Ivo Andrić o un giorno del 1954

 Cum calore et dolore

 

Andrić non è in casa

 

14 dicembre 1954. Belgrado.

Ivo Andrić,  dopo aver pubblicato nel 1945 due romanzi, Il ponte sulla Drina e Cronaca di Travnik, è uno scrittore riconosciuto e stimato. Dall’estate del 1940 vive nel suo modesto appartamento al numero 9 di via Przrenska, circondato da mobili e tappeti bosniaci che il figlio del suo maestro elementare, Ljubomir Popović, ha trasportato su un vecchio camion da Višegrad.

Sono le cinque del mattino. Seduto alla sua scrivania di fronte alla finestra, fuma la sua terza sigaretta. Non ama svegliarsi all’alba. Ma ha trascorso una brutta notte, percorsa da incubi e sensi di colpa.

Il giorno prima ha deciso di aderire alla Lega dei Comunisti. Durante le celebrazioni, ha dovuto pronunciare un discorso e conversare con molte persone: cosa che non ama. Ora, c’è silenzio. E nel silenzio i ricordi, come piante rampicanti, coprono i muri del piccolo appartamento.  Ricorda i suoi anni universitari a Zagabria, a Vienna, a Cracovia; gli studi che non ha terminato; i viaggi «lunghi e tristi» come diplomatico in Italia, in Spagna, in Portogallo, in Austria; il 1 aprile del 1939, quando fu nominato ambasciatore della Jugoslavia a Berlino; la sua conversazione con Adolf Hitler, fredda ma cordiale. Solo qualche mese più tardi, in settembre, la Germania invaderà la Polonia dando inizio alla seconda guerra mondiale. Un anno dopo lascia Berlino con il personale dell’ambasciata per rifugiarsi a Costanza, ai confini con la Svizzera. Il 1 giugno, rientrato a Belgrado, trova ad accoglierlo la Gestapo. Ricorda il suo arrivo alla stazione; il cielo blu, già estivo, senza nuvole; il suo inutile tentativo di far liberare i suoi collaboratori che finiranno in un Lager.

Poi, sebbene le prime luci dell’alba comincino a disegnare i contorni della città, la placca fotografica dei ricordi cade nella notte dell’oblio.

Non può sfogliare un diario. Non lo ha mai tenuto. Prudenza? Mancanza di fiducia, piuttosto, verso le «interessanti deduzioni» che i biografi sono soliti apportare alla sua opera. Ma, soprattutto, per salvaguardare «l’importante e grave funzione dell’oblio», indispensabile alla sopravvivenza di ogni uomo, alla sua salute psichica, alla sua attività spirituale: l’oblio è la saggezza della memoria. Così come il silenzio è la saggezza della parola.

Solo che Andrić, seduto alla sua scrivania di fronte alla finestra, si sente colpevole per tutto quello che ha fatto e per tutto quello che non ha fatto. In particolare durante quei giorni del 1943, allorché Belgrado tremava sotto i bombardamenti angloamericani e lui, dalla finestra del suo piccolo appartamento al  numero 9 di via Przrenska, seguiva con lo sguardo gli aerei che nel cielo primaverile, coperto da una grande nuvola a forma di elefante, sfrecciavano verso la stazione, quella stessa stazione dove tre anni prima i suoi collaboratori dell’ambascita jugoslava a Berlino partivano per il loro ultimo viaggio.

Era sceso in strada a cercare gli amici. Li aveva trovati in buona salute, ma il loro volto era celato dietro una maschera di paura. Nessuno, infatti, lo aveva riconosciuto… La paura ci salva, pensò, ma non vede che se stessa. Fu allora che comprese che per guardare davvero gli altri, per svelarne l’essenza, bisognava restare calmi, immobili, crudeli e innocenti come un serpente in procinto di iniettare il veleno nel collo della sua preda.

Scosta la tenda della finestra, accende la sua quarta sigaretta e scrive: «Fino a quando uno scrittore non riesce ad azzerare la sua vita e ad erigere tra se stesso e il mondo un sipario opaco e impenetrabile, nulla, uomo o ramoscello che sia, prenderà vita o forma sulla carta».

Ancora un po’ inquieto, ripensa agli eventi del giorno precedente. Legge la presentazione ufficiale alla Lega dei Comunisti scritta dal suo amico Alexsandar Vuco: «Andrić si è comportato correttamente durante l’occupazione tedesca evitando non solo di collaborare con il regime ma non avendo neppure alcun contatto con i nazisti…». Quello che Vuco afferma non è completamente vero. Un effimero contatto con il nemico, un brivido lungo la schiena, ci fu…

Accadde al Teatro Nazionale. Per una volta aveva ceduto alle illusioni dell’arte. Una compagnia di Amburgo metteva in scena un dramma di von Kleist rivisto da un Feldmarechal delle SS, già professore di letteratura all’Università di Linz, la città più amata dal Führer. La protagonista, una giovane donna dai seni leggermente pronunciati e dai lunghi capelli neri, durante lo spettacolo, gli aveva lanciato alcuni sguardi. Andrić, seduto in seconda fila, non aveva potuto evitarli. Le aveva anche, non senza un imbarazzo infantile, rivolto un sorriso.

Quello che invece era vero è che in un giorno di pioggia di uno di quegli anni senza luce una delegazione del Ministero della Cultura aveva suonato alla porta del suo piccolo appartamento per indurlo a firmare un appello contro i comunisti.

Era seduto come sempre alla sua scrivania di fronte alla finestra. Leggeva Sumatra, una poesia del suo amico Crnjanski, emigrato a Londra. Aveva esitato un momento. Temeva ogni genere di scocciatori. Sapeva che molti lo accusavano di essere un disertore, uno straniero in patria, un console senza potere, un monaco. Perfino un misantropo. Ma lui si conosceva abbastanza per vergognarsi della sua ossessione per tutti gli esseri umani, per i loro gesti, per i loro visi, per il loro modo di vestirsi… Alla fine si alzò.

Aprì la porta. Prima che gli addetti del Ministero riuscissero a pronunciare una sola parola, aveva già compreso la ragione della loro visita. «Il signor Andrić non è in casa», aveva affermato. Il più in carne dei due replicò: «Ma è lei il signor Andrić!». «Appunto. Potete dire al Ministro che il signor Andrić ha detto di non essere in casa».

 

La lettera

 

Nel 1954 Andrić ha pubblicato una raccolta di racconti (Nove pripovetke), tra cui Lettera del 1920, e un breve romanzo, La corte del diavolo (Prokleta avlija).

Dopo la colazione in cucina – due uova, pane, un bicchiere di vino rosso – è di nuovo nel suo studio. Mentre sorseggia una tazza di caffé nero, apre un cassetto della scrivania e cerca la lettera del suo vecchio amico Max, il documento che gli ha ispirato il racconto.

Max gli aveva inviata da Parigi, dopo la fine della prima guerra mondiale, in uno dei momenti più difficili dell’unificazione della Jugoslavia. Come ha scritto una volta, Andrić sa che «lo scrittore deve scrivere e raccontare, ma non fare un romanzo della sua esistenza. Coloro che lo fanno, infatti, non solo procurano un torto a loro stessi e ai loro lettori, ma anche alla verità». Tuttavia oggi, 14 dicembre 1954, sente più che mai che tale «verità» si fonda su una sequela interminabile di menzogne che non durano lo spazio di un mattino, e che questo mattino, per quanto luminoso, si rinnova ogni giorno soltanto per esaltare l’eterno bisogno dell’uomo di credere in quello che non c’è e che non può essere. Questa è la sola «verità», una verità metafisica: non c’è, infatti, situazione umana tanto terribile a cui non si possa dare un senso più profondo, metaforico e, alla fine, consolatorio.

È ciò che il suo amico Max scriveva nella sua vera lettera.

Aggiungeva che tutto gli uomini sono naturalmente spinti verso la «felicità biologica». Soltanto che la Natura non ha previsto il bisogno dell’uomo di voler essere sempre altrove né il suo desiderio di trovare una felicità non materiale. La Natura non ha previsto né la religione, né l’arte, né il pensiero, né la follia, né l’odio. Neppure in Bosnia, dove l’odio tra Occidente e Oriente regnava da secoli: «Il fossato che separa le diverse religioni è a volte così grande che solo l’odio riesce a superarlo».

Max scriveva che un giorno anche la frontiera della riproducibilità tecnica dell’uomo sarebbe stata superata. Soltanto allora quell’uomo avrebbe ridotto le sue pretese e l’avrebbe fatta finita una volta per tutte con l’idea più che millenaria di essere qualcosa di speciale. Eliminata, grazie alla tecnica, ogni differenza tra gli uomini e gli animali, nessuna forma di discriminazione avrebbe potuto sopravvivere. Tutti gli esseri sarebbero stati classificati come viventi. Tutti avrebbero avuto diritto alla loro sofferenza biologica e alla loro felicità biologica…

Andrić, fumando la sua undicesima sigaretta, seduto alla scrivania, le tende tirate, la piccola lampada accesa vicino al suo esemplare di Nove pripovetke fresco di stampa aperto a p. 22, punta l’indice e legge ad alta voce: «Bisognerebbe analizzarlo e annientarlo questo odio della Bosnia come se fosse una malattia profondamente radicata e pericolosa. Sono convinto che gli scienziati stranieri verrebbero in Bosnia per studiare l’odio come studiano la lebbra, se l’odio fosse un oggetto di studio riconosciuto, autonomo e catalogabile».

Terminato di leggere, gli viene in mente un articolo uscito di recente in un giornale straniero.

Desmond Morris, un celebre etologo inglese, aveva organizzato in un museo d’arte contemporanea la mostra di Congo e Betsy, due scimpanzé, riscuotendo un grande successo di pubblico e di critica. «Ha scoperto la biologia dell’arte!», esclama Andrić. Solo qualche anno più tardi, nel 1962, a settant’anni, dopo aver ricevuto il premio Nobel dalle mani lunghe e pallide del re di Svezia e la medaglia dell’Ordine della Repubblica di Jugoslavia dalle mani rudi e pesanti del Maresciallo Tito, scoprirà che il celebre etologo ha scritto un libro intitolato La biologia dell’arte, dove potrà leggere: «La scimmia e l’uomo moderno possiedono pressoché lo stesso interesse per la pittura. Posso anche affermare che l’artista moderno non ha molte ragioni in più di una scimmia per dipingere un quadro. Perciò nulla ci separa dagli animali. In virtù di che cosa – affermava ancora il celebre etologo – l’artista-uomo avrebbe più dignità dell’artista-scimmia?».

Andrić, come al solito, è insoddisfatto. Diffida delle provocazioni brillanti, dei giudizi taglienti che cercano di attirare l’attenzione del lettore («Soltanto la comparazione deve essere affilata come una lama di rasoio») sempre distratto dalle difficoltà della vita.

Che cosa significa? Che l’arte si è arresa alla scienza? Allora il mio amico Max aveva ragione allorché profetizzava, negando ogni aspirazione metafisica dell’uomo, lo studio scientifico dell’odio bosniaco? «Eppure – si sorprende a dire – noi siamo scimmie che ad ogni passo si avvicinano alla tomba!».

Accesa un’altra sigaretta (è la tredicesima), si rammenta di quando era piccolo a Višegrad. Il suo maestro Ljubomir Popović gli ripeteva spesso: «Bisogna rispettare tutti: gli uomini, gli animali, gli alberi». Ha una lettera del maestro Popović. La tira fuori dal cassetto della scrivania – il tempo l’ha per caso incollata a quella del suo amico Max – e cerca un passaggio che la sua memoria ha conservato solo parzialmente: «Il fossato che separa i diversi uomini è a volte così grande che solo l’amore per gli altri riesce a superarlo».

 

Essere innocente non basta

 

Dopo un breve riposo, Andrić desidera rileggere qualche pagina della Corte del diavolo, il suo romanzo appena uscito. Italo Svevo lo aveva detto: per uno scrittore nulla, una volta terminato un grande lavoro, è così dolce come rileggere le proprie parole. La fatica, l’ansia, le centinaia di sigarette fumate, tutto è alle spalle, seppellito. Quel ponte invisibile al di sopra dell’ignoto che frase dopo frase lo scrittore ha dovuto costruire come un ingegnere meticoloso proprio perché resti invisibile, è stato portato a compimento… E se per uno scrittore il tempo esiste solo affinché egli possa correggere i suoi errori, anche quel tempo, ora, non c’è più.

Inizia a leggere: «È di quei due mesi trascorsi in prigione a Istanbul che Fra Petar parlava più spesso e nel modo più pittoresco…». Si ferma un momento. Ha impiegato diciasette anni a scrivere quel breve romanzo. Si può dire che lo conosca a memoria. A quel punto chiude gli occhi e continua a voce alta: «Scomponeva il suo racconto, lo frammentava, lo interrompeva, come un uomo gravemente malato che si sforzi di celare al suo interlocutore le sofferenze fisiche e i pensieri abitati dalla morte che si avvicina..».

Sì, il mio caro Fra Petar racconta al giovane monaco che lo assiste la sua prigionia a Costantinopoli. Da allora molto tempo è passato, ma non bisogna dimenticare che nella testa di qualcuno che sta per morire tutto è presente.

Nella «corte del diavolo» Fra Petar ha incontrato molte persone: Zaim, il mitomane dai quattro mestieri e dalle undici mogli; i due mercanti bulgari, come lui, «di passaggio»; Karagöz, il direttore della prigione, che si fa costruire la propria casa accanto all’istituzione per sorvegliare prigionieri e guardiani e per il quale tutti gli uomini sono colpevoli, poiché nessuno si trova per caso nella «corte del diavolo»: «Se qualcuno ha varcato la soglia di questa corte, non è innocente. Ha commesso un reato, sia pure  in sogno»; Haim, l’ebreo di Smirne, che conosce tutto ciò che accade in ogni singola cella della prigione e che non smette di parlare («Potrei vivere senza pane, ma non senza parlare»), capace di descrivere dettagli che non ha mai visto, di imitare tutti quelli che dice di aver conosciuto: un governatore greco, un mendicante perdutosi nel deserto, una matrona turca… Ah Haim, è l’indiscrezione fatta uomo! Il principe degli scocciatori! Il papa dei buffoni! Il gran visir  degli intriganti! Eppure, in quella corte dove ogni uomo sembra non aver un nome e si sente perduto, lontano com’è dalle sue abitudini, Haim è l’inviato celeste che viene dalle origini del racconto popolare: «Che sapremmo delle anime e dei pensieri degli altri e perciò di noi stessi… se non ci fossero questi individui con il loro bisogno di raccontare oralmente o per iscritto tutte le avventure che hanno visto o ascoltato?».

Che sarei io, si domanda Andrić, senza tutti gli Haim che ho conosciuto nella mia vita viaggiando tra Roma e Bisanzio? Un insignificante “io”, seduto alla scrivania, di fronte a una finestra, impegnato a scrivere le mie memorie, in altre parole, un folle che si prende per qualcuno, mentre per un individuo la sola possibilità di diventare universale è di trasformarsi in un nessuno: in uno di quei narratori anonimi che popolano le contrade passate e presenti di Smirne o di Sarajevo. Il racconto popolare – riflette quando le prime ombre della sera calano sui tetti innevati di Belgrado – che venuto da Oriente farà nascere più tardi la novella in Occidente; dove il nome dell’autore non importa; dove ciò che Fra Petar racconta è già il racconto di Haim che racconta il racconto, non importa se reale o immaginario, di un mendicante perdutosi nel deserto o di una matrona turca… C’è infatti un piccolo segreto che ho appreso dalle genti d’Oriente e che forse è il grande segreto di ogni novella o romanzo occidentali: quelle genti, anche se raccontano loro storie inverosimili, anche se li prendono in giro affibbiando ai personaggi nomi falsi, coniati al momento, anche si li truffano sulle date, sulla Storia, non considerano mai perduto il loro tempo. Quelle genti sanno che «anche quello che si può inventare sul conto di una persona» a volte ci dice a sufficienza sulla sua esistenza più profonda…

Senza contare che ciò che dice Fra Petar in punto di morte non ha nulla di consequenziale: i suoi «frammenti non sempre formano un quadro chiaro. Spesso, riprendendo il racconto, ne ripete alcuni passaggi, come se avesse perduto il filo… La storia poteva interrompersi, andare avanti, anticipare certi fatti, ritornare indietro, lasciare dei vuoti anche una volta conclusa, spiegarsi e dipanarsi senza alcun riguardo per i luoghi, il tempo o il corso reale degli avvenimenti». Lo stesso avviene per il racconto di Haim che vede protagonista il giovane principe Camil che muore alla «corte del diavolo», tanto innocente quanto fuori di senno per essersi troppo immedesimato in Cem, l’infelice figlio di un sultano del XV secolo il quale, per colpa di un fratello ursurpatore, era stato ostaggio per anni di tutte le corti d’Oriente e Occidente. Cosa anche questa che Fra Petar viene a sapere per altre vie…

Vedi Ivo, lo hai ben detto in questo romanzo – si sorprende ancora una volta a esclamare: «Io! Parola densa di significati che nella mente degli altri, senza che lo vogliamo e senza che possiamo farci nulla, ci inchioda in un punto fatale e definitivo, spesso assai lontano da ciò che sappiamo di noi stessi. Questa parola terribile che una volta pronunciata ci lega e ci identifica per sempre a tutto ciò che abbiamo pensato e detto…». È a causa di questa parola insignificante e «terribile» che Camil è diventato pazzo: ha voluto avere un suo posto fatale e definitivo nella Storia, non sapendo che la Storia è il sultanato della ripetizione: è esistito ed esisterà sempre un fratello minore e perdente e un fratello maggiore e crudele.

Forse Karagöz, il mio caro direttore della prigione, aveva ragione: nessuno alla «corte del diavolo» è innocente. E se ci fosse qualcuno, costui sarebbe condannato a non uscirne mai. Non tanto perché al di fuori della corte maledetta tutto non sia vano come al suo interno, quanto perché nella corte ogni uomo è inchiodato per sempre alla sua colpa, al suo io colpevole, ad avere un posto fatale e definitivo. Mentre la grandezza e la saggezza umane si manifestano nello sforzo di vivere nel presente dove la sola legge che conta è il movimento, dove ogni verità è sempre corretta da qualcun altro, dove tutti gli Haim del mondo offrono una versione diversa di quello che è accaduto.

Non è facile convivere con tutte queste verità che ci vengono proposte ogni giorno e ad ogni angolo di strada, con questo pesante debito che abbiamo accumulato nei confronti della Verità «fatale e definitiva» a cui aspiriamo e che esiste soltanto nei nostri sogni.

Non è facile, ma pagare tale debito fino al giorno della nostra di morte, come fa Fra Petar, è il solo modo di restare fedeli all’imperfetta e incompleta condizione umana… E non vi preoccupate, miei cari lettori, di quello che accadrà: nella cella accanto alla vostra – di una prigione, di un monastero – o nella stanza di una semplice casa di campagna, ci saranno sempre, come alla fine del mio romanzo, due buoni amici – nel peggiore dei casi due sorveglianti, o due estranei gentili e scrupolosi che, litigando rumorosamente, faranno l’inventario delle vostre povere cose: «Continua! Scrivi: sega in acciaio, piccola, di fabbricazione tedesca. Una!».

 

 

Bibliografia

 

Andrić 1992,

I. Andrić, La corte del diavolo, trad. it., Mondadori, Milano 1992

Andrić 2001a

I. Andrić, Romanzi e racconti, a cura di D. Badnjevic, Mondadori, Milano 2001

Andrić 2001b

I. Andrić, Il ponte sulla Drina, trad. it., Adelphi, Milano 2001

Andrić, 2006

I. Andrić, La cronaca di Tranvik, trad. it., Mondadori, Milano 2006