostre. La presunzione inconsapevole di questa fissazione sta invece nel fatto che le regole ci vengono per la maggior parte da fuori, e non invece e soprattutto da quel fascio di abitudini, consuetudini e cadenze che chiamiamo carattere e siamo abituati a considerare immanenti al nostro essere in vita. Una convinzione inconsapevole e basata su un bell’accumulo di niente, la maledizione di un ordine che c’è prima e presiede a tutto, dal quale ci dobbiamo liberare ad ogni costo, non per sostituirlo col contrario che lo legittimerebbe di nuovo, ma col niente, e quell’affanno vano e controproducente lo chiamiamo in vari modi, ad esempio lotta per la libertà personale.

E poi, vivere in discontinua contemporaneità con sé medesimi non mi è parsa una cosa così paurosa, anzi, lì sul fiume mi è venuto in mente che può essere questa la frontiera da esplorare oggi per adattarci alle nuove condizioni di vita che si stanno attuando, senza che nessuno se ne accorga o quasi, dando una bella scossa al crampo del carattere inamovibile ed eterno, quasi. Condizioni di vita in incredibile e impercettibile mutamento, in cui è facile farsi coinvolgere da situazioni spiacevoli per una sorta di vulnerabilità ai cambiamenti, sia esteriori che interiori. Per esempio, io stavo fermo o quasi pur sviluppando una pedalata notevole, tanto che a un certo punto mi sono fermato del tutto a fumarmi una sigaretta e dare una pacca con lo sguardo al vecchio Tevere. Lì non poteva non apparirmi la bellezza della frase di Walser, “ciò che perennemente scorre costringe a una moralità”, e anche mi è apparsa chiara la contentezza di sapere che al ritorno avrei avuto il bel vento alle spalle.

Quando sono ripassato nel luogo del litigio i giovani amanti già non c’erano più.