Per la comunità avvenire/ 2

a cura di Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio

di in: Col coltello

L'immagine è le lettera "E" della serie Frammentato abbecedario di un viaggio, di Raffaella Garavini.

Essere uniti è buono e divino; perché allora la brama
Tra gli uomini, che uno solo sia e una cosa sola?”

Holderlin, La radice di ogni male

 …sottratto alla sua potenza negativa, l’immune non è il nemico del comune – ma qualcosa di più complesso che lo implica e lo sollecita. Non solo una necessità, ma anche una possibilità il cui pieno significato ancora ci sfugge”

Roberto Esposito, Immunitas, Einaudi 2002, p. 22

Pubblichiamo di seguito una selezione della seconda parte del dibattito svoltosi su Nazione Indiana dal 20 ottobre al 25 novembre 2003. Si tratta di una discussione molto recente, che tuttavia noi consideriamo conclusa, almeno nelle pagine di Nazione Indiana. I nostri lettori sanno bene che, invece, il dibattito sull’argomento in Zibaldoni e altre meraviglie è appena iniziato.

Ci si renderà subito conto di avere dinnanzi un testo molto particolare, nel quale la pacata discussione sul tema della “comunità avvenire” lascia il posto ad una vera e propria polemica senza esclusione di colpi, che però a nostro avviso può rivelarsi molto istruttiva. Per comprenderla, bisogna rifarsi alla citazione di Roberto Esposito che abbiamo messo in esergo a questa seconda parte: “…sottratto alla sua potenza negativa, l’immune non è il nemico del comune – ma qualcosa di più complesso che lo implica e lo sollecita. Non solo una necessità, ma anche una possibilità il cui pieno significato ancora ci sfugge”.

Per noi la discussione con gli scrittori e i lettori di Nazione Indiana è stata davvero una necessità dettata dalla consapevolezza che solo dal dibattito delle idee, dalle sollecitazioni che ce ne potevano derivare, poteva scaturire un’idea nuova da cui ripartire. La soluzione del nostro rapporto con Nazione Indiana, purtroppo, è invece il frutto di una diversa considerazione che alla fine è stata fatta di noi e del nostro lavoro e dei nostri interventi, come di caratteri inerenti al “nemico”. Siamo stati identificati come “nemici” ed espulsi dalla discussione e addirittura dai rapporti personali di alcuni redattori (Scarpa e Benedetti), perché “non abbiamo capito niente” o perché “non portiamo un contributo” o “non abbiamo un’idea”, etc. È evidente che qualcosa non ha funzionato nel nostro rapporto con Nazione Indiana. Difatti, mentre noi pensavamo che le idee critiche potessero essere accolte e discusse, confutate e magari respinte, ma sempre sulla base di significative argomentazioni, ci siamo trovati di fronte a una reazione scomposta, con la quale dapprima Nazione Indiana ha cercato di ridicolizzare le nostre tesi e poi di ridurci al silenzio. Ora, non diciamo tutto questo per interessare il lettore ai nostri casi personali, che non contano nulla, ma semplicemente perché questo e non altro è stato l’esito della discussione sulla “comunità avvenire”, che, almeno nella sua prima parte, come si è potuto vedere, aveva lasciato presagire e avrebbe potuto portare ben altri frutti. Forse gli eventi sono troppo recenti per poter esprimere un giudizio. Tuttavia, noi crediamo che tutte le strategie messe in campo da Nazione Indiana per far cessare il dibattito sulla “comunità avvenire” rispondano ad una fortissima necessità che avverte lo scrittore immune di salvaguardare la propria individualità, la propria soggettività riconosciuta nell’attuale mercato delle lettere; quelle strategie di aggressione e riduzione a “nemico” dell’interlocutore, rispondono, in definitiva, ad una esigenza precisa della comunità data, che è per sua natura reazionaria e conservatrice, di contrapporsi a chiunque si attenti ad avanzare una critica, che potrebbe mettere in dubbio il paradigma esistenziale dello scrittore immune moderno che di essa è un riconosciuto paladino. La critica si configura, allora, come un atto di insubordinazione, di indisciplina, e pertanto va messa a tacere con ogni mezzo, anche discreditando quello che deve essere considerato ed è a tutti additato come il “nemico”. Va da sé che noi rifiutiamo in toto una simile logica, che chiude le porte in faccia all’altro quando questo non gli serve più o quando non riesce ad assimilarlo a sé. Al contrario, siamo convinti che oggi, se uno sforzo bisogna fare – TUTTI – è quello di superare le contrapposizioni di questo tipo radicale oppositivo. Non superarle facendo finta che non esistono, ma superarle per il fatto che non le consideriamo più come costitutive del nostro pensiero, fondanti la nostra identità. L’ossessiva sindrome immunitaria che abita pervasivamente il nostro mondo non ci indica che dobbiamo fare a meno dell’immunitas o addirittura delle nostre vite. Noi dobbiamo fare a meno di noi stessi in quanto soggetti che pensano e scrivono secondo i paradigmi del “nemico” e dell'”amico”. Se è vero che dall’immunità naturale dovremmo sempre prendere spunto anche per i nostri comportamenti pubblici, e che la biopolitica è appunto l’occasione per mettere sullo stesso piano, o almeno in dialogo, natura e cultura – allora dobbiamo capire che non esiste più un “nemico”, ma solo un’idea che può esserci estranea oppure no, che possiamo addirittura non comprendere, ma che rimane pur sempre necessaria all’orizzonte dialettico di qualunque discorso comunitario. Per esemplificare, se noi non ci fossimo confrontati con alcuni redattori di Nazione Indiana non avremmo mai capito fino in fondo l’importanza del discorso sulla “comunità avvenire”. Al contrario, la difficoltà di Carla Benedetti, di Tiziano Scarpa e in genere di altri redattori di Nazione Indiana è consistita nell’infrangere se stessi nel muro incomprensibile dell’altro, che infine si è preferito ridurre a oggetto da denigrare o ridicolizzare, a “nemico”, piuttosto che riconoscere come profondamente estraneo e quindi, al limite, degno perlomeno di essere interrogato e rispettato.

Se un insegnamento è possibile trarre da questa polemica letteraria, questo consiste, dunque, nella presa d’atto di una difficoltà da parte di molti intellettuali e scrittori nell’affrontare il libero scambio di idee non insieme ai propri sostenitori, ma insieme agli altri. Il bilancio che noi ci sentiamo di fare, quale si evince da questa polemica, è piuttosto fallimentare. Eppure, il fatto stesso che una polemica così aspra ci sia stata, come sempre più raramente avviene, rivela anche che esiste una certa vitalità nella letteratura contemporanea e che la normalizzazione auspicata dal mercato editoriale non è ancora estesa su tutto il gran corpo della produzione letteraria. Se questo è vero, allora anche dall’esito negativo della presente polemica possiamo trarre elementi di riflessione e incoraggiamento. Anzi, noi siamo convinti che è proprio da questo fallimento, ancora una volta, che il discorso sulla comunità e sulla letteratura avvenire possa e debba ripartire.

Buona lettura.

Edv – Gv

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Il dibattito riprende in NI il 20 ottobre con un intervento di Federico Ferrari dal titolo La nudità del pensiero:

“… non si tratta più solamente di produrre dei significati, di esercitare quella che un tempo si è chiamata una critica militante, ma di entrare nella sfera del senso in tutti i sensi. Questa praxis non comporta “la rinuncia a progettare o criticare”, ma indica la necessità di creare nuove forme di critica e di progetto a partire dal mondo, esattamente da questo mondo che ci è dato di vivere. Non è più consentito il salto mortale nell’oltre-mondo dell’ideale, nell’ornamento del pensiero progettuale classico. Si tratta, al contrario, di stare alle nude cose quotidiane, alla pelle delle immagini, senza cadere nella consolazione della profondità e del “dietro”, o nello sconforto depotenziato e depotenziante del “non ci si può far nulla, poiché tutto si perverte in spettacolo”.

Questo esercizio critico, naturalmente, ben lontano dallo sprofondare nel mutismo, ha a che fare con il problema della presa di parola, in cui ogni singolarità pone il problema di una attestazione di senso, innegabile e insopprimibile. Ed è poi questo, a ben guardare, tutto il problema della comunità, così come si è andato delineando anche sulle pagine di Nazione Indiana. Ogni presa di parola è l’ingiunzione affinché una nuova parola – quella dell’ultimo – sia annodata, sia ricompresa in una trama più ampia, la cui texture resta inafferrabile per l’insieme dei fili o delle voci. Si tratta di cominciare a tracciare i confini e la fisionomia di quella che Bataille chiamava la comunità di coloro che non hanno comunità. Se volete – e per ricominciare a pensare “in grande” – questa è la questione di un nuovo legame sociale. E non è certo un caso, almeno credo, che una tale esigenza nasca in un sito che si occupa di scrittura, un luogo in cui le identità si scrivono, scrivono se stesse e scrivono le une alle altre, si costruiscono le une sulle altre, in un gioco di rinvii e di nodi che rende inestricabile il mio dal tuo, riunendoli nell’infinito del comune o, ma è lo stesso, nell’infinito reticolare del senso. (Nancy, nel suo tentativo di ripensare l’ontologia come Mit-sein, con-essere, parla di “essere singolare plurale”, di un essere, cioè, che fa esperienza della propria singolarità come rinvio ad una pluralità: prima viene il con, poi l’io; si presti attenzione, il con non il noi.)

Restare alla “nudità” non vuol dunque dire rinunciare alla critica, né ritirarsi nel mutismo o nell’inerzia. La nudità del pensiero richiede, anzi, nuove parole, nuove voci, capaci di esprimere il silenzio dei corpi martoriati, sfruttati, umiliati, senza loro sovrapporre costumi ideologici o ipersignificanti. Tilda Swinton lo diceva molto bene in un suo articolo apparso su Alias qualche mese fa: si tratta di tenere il significativo privato del significato. Io direi che si tratta di configurare un nuovo senso al di là delle figure direttrici della devastazione planetaria del capitale, si tratta di creare nuove immagini al di là dello spettacolare.

Quando il significato svanisce appare la singolarità di un senso, l’attestazione indubitabile di un’esistenza. Quando alle immagini dei corpi straziati nei mille focolai di guerra che scorrono sui nostri schermi si toglie l’insulso commento dei telegiornali, appaiono dei corpi che chiedono risposte. È questa la nudità del pensiero.

Direi quindi – e credo che Nancy sarebbe d’accordo con me – che la questione del ruolo dell’intellettuale oggi è ancora e per sempre quella di mettere a nudo tutto ciò che impedisce di vedere il reale. Che poi il reale sia il mondo o le proprie idiosincrasie, poco importa (tanto più che le proprie idiosincrasie sono ancora il mondo e sono intessute da parte a parte di mondo). L’intellettuale ha, come gli altri o più degli altri, il dovere della presa di parola. Questa è la responsabilità dell’intellettuale: rispondere alla nuda esistenza. Non ci si deve spogliare della critica, ma si deve spogliare la critica fino alla propria nuda essenza, alla propria indigenza, alla propria difficoltà più vera. Forse, allora, si scoprirà che la critica non è il raggiungimento della nudità del pensiero, ma il gesto che spoglia, che toglie alla nudità la possibilità stessa di dirsi innocente, di essere il punto finale. Non c’è un punto finale, non c’è un soggetto fondante, non c’è una sola voce, un solo modo; ci sono singole posture, corpi particolari, stili eterogenei. Il mondo non va oltrepassato, poiché il suo senso è tutto lì, nella sua nuda esistenza. Il mondo ha bisogno di risposte, di voci che dicano, denuncino, propongano”.

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Giovanni Maderna il 21 ottobre si pone alcuni interrogativi:

“… Dei romanzi cannibali di Nove e Labranca, ma anche dell’evoluzione suggerita da Scarpa di quella interpretazione del reale, si può dire che sappia “stare alle nude cose quotidiane, alla pelle delle immagini, senza cadere nella consolazione della profondità e del “dietro”? Si può dire che siano “capaci di esprimere il silenzio dei corpi martoriati, sfruttati, umiliati, senza loro sovrapporre costumi ideologici o ipersignificanti?

Si può dire che siano capaci di “configurare un nuovo senso al di là delle figure direttrici della devastazione planetaria del capitale” , di “creare nuove immagini al di là dello spettacolare”? Oppure si rimane comunque sul piano dello spettacolare? Senza compiere fino in fondo l’atto di ‘spogliazione del pensiero’?”

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Marco Veronese, lo stesso giorno, ribadisce:

“… Ferrari ha ragione da vendere nel dire quello che dice: occorre creare nuove immagini senza infilarsi in modo irriflesso nel tunnel dello spettacolare, ma anche senza compiere l’ingenuità di credere di potersene porre fuori. Ma il punto, come dice Maderna, è se i cannibali, gli articoli di Scarpa e molto altro siano davvero “creativi”, sovversivi, o non siano altro che quello che lo spettacolare vuole. I cannibali, Scarpa si oppongono al sistema o sono così all’interno da fungere da suoi (involontari) apologeti? Quando Scarpa sembra voler stare sul piano d’immanenza, in realtà che cosa fa? (O, per non far cadere la questione sul personale, quando Tarantino, nel suo ultimo film, si appiattisce così tanto sul genere, che cosa fa? Smuove il genere o se ne fa, involontariamente, apologeta?) A me pare, purtroppo, che il discorso di Scarpa si appiattisca a tal punto da non aver più una pelle, come dice Ferrari anche nel suo bel libro dal titolo “La pelle delle immagini”. Scarpa non stabilisce un reale contatto. Sembra più adeguarsi, mentre il “corpo a corpo” richiede abrasioni, lesioni, bruciature. O forse mi sbaglio?”

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Gustavo Paradiso, sempre il 21 ottobre, aggiunge:

“Caro Veronese, se ho ben capito, Maderna pone le stesse domande che ponevo io, e altri prima di me, e lei stesso, a quanto vedo: cosa c’entra la spettacolarizzazione di Scarpa con la critica alla società dello spettacolo e con la “comunità di coloro che non hanno una comunità”? Non è piuttosto una contraddizione gigantesca nella quale si avvinghiano certi autori, che si proclamano contro questo e quello, che dicono di “non avere comunità”, ma alla fine rappresentano benissimo proprio questo e quello, e nella comunità presente, che gli elargisce tante belle cose, non è che si trovano poi tanto male?…

La contraddizione di alcuni scrittori (non solo Scarpa, ovviamente) mi sembra consistere in una incapacità di contrastare per davvero quello che con parole superficiali non dimenticano mai di vituperare: il mondo presente. Di conseguenza il tutto assume il sapore di una messinscena, che invece che mettere a nudo la nudità, come dicono Nancy e Ferrari, traveste di nuovi, peggiori orpelli allucinatori le nostre già fruste, stanche, oppresse menti e immaginazioni. Cosa pensa lei di questo? Io penso che oggi incontrare gente assolutamente NUDA di sé è un gran miracolo in occidente, una rarità veramente. Gente, voglio dire, che riesca a spogliarsi fino in fondo della significatività del proprio ruolo, riuscendo così a mostrare la carne viva, che è una carne che non è più fatta di carne”.

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Il 22 ottobre Federico Ferrari aggiunge delle precisazioni al suo intervento:

“In questo senso, la nudità di pensiero che invocavo non ama l’adesione, seppur ironica o grottesca, alla cinica realtà. Il discrimine, almeno per me (ma forse anche per Maderna), è in questo contatto a distanza che non accetta in alcun modo il discorso cinico della spoliazione planetaria, cioè, della sottrazione arbitraria e violenta di una storia, di un passato e di un avvenire dell’umanità – in questo furto planetario l’umanità si perde, perde i suoi desideri, le sue passioni, i suoi sogni, perché viene fissata negli stereotipi del capitalismo spettacolare o di un umanesimo reazionario.

Il rifiuto della spoliazione va di pari passo con la ricerca di nuove prospettive. E queste prospettive non possono nascere che da un diverso modo di intendere la spogliazione, cioè da un nuovo modo di denudare la spoliazione di senso a livello planetario. Il dénudement, il gesto che denuda, ha sempre a che fare con il denuement, con l’indigenza. Questa pratica di messa a nudo è, per me, la critica. La critica è un gesto. Fare della critica non significa fare dei segni (significanti), ma dei gesti (significativi). Probabilmente, questa è la sola critica efficace per pensare questo tempo out of joint, senza cadere in un nichilismo cinico o ironico. In fondo, la critica ha un senso quando, nell’assoluta spoliazione di senso, davanti alla nudità dell’abominio, mostra nel più piccolo degli indizi, nel più secondario dei gesti, la possibilità di una speranza, mostra che non tutto è perduto o, meglio, che quando tutto è perduto, tutto è di nuovo possibile.

Se “inutile è il libro quando la parola è priva di speranza”, allora la critica, nella sua nuda indigenza, mi sembra si possa (si debba?) configurare come la piccola porta stretta da cui soffia il vento della speranza”.

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Paradiso interviene ancora il 24 ottobre:

“Ci sono tanti modi di reagire alla messinscena ordinaria che ci abbindola tutti. Reagire e oltrepassarla, io dico, o, come dice Ferrari, alludere con la nudità del proprio scrivere o della propria opera a un’altra nudità ancora, sempre “sul limite”. Scarpa, era l’esempio che facevo, oppone alla messinscena cruda e grottesca dei media, una messinscena che a me pare debolissima, esibizionista, poco necessaria, poco illimitata. Per me è l’opposto di Pasolini per i motivi che ho detto sopra: Pasolini, con “Petrolio”, ha cercato la via per uscire da ogni messinscena, da ogni “trama”, con un rigore morale, prima che formale, davvero incredibile – rigore morale che è lo stesso, per me, invocato dal Bataille che argomenta “su” Nietzsche. Probabilmente è questione di tempi che sono cambiati, ma io è questo quello che vedo e che leggo. Non c’è alcuna intenzione moralistica nelle mie parole, né volontà di dare addosso a chicchessia (l’antipatia sì che è una messinscena). “Scriversi”, i destini “che si scrivono”, come dice ancora Ferrari cogliendo in pieno un’implicazione importante di molti discorsi che abbiamo intrecciato qui dentro, è un altro modo per smascherare ogni messinscena, per andare oltre le messinscene che ci assillano e ammorbano quotidianamente, perché solo “scrivendosi/scrivendoci” possiamo arrivare a qualcosa che non ha più a che fare con i significati che ci vogliono appioppare, che vogliono appioppare anche alle nostre anime, come dicevano De Vivo e Virgilio. Che poi, a guardar bene, questo “scriversi” rimandando sempre ad altro e ad altri, questo “struggimento vuoto” (Bataille), è quello che fanno gli scrittori da sempre, cercando nell’altrove della scrittura le soluzioni che la realtà troppo stretta non offrirà mai, nemmeno nel più riformato dei mondi. E qui mi vengono altre idee sulle “visoni”, ma mi fermo per non annoiare troppo”.

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Ancora Paradiso:

“… quello che conta, sono le modalità in cui noi stiamo ora parlando, in un mondo in cui tanti altri milioni di persone stanno parlando, etc.: il famigerato “scriversi”… Conta – non vorrei sembrare un pappagallo di Ferrari, ovvero di Heidegger – il “cum”, non il “noi” o il “Dasein”, non la “nostra posizione” rispetto agli “altri”. Voglio dire che a porsi la (falsa) domanda se sia valida o meno la “critica” che facciamo, serve soltanto a bloccare l’azione comunitaria, che invece deve essere sempre spostata in avanti, mai avvitarsi su se stessa, e meno che mai fissasi sull’origine. La comunità in cui siamo è questa, ‘qui’: e da ‘qui’ non si scappa, mai nessuno è scappato. E bada: siamo comunità tutti insieme, nessuno escluso, berlusconiani compresi o blogger compresi, per intenderci e semplificare all’estremo. Cosa faccio io, mentre vive e vige QUESTA comunità? Mi faccio ingannare e guidare dalle retoriche o dai kit preconfezionati (magari da quelli che si dichiarano “contro” – ma io non so cosa significa essere “contro”), cadendo così inevitabilmente in una angosciante depressione? O, piuttosto, cerco di mettere la mia volontà di consapevolezza al di là di ogni inganno più o meno precostituito, “cum”, cioè ‘mentre’ sono con gli altri? Per limitarci allora alla letteratura e agli scrittori: Pasolini, ad esempio, cosa ha fatto? E Calvino? E Manganelli? E Celati? E gli scrittori e gli artisti di oggi, cosa fanno ‘mentre’ c’è QUESTA comunità, non un’altra? Io ho abbozzato qualche risposta. Tu, invece, cosa dici?”

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Voltolini replica a Paradiso il 26 ottobre:

“La domanda che mi poni è “cosa fanno questi e quelli DATA questa comunità?”. Apprezzo l’accezione che tu dai così allargata di comunità. Cosa fanno costoro va visto caso per caso. In generale, a me interessano quegli scrittori (ma non solo scrittori ovviamente) che lasciano aperto un senso all’alterità, alla diversità possibile. Mi interessano quegli scrittori che stanno sul limite che separa questa cosa che abbiamo tutti sotto gli occhi (messinscena?) da qualcosa che è altra da questa. Attenzione, io non posso dirti cosa sia questa altra cosa, ma non perché non ho studiato, o perché sono pigro, o perché non ti voglio rispondere, ma perché l’atto di dire è sottrarre un brandello a quella alterità e portarlo qui in casa da noi. Tradurre pezzi di alterità nel nostro linguaggio, per esempio, è farli diventare non più altri”.

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Il dibattito sembra esaurito, quando, inaspettatamente, il 3 novembre, Dario Voltolini pubblica in Nazione Indiana il nostro Scrittori e bloggers (spedito a NI circa un mese e mezzo prima), che riportiamo integralmente:

“L’idea che ci siamo fatti in questi ultimi tempi, è che oggi qualsiasi blog, comunque sia fatto e organizzato, raduni una non-comunità, ovvero un’insieme di persone non sottoposte al vincolo del dare-ricevere (ricordiamo una volta di più che “munus” significa “dono” e “incarico”), e che invece sono tutte tese alla rivendicazione della propria parziale verità, ovvero del “proprio”: sono cioè “immuni”. Una non-comunità siffatta, non sottoposta alla Legge del “munus”, non solo non troverà, ma non cercherà neppure la verità. La VERITA’ non esiste, certo, ma esiste una disposizione a ricercarla, che consiste nell’ascolto dell’altro, e può avere diverse modalità, di assenso o dissenso, non importa, ma non prescinde mai dalla considerazione di ciò che l’altro dice. Al contrario, nei blog che abbiamo frequentato noi, e in particolare nel “blog collettivo” Nazione Indiana, tutto questo accade normalmente. Nel blog sono possibili finzioni, travestimenti, anonimato, cambiamenti d’identità, inammissibili in una comunità data, se non nel tempo stravolto del carnevale o nel mondo della illegalità. L’individuo comunitario attuale, difatti, ha sempre una precisa identità che è il fondamento di ogni suo discorso. In un blog vale la pure voce priva di autorità, sicché se anche intervenisse un Grande Scrittore, la sua voce avrebbe lo stesso tono rispetto a quella di Pincopallino; e così gli argomenti che il Grande Scrittore porterebbe, ove fossero discussi, avrebbero la stessa mancanza di autorità di quelli della signora Vattelapesca. In un blog tutte le vacche sono grigie. Va da sé che quanto stiamo dicendo non riguarda la natura innata del blog, che rimane uno strumento neutro, ma riguarda chi ne fa uso, cioè l’uso che ne fanno Scrittori e bloggers, i quali, in un blog rivelano, meglio che in qualunque altra sede, le loro intenzioni e mettono a nudo i loro comportamenti, purtroppo sempre ispirati alla difesa dell’interesse privato o corporativo. (Qui parliamo genericamente dei blog, ma forse l’analisi che facciamo è estensibile anche ad altre analoghe situazioni internettiane “libere”, come i forum, alcune mailing list, le chat, etc)

Ma se partecipare ad un blog risulta essere improduttivo e una vera e propria perdita di tempo, che cosa induce allora l’individuo a cimentarsi in un blog? Probabilmente ha ragione Hèlena Janeczek quando afferma che la società dell’immagine è la vera responsabile di quest’uso distorto del blog. Nel “blog collettivo” di Nazione Indiana, ad esempio, lo Scrittore spesso decide di non tacere quando un blogger lo attacca, e decide in tal senso perché deve difendere la propria immagine. Questo, in linea di massima, è vero, ma secondo noi il problema ha radici più profonde e l’analisi non si può fermare qui.

Spesso il blogger è un essere completamente deresponsabilizzato, egli non risponde dinanzi a nessuna legge che non sia quella della sua coscienza; ma non appena per qualunque motivo anch’essa viene meno, come nel caso degli anonimi e dei travestiti, il blogger diventa un irresponsabile, capace di dire (per fortuna non di commettere) ogni infamia. Addirittura egli può facilmente diventare un terrorista della parola, e in tal caso la comunità data reagisce nel solo modo che ritiene possibile, riducendo gli spazi di libertà, o addirittura con la censura.

Con questo non vogliamo demonizzare i bloggers. Tutt’altro. I loro interventi, nelle migliori occasioni, scorrono come un torrente impetuoso e guai a chi, anziché creare degli invasi per raccoglierne le acque, pensa di colmarne l’alveo, credendo con ciò di essersi sbarazzato del torrente. Rimuovere una modalità di scrittura significa non fare i conti con le idee che in quella modalità di scrittura hanno trovato espressione, significa fare come gli struzzi, avere paura di quello che può essere detto (in un blog) e mettere la testa sotto la sabbia. E noi non vogliamo tutto questo. Non accettiamo la superficialità di certi atteggiamenti dei bloggers, ma sappiamo anche che una motivazione reale muove la loro mano sulla tastiera. La superficialità, l’improvvisazione, la polemica gratuita, la digressione fuorviante, rimangono le caratteristiche principali della scrittura (molto postmoderna…) dei bloggers. In questo, quale differenza, ad esempio, rispetto alle scritture frammentarie e incompiute, divaganti ma mai estemporanee, di uno zibaldone di pensieri! La scrittura di uno zibaldone, per quanto rifugga dal finito e dal compiuto, non è mai scarsamente meditata, ma è il frutto, invece, di una diuturna verifica da parte dello scrittore. Al blogger manca la concentrazione necessaria, la solitudine leopardiana, il suo girovagare col pensiero in luoghi vicini e lontani; il blogger è per sua natura portato a interloquire direttamente con altri, a polemizzare, a imporsi agli altri più con la forza delle parole che con quella delle argomentazioni, salvo ripensamenti (anche perché è la natura stessa del mezzo, che si estrinseca in tempo reale, a spingerlo in questa illusoria direzione, che però alla verità fa solo cenno, senza mai rincorrerla per davvero).

Lo Scrittore comunitario (della comunità data, per intenderci) non ha il tempo, pare, per questi ripensamenti. Egli deve scrivere per tutti noi i suoi Libri, in cambio dei quali la società lo ripaga considerandolo appunto uno Scrittore, con uno status più o meno riconosciuto, circondandolo di onori e fama, successo e denaro (in qualche caso). Il blogger, invece, è spesso uno sconosciuto; di fatto, nessuno lo riconosce, a lui nessuno ha mai assegnato uno status sociale né gli ha donato nulla ed anzi molti vorrebbero sbarazzarsi di lui, che è sempre fin troppo versato nella polemica. Il blogger è spesso un lettore-scrittore insoddisfatto, nel senso che non è pago di ciò che legge nelle pagine commentate; gli Autori, i Libri, non lo soddisfano, e vorrebbe dire la sua, perché così facendo ritiene di poter ristabilire la verità, senza contare, invece, che non fa altro che imporre un’opinione del tutto confutabile e parziale. Ma il blogger fa di più: con il suo tono che rifugge sempre da un aperto confronto, e che perlopiù ignora le tesi dell’altro, ribalta la gerarchia del rapporto autore-commentatore, presumendo di divenire lui stesso Autore del tutto indipendente dal testo che avrebbe dovuto commentare. Quando si dice che in un blog ciascuno procede “a ruota libera” o si “diverte” si allude proprio a questa prassi consolidata e irrefrenabile, a questo essere “immune” del blogger. Cosicché, alla fine, il blogger ricade nello stesso errore che rimprovera allo Scrittore, l’errore di difendere il proprio orticello contro l’invadenza degli altri. Il blogger e lo Scrittore sono due facce della stessa medaglia costituita dall’individuo “immune” della società data.

Il problema vero, allora, si situa oltre questa differenza-identità tra Scrittore di una comunità data e blogger, e si pone in questi termini: non sarebbe il caso di analizzare la figura dello Scrittore comunitario così come opera nella nostra società, e sottoporla a critica, non certo per metterla alla gogna, ma per capire quale sia il suo status e il suo ruolo, oggi, all’interno della comunità data? Non sarebbe il caso di capire a quali compromessi lo Scrittore si sottopone per mantenere il suo ruolo, che cosa egli fa (o non fa), che cosa egli dice (o non dice) perché il suo status non sia posto in discussione?

Non basta, perché queste domande ne portano con sé un’altra: se è dello Scrittore comunitario (della comunità data) che occorre parlare, non sarebbe il caso di interrogarsi non solo su quale sia la comunità odierna, sui suoi meccanismi, sulle attese che essa ripone nello Scrittore e su quanto essa in cambio dona allo Scrittore, ma anche di interrogarsi sulla comunità avvenire, chiedendoci quale sia la comunità che noi, con la nostra opera di individui comunitari, vogliamo fondare? Questi nostri discorsi, difatti, hanno il presupposto irrinunciabile che noi non viviamo nel migliore dei mondi possibili, sebbene siamo molto ottimisti sul fatto di poter nel nostro piccolo, a partire dalla nostra circoscritta esperienza, e quindi entro limiti ridottissimi, e tuttavia significativi se raggiunti con la cooperazione degli altri, influire sulla comunità avvenire.

La figura del moderno Scrittore viene allo scoperto e mostra tutti i segni della sua avanzata canizie, quando entra in conflitto col mondo dei bloggers. In Nazione Indiana noi crediamo di aver verificato appunto questo. Improvvisamente, lo Scrittore perde la bussola, non sa più orientarsi, non vede più riconosciuto il suo status e la sua autorità, sente che il suo ruolo cessa di esistere. Lo Scrittore, allora, può reagire in due modi: diventa anche lui un blogger “immune” e deresponsabilizzato, che interviene solo quando viene messo in discussione il suo status comunitario (della comunità data) e quindi interviene per uno scopo del tutto personale o in difesa della corporazione, oppure lo Scrittore si chiude a riccio e si nega ad ogni confronto, preferendo ritmi di discussione e occasioni diverse, in cui tuttavia ci sia sempre la garanzia e la tutela del rapporto comunitario (leggi: della comunità data). Nel primo caso lo Scrittore deresponsabilizzato, mentre cerca di difendere dai bloggers il proprio ruolo di Scrittore, scade al loro stesso livello, diventando anch’egli blogger; nel secondo caso, lo Scrittore si adagia nella comunità data senza minimamente porsi il problema di quale sia il motivo profondo che induce i bloggers ad essere così chiassosi, e così facendo non dà alla comunità avvenire quel contributo che i bloggers sembrano chiedergli.

In tutti e due i casi, sia nel caso dello Scrittore ridotto a blogger sia nel caso dello Scrittore che rifiuta di sporcarsi le mani coi bloggers, il blog, come puro strumento neutro di comunicazione, nel caso di utilizzazione da parte dei letterati, rivela più di quanto nasconda. Rivela l’inadeguatezza dello Scrittore, incapace di inventarsi un ruolo all’altezza della situazione, una funzione che inauguri una terza strada, nella quale i discorsi che egli veicola nella comunità data lascino il posto alla libertà di parola della comunità avvenire, che dovrà essere fondata sulla disposizione di ciascuno all’ascolto dell’altro. Il che nessuna Legge potrà mai imporre, ma solo la nostra coscienza, che per ora sembra inseguire un’utopia, ma intanto prepara e fonda, a partire da questi discorsi, la nuova comunità. Ma se neppure lo Scrittore crede in tutto questo o non ha fiducia nel futuro, allora ben vengano i bloggers terroristi, i travestiti e gli anonimi maldicenti. Noi siamo certi che alla fine nessuna censura li potrà tenere a lungo fuori dalla porta perché i bloggers abitano naturalmente un blog, mentre gli Scrittori, che sono stati chiamati, o si sono autoconvocati, per fondare qualcosa che andasse oltre il blog, alla fine hanno semplicemente peccato come minimo di mancanza di immaginazione.

Quello che noi auspichiamo, pertanto, è ben altro, e consiste in un severo esame di coscienza dello scrittore moderno, che, a partire da queste considerazioni sul suo ruolo, riesca a scoprire nel blog e nelle sue modalità di scrittura, un mezzo di comunicazione letteraria aperto a tutti e nuovo, che, scavalcando ogni mediazione, raggiunga chiunque voglia parteciparvi in tutta libertà. Il blog, ripetiamo, è solo uno strumento nelle mani dell’uomo. Finché esisteranno gli Scrittori gelosi custodi del loro ruolo, più o meno fermi difensori della propria funzione e della propria verità, finché esisterà un testo principale e in subordine una finestra di commento, esisteranno i bloggers pronti al travestimento, all’anonimato, all’insidia, al tranello, alla menzogna, pronti a ribaltare ogni gerarchia e a farsi autori a loro volta; e saranno la cattiva coscienza degli Scrittori, che accompagneranno notte e giorno come un indecifrabile senso di colpa. Forse è un’utopia che questa ricomposizione tra Scrittori e bloggers (leggi: lettori…) avvenga in futuro, ma è un’utopia per la quale vale la pena di lottare e di operare, ognuno nel suo piccolo: il blogger, continuando a essere se stesso, e lo scrittore immaginandosi qualcosa di diverso dai ruoli in cui il suo personaggio lo blocca. Mentre il blogger, infatti, non potrà mai essere quello che non è oppure immaginarsi una comunità avvenire, in quanto egli vive solo nell’attimo del tempo reale dei suoi “post”, lo Scrittore, invece, deve sforzarsi di togliersi di dosso la sua S maiuscola, deponendo ai piedi della comunità avvenire quella che credeva essere la sua Verità”.

*
Replica al nostro testo Tiziano Scarpa, l’8 novembre, con uno scritto dal titolo Il pianeta dei fantablog, che riportiamo integralmente:

“Nel racconto di fantascienza intitolato Scrittori e bloggers pubblicato qualche giorno fa su Nazione Indiana, Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio immaginano un universo parallelo dove gli “Scrittori” gestiscono tirannici siti informatici. In questi siti, una casta inferiore denominata “blogger” è confinata a intervenire nelle finestre dei commenti. Chi pensava che oggi in Italia esistessero decine di migliaia di blog, chi credeva che chiunque potesse aprire un blog per scriverci dentro (in home page, non solo nelle finestrelle) ciò che vuole come gli pare e piace, leggendo la fiction di De Vivo e Virgilio prova una buffa sensazione di stupore e straniamento.

1. ETIMOLOGIA E SIGNIFICATO

Il racconto di De Vivo e Virgilio inizia con una definizione definitiva di ciò che è comunità. È la prima invenzione totalitaria della loro fiction. Non perché l’etimologia di munus sia errata. No. Il grave errore concettuale consiste nel fatto che l’etimologia viene confusa con il significato. Ciò che la parola significava un tempo, in tutt’altro ambiente, in una società infinitamente diversa dalla nostra, nella finzione di De Vivo e Virgilio diventa ciò che dovrebbe essere per forza, oggi e in futuro, la “comunità”, il nostro modo di stare insieme ora e per sempre.

Che succederebbe se le cose stessero come De Vivo e Virgilio vogliono farci credere? Che cosa significherebbero le parole, se coincidessero con i loro etimi? Di cosa parleremmo se le lingue avessero bloccato una volta per tutte l’evoluzione dei significati? La parola testa significherebbe ancora “guscio di tartaruga”; il divano sarebbe un “consiglio di stato”; e il matrimonio indicherebbe una faccenda che riguarda innanzitutto la “madre” e non già la coppia di sposi. Giocare con gli etimi (per spacciare ideologia) fa molto chic, innesca la possibilità di ricamare tutta una serie di paralogismi pseudofilosofici: la “comunità”, gli “immuni”… Deduzioni e ragionamenti che potrebbero risultare anche spiritosi, se non fossero terrificanti, perché totalitari. A differenza di De Vivo e Virgilio, io so che le parole sono vive: le parole tendono a oltrepassare se stesse, si sporgono lentamente ma inesorabilmente verso significati ancora inediti, e non accetterò mai che un giochetto etimologico le congeli in un dover-significare dato una volta per tutte.

2. LA CERTEZZA DELLA VERITÀ

Un’altra invenzione che ho trovato divertente è questa: “La VERITÀ, non esiste, certo”. Mi ha divertito la disinvoltura con cui questa asserzione viene data per scontata. Quel “certo” così sicuro di sé, messo giù appena dopo aver detto che la verità non esiste… Le abbiamo già viste mille volte queste goffaggini: il fondamentalismo degli anti-fondamentalisti… l’autocontraddizione di chi incappa nel solito paradosso: ‘la verità è che non esiste la verità’… Eppure è una gag che funziona sempre! Fa sempre ridere veder scivolare sulle bucce di banana.

3. LA MACCHINA DEL TEMPO DISTRUTTRICE

L’ascolto dell’altro, in chiunque scrive, consiste innanzitutto nell’ascoltare il linguaggio.

 

 L'immagine è le lettera "F" della serie Frammentato abbecedario di un viaggio, di Raffaella Garavini.

L’immagine è le lettera “F” della serie Frammentato abbecedario di un viaggio, di Raffaella Garavini.

Il linguaggio contiene già l’altro: chiunque abbia appena un po’ di consapevolezza della scrittura ne ha fatto esperienza, e queste prediche saputelle sulla disposizione ad ascoltare gli altri mi fanno ribrezzo. Soprattutto da chi ha appena sancito che qualsiasi blog, per la sua stessa struttura, non può portare a niente di buono, e che dunque non vale la pena ascoltarlo. Capito? Vorrei sottolineare questo punto. De Vivo e Virgilio ci vengono a dire che si sono “fatti l’idea” che qualsiasi blog non potrà mai portare niente di buono. Quindi smettiamola tutti con queste inutili perdite di tempo. Chiudiamo tutti i blog. Non abbiamo nulla da dire, né da dare, a De Vivo e Virgilio. Fermiamo tutto, e ripresentiamoci soltanto quando avremo realizzato la “comunità a venire”. Vietiamo il presente. Saliamo nella macchina del tempo, traslochiamo tutti nel futuro. Adesso, in home page o nella finestra dei commenti, stiamo scrivendo irrimediabilmente un blog, quindi loro due non ci ascolteranno. Non siamo niente per loro. Ci hanno aboliti in partenza. Tutte le decine di migliaia di blog esistenti in Italia non possono offrire niente che a loro interessi.

4. LA MOSCA BIANCA

Uno dei protagonisti della fiction di De Vivo e Virgilio è il blog Nazione Indiana. In esso, secondo i nostri due autori, “sono possibili finzioni, travestimenti, anonimato”. Nel resto della rete, o web, o internet che dir si voglia, come tutti sanno, invece, ciò non è possibile…

5. GLI PSEUDONIMI SFIATATI

In Nazione Indiana, soprattutto Carla Benedetti ha già riflettuto a fondo sul fatto che gli pseudonimi indeboliscono la forza del discorso, lo deresponsabilizzano. De Vivo e Virgilio evidentemente non hanno seguito quel dibattito. E hanno fatto bene, perché in Nazione Indiana, in quanto blog, secondo il loro ragionamento non può esserci niente che preluda alla loro “comunità a venire”, quindi a loro non interessa quello che c’è scritto qui dentro…

6. ARGOMENTI E NO

Secondo De Vivo e Virgilio, se in un blog “intervenisse un Grande Scrittore, la sua voce avrebbe lo stesso tono rispetto a quella di Pincopallino e così gli argomenti che il Grande Scrittore porterebbe, ove fossero discussi, avrebbero la stessa mancanza di autorità di quelli della signora Vattelapesca. In un blog tutte le vacche sono grigie. ” Ma che fesseria è mai questa? Se sono buoni argomenti, gli argomenti del grande scrittore o della signora Vattelapesca o di Pinco Pallino sono buoni argomenti e basta. Se poi De Vivo e Virgilio non sanno distinguere un argomento autorevole da uno mediocre solo perché tutti e due sono pubblicati democraticamente nello stesso posto, peggio per loro. La volontà appiattente, totalitaria (tutti i blog sono sbagliati… tutti gli argomenti discussi nei blog sono senza autorità… tutte le vacche sono grigie…) di De Vivo e Virgilio fa virare le loro spiritosaggini nella classica utopia negativa da incubo, dove i dittatori dettano i significati ultimi delle parole, ci tagliano via in partenza ogni possibilità che loro ritengono “sbagliata” avendo già compreso per tutti noi ciò che è bene e ciò che male: naturalmente i dittatori lo fanno per il nostro meglio…

7. ERROR 404

De Vivo e Virgilio rimproverano agli scrittori di difendere il loro interesse corporativo. Che sito hanno visitato? In Nazione Indiana scrivono registi di teatro e di cinema, scienziati, romanzieri, poeti, critici, studiosi, editori, gente che pubblica libri e gente che non ne ha mai pubblicato uno. Che cos’è uno “Scrittore”, nella fiction di De Vivo e Virgilio? Un romanziere? Un intellettuale? Un critico? Uno studioso? Un poeta? Chi pubblica i suoi testi in home page?

8. ENTIA NON SUNT MULTIPLICANDA

Ma la vera finzione fondamentale di De Vivo e Virgilio, è quella di separare scrittori e blogger. Come se oggi non fosse possibile a tutti aprire un blog. Che separazione artificiale è mai questa?

Nazione Indiana è uno delle migliaia di blog esistenti. È anche uno dei non molti blog collettivi che ci sono in giro. Se dentro vengono pubblicate cose buone o no, lo giudicherà chi ha voglia di leggerle. Noi non abbiamo un counter, che sarebbe quell’aggeggino che conta quanti visitatori entrano nel sito: non lo vogliamo, perché quelle sì sono logiche da società dell’immagine. Non ci interessa contare la nostra audience.

9. CREDERE IN CIÒ CHE SI FA

Secondo De Vivo e Virgilio, in Nazione Indiana gli scrittori decidono di intervenire per “difendere la propria immagine”. De Vivo e Virgilio si dimenticano che gli interventi di Nazione Indiana sono innanzitutto i pezzi che pubblichiamo in home page. Dico innanzitutto non perché li ritenga migliori delle riflessioni che appaiono nelle finestre di commento. Ma semplicemente perché gli interventi in home page sono quelli che generalmente ci costano più tempo: tempo di studio, riflessione e scrittura. Se poi qualcuno a volte sostiene una falsità o un’inesattezza nella finestra dei commenti, ribattere alle falsità e alle inesattezze è un atto d’amore per la verità. Ma De Vivo e Virgilio leggono tutto in termine di immagine. Evidentemente non riescono a pensare che al mondo ci sia qualcuno che crede in ciò che fa, e che quindi ci tenga a difendere ciò che fa: per loro è tutto “immagine”.

10. MARGARITAS AD PORCOS

La fiction di De Vivo e Virgilio abolisce, di Nazione Indiana, tutti gli interventi in home page. Non ne tiene conto. Come se questo sito fosse fatto solo dalle finestre dei commenti, e non, anche, dagli interventi nostri e altrui che ci sforziamo di scrivere e pubblicare. I personaggi che De Vivo e Virgilio si sono inventati, e che loro chiamano “Scrittori”, impiegherebbero il loro tempo solo a difendere la propria immagine nella finestra dei commenti. Le decine e decine di interventi in home page (saggi, recensioni, articoli, racconti, poesie, appelli…) che abbiamo pubblicato in questi mesi, per un totale di parecchie centinaia di pagine, per De Vivo e Virgilio sono nulla.

11. PREDICARE MALE E RAZZOLARE PEGGIO

Poi c’è la solita scenetta populista, l’ammicco alla moltitudine, lo sparare benevolenza nel mucchio (tanto qualcuno lo si becca sempre): “Con questo non vogliamo demonizzare i bloggers. Tutt’altro. I loro interventi, nelle migliori occasioni, scorrono come un torrente impetuoso e guai a chi, anziché creare degli invasi per raccoglierne le acque, pensa di colmarne l’alveo, credendo con ciò di essersi sbarazzato del torrente.” Peccato che De Vivo e Virgilio abbiano trovato come risolvere la questione proprio rimuovendo dal loro sito qualsiasi finestra di commento libero e non censurato. In Nazione Indiana, come in qualsiasi blog, chiunque può venire qui a scrivere ciò che vuole.

12. OH COME SIAMO BRAVI

Nei brani più spassosi del loro racconto, De Vivo e Virgilio riescono anche a sbrodolarsi lodi addosso, elogiando il termine zibaldone che si sono scelti come nome del loro sito. Peccato che qualunque blog (e naturalmente anche Nazione Indiana) sia uno zibaldone: gli interventi pubblicati in home page, se letti uno dopo l’altro nel loro ordine cronologico, darebbero il senso di una libera sequenza di pensieri, riflessioni non consequenziali una rispetto all’altra, eppure complessivamente coese in un ambito di interessi comuni: uno zibaldone, appunto.

Semmai, a essere assai poco “zibaldone” è proprio il sito zibaldoni.it, che per la sua stessa formula editoriale non permette lo stratificarsi cronologico gioioso, eruttivo, anche anarchico dei temi. Zibaldoni.it è una rivista vecchio stile pubblicata in rete, con un filtro redazionale chiuso, che esce periodicamente, proprio come le riviste su carta: ripropone su un mezzo infinitamente più duttile, come il web, modalità tecnologiche e comunicative vecchie (ma non per questo sorpassate o da buttare, sia chiaro, lo dico senza la minima ironia). Zibaldoni.it perpetua in rete le vecchie gerarchie tradizionali tra autore e lettore; gerarchie che la rete ha superato. Zibaloni.it conserva alcune caratteristiche delle riviste su carta: per esempio, quella di impedire ai suoi lettori di dire la loro senza filtri, come invece accade in qualunque blog (compreso questo).

13. FARE LA MORALE CON I TAPPI NELLE ORECCHIE

Sono d’accordo con De Vivo e Virgilio: “Rimuovere una modalità di scrittura significa non fare i conti con le idee che in quella modalità di scrittura hanno trovato espressione, significa fare come gli struzzi, avere paura di quello che può essere detto (in un blog) e mettere la testa sotto la sabbia.” Giusto. Peccato per la frase successiva: “E noi non vogliamo tutto questo.” Ma sì che De Vivo e Virgilio lo vogliono, dài! In zibaldioni.it nessuno può lasciare scritto alcunché, nulla che possa venire immediatamente condiviso dalla comunità, presente o a venire che sia. Siccome De Vivo e Virgilio hanno deciso che tutti quanti noi, centinaia di migliaia di persone che scrivono in rete, siamo una non-comunità, non ci permettono di dire liberamente la nostra nel loro sito. In zibaldoni.it sì che ci sono “Scrittori”, gli Scrittori di fantascienza De Vivo e Virgilio, che hanno “paura di ciò che può essere detto”. E i lettori di zibaldoni.it? Zitti! Silenzio!

14. IL PERSONAGGIO SOTTO LO SCHIACCIASASSI DEI CARTOON

Il ritratto dello scrittore che fanno De Vivo e Virgilio è esilarante. È uno di quei personaggi che Edward M. Forster definiva piatti, bidimensionali. Poco o per nulla verosimili, non vengono mai rappresentati a tutto tondo. Sono personaggi caricaturali: eppure risultano necessari, servono a far andare avanti la trama. Senza questo personaggio bidimensionale, il racconto di De Vivo e Virgilio non starebbe in piedi. Vediamo come lo ritraggono: “Egli deve scrivere per tutti noi i suoi Libri, in cambio dei quali la società lo ripaga considerandolo appunto uno Scrittore, con uno status più o meno riconosciuto, circondandolo di onori e fama, successo e denaro”. Una specie di casta aristocratica, insomma.

Lo “Scrittore” di De Vivo e Virgilio non è una persona che ha una vocazione, una passione, non è uno che scrive fin dall’infanzia, dall’adolescenza, ogni giorno, appassionatamente. Non è uno che ha fatto una scelta di vita e ne ha affrontate tutte le conseguenze, coltivando la sua passione per decenni, fino a conquistare con enorme fatica la possibilità di pubblicare. Non è nemmeno un cittadino qualunque, lo “Scrittore” di De Vivo e Virgilio, non è uno che tutti possiamo diventare scrivendo per la prima volta qualcosa di bello e vero, a quindici o a novantacinque anni. Macché. Lo “Scrittore” di De Vivo e Virgilio è una caricatura, con tanto di sarcastica lettera maiuscola. È un alieno piovuto dal cielo, è un arciduca che è stato investito dal re…

Gli scrittori, tutti gli scrittori che conosco io, sono persone che vivono in appartamenti modesti, talvolta in catapecchie: eppure sono le persone più felici del mondo, sì, anche quando sono le più disperate, perché stanno tenendo fede alla loro vocazione. Gli scrittori, tutti gli scrittori che conosco io, sono persone che leggono gratis decine di manoscritti di sconosciuti, ai quali non debbono nulla, offrendo continuamente il “munus” (dono/incarico) di leggere la parola altrui, di ascoltarla, aiutando gli autori inediti a pubblicare, ossia a rendere pubblica e comunitaria una cosa bella, e vera…

Macché. Lo “Scrittore” di De Vivo e Virgilio è una macchietta circondata di onori e fama, successo e denaro…

15. I CASI DELLA VITA

Onori e fama, successo e denaro… “(in qualche caso)”, precisano sommessamente, fra parentesi.

In qualche caso?

Ma che razza di precisazione è? E in tutti gli altri casi? La frase di De Vivo e Virgilio si sgonfia catastroficamente da sola, con un effetto comico irresistibile. Se è solo “in qualche caso” che ciò accade, allora com’è che in tutti gli altri casi gli scrittori continuano a scrivere senza fama, senza onori, senza successo né denaro? Vuoi vedere che si tratta anche di passione, vocazione, ispirazione, gioia? Vuoi vedere che è anche una questione di arte? Forse a De Vivo e Virgilio sfugge l’esistenza di questa cosa che si chiama arte. Nel loro universo parallelo tutto è onori, fama, successo, denaro.

Sto esagerando? Allora leggete questa. È una notizia del 27 dicembre 2000:

Tiziano Sclavi, il padre di Dylan Dog, ha pubblicamente affermato, durante un’intervista rilasciata a Daniele Bertusi, di non voler più scrivere romanzi: “troppa fatica, niente soldi e niente fama“. (da www.alice.it/news/news/n20001227.htm)

Faccio notare che Tiziano Sclavi, forte del successo di Dylan Dog e della popolarità di cui gode (e quindi di un pubblico potenziale di lettori molto numeroso), avrà ricevuto dall’editore dei suoi romanzi una cifra (il cosiddetto “anticipo sui diritti d’autore”) altissima rispetto a ciò che viene dato a un normale autore di narrativa. E nonostante ciò, Sclavi ha sintetizzato queste cifre con l’espressione “niente soldi”. Checché ne pensino i due autori di fantascienza caricaturale De Vivo e Virgilio, ci sono centinaia, migliaia di scrittori che continuano a scrivere in assenza di soldi e fama, e con parecchia fatica (e tanta gioia, aggiungo io).

16. GNORRI

Tutto il pasticcio della confusione di ruoli fra “autore” e “blogger” che De Vivo e Virgilio credono di individuare, deriva da un madornale travisamento: ai due sfugge che al giorno d’oggi chiunque può aprire un blog, chiunque può essere contemporaneamente commentatore e autore: discutere con gli altri nelle finestre dei commenti dei siti altrui, o proporre un suo intervento, in home page, dentro il blog registrato a suo nome (o a suo pseudonimo, come meglio desidera…). La cosa è sfuggita a tal punto, a De Vivo e Virgilio, che lo stesso sito zibaldoni.it non tiene conto di questa importantissima democratizzazione della scrittura, e continua a proporre la formula aristocratica del “noi Scrittori De Vivo e Virgilio facciamo la rivista, voi leggete e zitti”.

17. MANDANTI CORAGGIOSI

La frase seguente mi fa ridere di meno: “Ma se neppure lo Scrittore crede in tutto questo o non ha fiducia nel futuro, allora ben vengano i bloggers terroristi, i travestiti e gli anonimi maldicenti.” È una frase farabutta. Dice: se gli scrittori non fanno quello che diciamo noi De Vivo e Virgilio, ovvero se non fondano la nuova comunità (intendendola come la intendiamo noi due), allora sputategli in faccia, fate bene! È una frase vigliacca. Da mandante codardo: il peggio che ci sia. Incita alla cattiveria e alla violenza. La giustifica. Dunque tutte le offese che vengono scritte in rete nei blog, dentro le finestre dei commenti, hanno l’approvazione di De Vivo e Virgilio. I quali non hanno il nerbo di offendere a chiare lettere, ma mandano avanti gli altri e si compiacciono che ciò accada.

Io credo talmente nel futuro da devolvere al futuro il mio presente. Tanto per dirne una, scrivo gratis su questo sito, sebbene le mie parole, sul mercato, verrebbero ricompensate con una decorosa quantità di denaro. Non sono certo l’unico. Siamo centinaia di migliaia a farlo. Ciò che offrono i blogger (tutti i blogger) alla comunità è informazione, riflessione, racconto: scrittura. Offrono lavoro gratis. Doni, incarichi. Munus, munera…

18. IL PRESENTE

Ma, alla fine, dopo aver squalificato tutti i blog della rete e aver messo in dubbio il valore di “forum, alcune mailing list, le chat, etc.”, che cosa vogliono De Vivo e Virgilio? “Quello che noi auspichiamo, pertanto, è ben altro, e consiste in un severo esame di coscienza dello scrittore moderno, che, a partire da queste considerazioni sul suo ruolo, riesca a scoprire nel blog e nelle sue modalità di scrittura, un mezzo di comunicazione letteraria aperto a tutti e nuovo, che, scavalcando ogni mediazione, raggiunga chiunque voglia parteciparvi in tutta libertà.” Forse, nel loro auspicare ossessivamente il futuro, De Vivo e Virgilio hanno tenuto gli occhi ben chiusi davanti al presente. Grazie al mezzo tecnico del blog, tutti oggi possono scrivere in rete, sia come autori di interventi in home page, sia come autori di commenti nelle finestre dei blog altrui: vale a dire, tutti possono essere scrittori e commentatori. Ciò che auspicano i due utopisti del futuro, nella realtà è presente in atto.

19. “BLOGGER”

Nell’universo parallelo di De Vivo e Virgilio, viene chiamato “blogger” solo chi posta commenti nelle finestre. I nostri due Scrittori De Vivo e Virgilio non hanno ancora capito che il blogger è, invece, chiunque tiene un blog, chiunque ha registrato un sito a sistema editoriale aperto (scusate le parafrasi petulanti, ma bisogna spiegarglielo bene), ossia tutti coloro (in Italia sono decine di migliaia) che hanno aperto un sito grazie a uno di quei sistemi editoriali offerti gratis in rete da Splinder, Clarence, Virgilio, Tiscali, ecc.

20. È LA RETE, BABY

“Finché esisterà un testo principale e in subordine una finestra di commento…” è una battuta surreale. Mi ha fatto veramente molto ridere la tecnica umoristica con cui i due autori fingono, fantascientificamente, che nei blog esista un’aristocrazia di autori che possiede il testo principale, e una casta di autori-paria che scrive nella finestra dei commenti. De Vivo e Virgilio dimenticano o fanno finta di dimenticare che, essendo possibile per tutti aprire gratis un blog in pochi minuti, senza saperne nulla di programmazione informatica, pubblicando ciò che si vuole nelle finestre principali, la discriminazione fra home page e finestra dei commenti non esiste. Chiunque può segnalare nella finestra dei commenti un intervento (suo o altrui) pubblicato nella home page di un altro blog, mettendo un link per arrivarci in un baleno e leggerlo con agio. È la rete, ragazzi: nodi, connessioni, passaggi, finestre che si aprono, gente che dialoga e che non è soltanto capace di offendere e denigrare… Succede da anni, e negli ultimi tempi è alla portata di moltissimi.

Lo so, sono cose risapute, e quel che è più grave è che mi sto ripetendo troppo.

Ma vorrei farglielo entrare bene in zucca.

Che almeno questo intervento porti un piccolo contributo alla “comunità a venire”: che almeno, in futuro, De Vivo e Virgilio sappiano di cosa stanno parlando”.

*
Rispondiamo a Scarpa il 10 novembre con un testo dal titolo Scarpa l’immune, ovvero della comunità avvenire, in cui ribadiamo la nostra posizione e precisiamo i termini di alcune questioni. Riportiamo per intero il pezzo:

“1. PREMESSA

Non è facile accettare di entrare in dibattito con chi tende a fare ironia sui tuoi discorsi, con chi prima ha accolto e pubblicato le tue idee e poi le ha derise, quindi le ha accolte e pubblicate per deriderle. La categoria dell'”ironia” – lo abbiamo imparato da Carla Benedetti – è oggi l’arma preferita da chi deve ‘depotenziare’ l’interlocutore quando lo vede come un avversario. Tiziano Scarpa nel suo pezzo Il pianeta dei fantablog fa appunto dell’ironia gratuita, tentando di sminuire le nostre idee attraverso l’invenzione del discorso sui fantablog e altre “cose divertenti”. E questo non facilita chi, come noi, è convinto e certo della ‘potenza’ delle proprie idee, e perciò non accetta che esse vengano messe alla berlina da chicchessia. Cosa fare, allora? Rispondere, già lo sappiamo, servirà soltanto a innescare in NI interventi se possibile ancor più aggressivi; ma è certo che non possiamo tacere, ora che uno dei redattori di NI sembra aver rotto quella che sembrava essere una vera e propria congiura del silenzio. In effetti, il lettore deve sapere che questa discussione ha avuto origine nel luglio scorso, quando noi abbiamo sollevato sulle colonne di NI il problema del ruolo dello scrittore (anche registi, pittori e musicisti quando scrivono sono scrittori) in questa società e quello della ‘comunità avvenire’, ricevendo un’attenzione distratta e superficiale da parte di qualche redattore (Antonio Moresco, per esempio, in quell’occasione, sottovalutò e distorse le nostre tesi), ma moltissime attenzioni da parte dei lettori. Tiziano Scarpa, allora, aveva taciuto, ed anzi aveva provveduto ad oscurare le finestre di commento ai suoi pezzi per non dare adito ad alcuna discussione.

2. LEOPARDI, PENSACI TU!

L’articolo di Scarpa ha il merito, ora, di fare chiarezza sulla sua posizione relativa alle tante questioni che da alcuni mesi in qua sono state oggetto di dibattito. La nostra prima impressione è stata che Scarpa si sia deciso, non potendone più, a mettere da parte la regola del silenzio che si era imposto e a gettare le carte in tavola, quelle che ha in mano. Che delusione! Ci aspettavamo chissà quale argomentazione critica, un ragionamento fondato, un’idea che contribuisse al dibattito in corso, e invece, niente, solo un soprassalto di mal contenuto risentimento, che gli impedisce di articolare un discorso in forma compiuta, ma è sufficiente a fargli esprimere la sua acrimonia in forma smozzicata, spastica, ripetitiva, con poche parvenze di idee che si vanno spegnendo verso la fine del lungo e noioso pezzo, un vero e proprio sproloquio contro il nostro scritto dal titolo Scrittori e bloggers, apparso recentemente su NI per iniziativa di Dario Voltolini. E che cosa dice Scarpa, per cominciare? Che noi, coi nostri richiami etimologici, abbiamo perso di vista l’attualità della lingua, il significato che oggi le parole hanno, ben diverso da quello del passato. Ora, che uno scrittore di qualche grido, qual è Scarpa, non sappia che “le parole sono vive” perché hanno una lunga storia e che l’etimo non è affatto la loro parte morta, ma è ciò che le tiene in vita e costituisce il loro fascino antico (Leopardi, pensaci tu!), beh, questo ci dà molto da pensare sulla stoffa del nostro interlocutore, sulla sua, come dire, mancanza di riflessione linguistica. Ma passi. Sennonché, un’altra questione subito è posta da Scarpa, quella riguardante la comunità e il modo in cui noi la consideriamo. L’uso di aggettivi come “terrificanti” e “totalitari” riferiti ai nostri ragionamenti, ci induce a credere che Scarpa ci attribuisca l’idea di una comunità avvenire sul modello di quella staliniana, in cui la verità è quella stabilita in alto loco e tutti debbono adeguarsi. Possibile che in NI circoli ancora questo comodo equivoco? Quale idea si è fatto di noi Scarpa? È bene forse chiarire (per l’ennesima volta…) la questione. La nostra idea di comunità è talmente aperta e priva di ogni connotazione “totalitaria” e, quindi, “terrificante”, che noi, proiettando nel futuro la costruzione di essa, siamo aperti a qualsiasi contributo provenga dall’esterno, purché sia un contributo attivo e positivo, che si collochi già da ora in una dimensione comunitaria. Escludiamo dal nostro sito, per esempio, tutti coloro che vogliono farsi pubblicità, o coloro che prendono la penna in mano per ricamare intorno alla propria persona con esercizi solipsistici, che ci disgustano; escludiamo gli incapaci e i vanesi, gli arroganti e i violenti, coloro che ammiccano al “pubblico” e in genere tutti quelli che scrivono per avere un tornaconto immediato. Questo è il nostro lavoro e questa è la nostra idea di ‘comunità avvenire’, così come già da ora noi stiamo contribuendo ad edificare. Cosa c’è in tutto questo di “totalitario”? Il fatto che siamo noi a decidere? Ma certo! E se non noi, soggetti attivi della pratica letteraria, chi dovrebbe farlo? Un editore, un giornalista, un “mediatore culturale”? Noi ci assumiamo la responsabilità delle nostre scelte, mettendo nel conto la possibilità di sbagliare, ma ben sapendo che questa è la nostra sola possibilità, perduta la quale si apre la prospettiva di adeguarsi al presente, all’attuale sistema letterario che ti compra e ti vende come gli pare e piace, che, invece, noi combattiamo. Ecco, questa idea di comunità è per Scarpa un’idea totalitaria, mentre per noi è vero l’opposto, essendo le nostre scelte letterarie indirizzate contro il moderno totalitarismo, presente e operante in modo subdolo, più o meno nascosto, nelle case editrici e nelle cricche letterarie.

3. IL NOSTRO LAVORO

Quando abbiamo cominciato ad allestire la nostra rivista, abbiamo cominciato proprio col mettere insieme i cocci di una comunità bistrattata, dispersa e confusa nella comunità data dal mercato e dai mediatori. Ci scambiavamo tra amici idee, libri, testi di ogni tipo, e trovavamo che libri bellissimi non riuscivano a vedere la luce perché il mercato editoriale opponeva una ferrea resistenza a tutto quanto non concorda con i suoi fini meramente utilitaristici. Abbiamo pensato che tutto questo non era giusto, che avevamo il dovere di provare a fare qualcosa che ripristinasse la giustizia, ossia le condizioni per cui una comunità seria e responsabile di lettori e scrittori giudica i libri che legge in assoluta autonomia e decide, perciò, di conseguenza.

 

 L'immagine è le lettera "G" della serie Frammentato abbecedario di un viaggio, di Raffaella Garavini.

L’immagine è le lettera “G” della serie Frammentato abbecedario di un viaggio, di Raffaella Garavini.

Per fare questo, tutti capiscono che la prima cosa da fare è stata deporre la S maiuscola di Scrittore o aspirante tale, ossia quella S che ancora lega al mercato, e quindi mettere in comune con gli altri non solo il proprio lavoro, ma anche la propria capacità di dibattito, propositiva, ideale. Tutte le persone che ci contattano non hanno con noi alcun rapporto “professionale”, ma solo un rapporto amichevole ed eticamente ineccepibile. Ad ognuno, noi proponiamo di collaborare attivamente al nostro progetto, non solo con scritti, ma anche con idee. Discutiamo ogni cosa, anche le minime scelte di correzione o emendamento. Cerchiamo una solidarietà che vada al di là della letteratura, pur mantenendola come orizzonte fisso e ideale. Se proprio dobbiamo dirla tutta, non ci interessa tanto “l’aspetto letterario” di ciò che scrivono gli scrittori, ci interessa piuttosto stare a pensare e immaginare insieme ad essi un mondo diverso da questo, in cui si parla e si argomenta, e la verità, anche se a piccoli passi, è sempre raggiungibile. La forma letteraria, il genere, i discorsi teorici e, peggio ancora, tecnici, ci ammorbano e ci distaccano dalla felicità, che rincorriamo ogni momento, di poter capire qualcosa di quello che ci accade intorno grazie a ciò che scrivono gli uomini e le donne che si accompagnano a noi sul nostro stesso cammino.

Di chi “sa” scrivere, pertanto, noi ci facciamo un baffo. Per noi chi “sa” scrivere, chi “sa” qualsiasi cosa è un uomo finito, morto. Noi cerchiamo chi, come noi, “non sa” niente di quello che fa, ma ricerca incessantemente una via e il modo giusto per farlo. Abbiamo pubblicato nel primo numero un testo straordinario di Domenico Chiummiento, un semianalfabeta di Potenza, dal titolo “Il terremoto e la scienza”. Per noi in quel libro c’è più verità che in migliaia di volumi di esperti perché c’è lo sforzo di capire qualcosa scrivendo da parte di un uomo che sente la necessità, come un santo sente le stimmate, di scrivere. La “necessità di capire” non è la “necessità di esibirsi” dei bloggers e nemmeno la necessità di difendere il proprio status da parte degli Scrittori.

Ma Scarpa non può capire queste cose, perché le nostre parole egli le accoglie con “ribrezzo”, quel “ribrezzo” che un tempo si riservava agli appestati e ai lebbrosi. Per Scarpa vi è solo il presente della comunità data, dove egli sa di giocare in casa e che ora deve difendere a spada tratta.

4. IL BLOGGER, EMBLEMA POSTMODERNO

Abbiamo letto con molto interesse gli articoli (e non solo) di Carla Benedetti, che troviamo sempre molto lucidi e penetranti, e ci dispiace molto che essi non abbiano insegnato nulla a Scarpa. Eppure lui li invoca contro di noi, come se noi non avessimo affermato, sulla scorta di Benedetti, che i bloggers (tutti i bloggers di tutti i blog, non solo quello di NI) sono deresponsabilizzati in quanto possono travestirsi, presentarsi in modo anonimo eccetera. Ma abbiamo anche aggiunto che, se ciò accade, la responsabilità è anche del moderno Scrittore, il cui ruolo arcaico motiva la nascita dei bloggers, che ne sono l’altra faccia della medaglia. Per noi, come per tutti, il “blogger” è colui che fa e che scrive in un blog, suo o di altri, individuale o collettivo. Sostanzialmente, il “blogger” è un individuo che di solito fa ricorso all’anonimato e scrive in pubblico, utilizzando una maschera o un bel vestitino autorevole da vip (sono la medesima cosa!). Esempio: il blog di un famoso giornalista tv è lo stesso di un impiegato di Agrigento, solo che, mentre il primo utilizza la sua fama come maschera, il secondo la maschera deve crearsela e, così facendo, si illude di somigliare al famoso giornalista tv – “di avere gli stessi diritti”, direbbero i fautori della moderna democrazia catodico-internettiana. Quando diciamo “maschera” non diciamo necessariamente qualcosa di “falso”, perché anche il semplice fatto di “stare in rete” è una maschera. Anche soltanto l’atto del “mostrarsi” implica l’adesione al teatro dell’apparire moderno o postmoderno. Chi scrive in un blog, chi ha un blog, chi ama il blog, chi lo gestisce è, in poche parole, un perfetto cittadino del nostro mondo moderno: una persona che accetta di mettere in mostra la sua scrittura e, prima ancora, se stesso, al fine effimero di apparire. In questo consiste tutta la superficialità dei bloggers, tutta l’inutilità dei loro flussi scrittorii, tutta la noia di quello che dicono e propongono. Perciò a noi sembra esemplare questa figura che emerge con nettezza dalla rete per indicarci in quale direzione avviare, e contrario, le nostre riflessioni. Dalla figura del blogger abbiamo imparato a distinguerci, e anche per questo motivo l’abbiamo resa iperbolica nel nostro scritto, identificandola con quella di qualsiasi “scrittore di commenti” (anche chi si firma Tiziano Scarpa o Gustavo Paradiso può non essere il vero Tiziano Scarpa o il vero Gustavo Paradiso).

Per prima cosa, dai bloggers ci distingue il fatto che abbiamo imparato a non trattare le cose che scriviamo come pasto ludico per il “pubblico”: per noi la scrittura nasce dalla meditazione e dal lavoro individuale e non può avere mai un approdo spettacolare, cosa che invece i bloggers cercano sempre a tutti i costi; in secondo luogo, abbiamo imparato che quello che scriviamo non è solo un insieme di parole e spazi bianchi, ma innanzitutto è frutto di un rapporto con gli altri che ci stanno intorno: i bloggers scrivono spesso, invece, per iniziativa e per uno scopo individuali, nessuno può mettere in discussione quello che dicono, anzi, quello che dicono può essere solo “commentato” (in subordine, ovviamente, e nel modo che sappiamo). Infine abbiamo imparato a non trattare con superficialità le cose che scriviamo, a soppesare quello che scriviamo e a pensarci e ripensarci anche per settimane, mesi, cosa che i bloggers non fanno mai.

Accomunando lo Scrittore al blogger, abbiamo fatto tutt’altro che una forzatura. Se è vero che il blogger è per antonomasia lo ‘scrittore immunizzato’, che dice ‘io’ non sapendo né potendo dire ‘noi’, è in tutto e per tutto simile allo Scrittore che ora andiamo a descrivere, incapace di scrivere e argomentare se non del “proprio”. Anzi, non c’è alcuna differenza tra uno e l’altro.

5. LO SCRITTORE CON LA “S” MAIUSCOLA

Tutto ciò, a chi avesse voluto leggere con intento dialogante il nostro scritto, sarebbe stato ben chiaro. Invece è evidente che Scarpa andava di fretta ed era animato solo da risentimento nei nostri confronti, e allora noi abbiamo dovuto chiarire. Va bene anche questo. Ma veniamo ora allo Scrittore. Lo Scrittore è… lo Scrittore. Scarpa, a questo proposito, è di una ingenuità disarmante. Noi crediamo sia chiarissimo che quando parliamo di “Scrittore” (con la maiuscola) non ci riferiamo a una figura che ci siamo inventati, ma al vero e proprio tipo standard di scrittore che oggi è facilmente disponibile sul mercato. Tale Scrittore è lo stesso Scrittore che abbiamo visto in azione in NI in diverse occasioni: lo Scrittore che parla quasi solo per difendere il proprio territorio, che parla quasi sempre solo dall’alto e solo degli affari intellettuali suoi, che usa effetti speciali per corrompere il pubblico. Questo è il tipo di Scrittore con il quale noi ce l’abbiamo, e che, infine, possiamo rinvenire anche nel medesimo Scarpa, il cui ultimo intervento è una chicca per gli estimatori del genere standard di Scrittore mercantile, ossia di Scrittore con la maiuscola che si esibisce con la maschera che gli viene fornita dal sistema editoriale che lo definisce e autorizza a dirsi tale. Come si fa, infatti, a dire che uno è Scrittore? Chi lo stabilisce? Ve lo siete mai chiesto? Scarpa, ad esempio, chi lo ha detto che è uno Scrittore? E noi due, qui, siamo Scrittori? Una volta ci è stato risposto da uno Scrittore-mezzo-famoso che lo Scrittore lo stabilisce il mercato. Noi ci mettemmo a ridere, e gli replicammo che secondo noi lo Scrittore lo stabiliscono i lettori, che non sono il mercato. I lettori, come dicevamo sopra, sono una comunità (“avvenire”, per dirla con Nietzsche) seria e responsabile di persone legate da passioni e interessi e competenze, che possono in qualsiasi momento e occasione capire se hanno a che fare con una persona che spara cazzate o dice delle verità. Una tale comunità di lettori è difficile pensarla oggi in maniera piuttosto ampia, anzi a noi sembra piuttosto ristretta, per il semplice fatto che lettori di tal fatta sono sistematicamente castigati dal mercato. Secondo lo Scrittore-mezzo-famoso di cui sopra, infatti, ma, probabilmente, anche secondo la maggioranza delle persone, è il numero delle copie vendute a fare uno Scrittore; quindi Totti, ad esempio, o Faletti sarebbero i massimi scrittori italiani contemporanei. Scarpa che cosa ne pensa? Come mai oggi la comunità seria e responsabile dei lettori non conta un fico secco nel cosiddetto mercato dei libri? I motivi li conosciamo, anche in NI sono stati analizzati, ma non sviscerati fino in fondo. Non è che in questo bailamme qualche colpa ce l’hanno anche gli Scrittori, ci siamo chiesti, ovvero quelle persone che vantano una dignità intellettuale superiore a quella di Totti e Faletti, ma nella pratica si comportano esattamente come loro, cioè come dei venditori, contribuendo in pratica ad annientare anche le ultime vestigia di una comunità di lettori e scrittori seria e responsabile? Per questo abbiamo chiesto allo scrittore moderno di fare un esame di coscienza, per fargli comprendere meglio il suo ruolo nella società contemporanea e indurlo a prendere atto, almeno, delle sue non poche responsabilità. E Scarpa, invece, che cosa fa? Nega la differenza tra scrittori e bloggers (facendo lui sì del populismo gratuito) tra scrittore e commentatore e dice che ce la siamo inventata noi. “Chiunque può aprire un blog, chiunque può essere contemporaneamente commentatore e scrittore”, afferma con una superficialità sorprendente. Fratello caro, credi ancora alle favole? Davvero credi che basti aprire un blog per diventare scrittore? E che sia così facile commentare un testo? È così che intendi il tuo ruolo di scrittore? Come sono ridotte in basso le nostre lettere! E difatti, dov’è che Scarpa pubblica il suo pezzo di commento al nostro intervento Scrittori e bloggers? Nella finestra riservata ai commenti dove infuriano i bloggers? Ma no, che cosa credete, lettori, che lo Scrittore voglia confondersi con i commentatori improvvisati? Semmai andrà (come ha fatto: cfr. commenti al suo articolo) tra il pubblico acclamante con un breve scritto, per distribuire autografi e farsi toccare le vesti. Lo Scrittore pubblica in Home page (padrone di farlo, naturalmente!), e in Home page dice che lui è come un commentatore qualsiasi. Nessuna differenza, signori; perché lui, Scarpa, è democratico, mentre noi siamo aristocratici, noi di ‘zibaldoni.it’. Ebbene, Scarpa si sbaglia, noi non siamo né democratici né aristocratici, siamo leopardiani, se proprio vuole saperlo. Grande Iddio, uno Scrittore almeno dovrebbe aver sentito dire che in letteratura non ci possono essere democratici e aristocratici, perché queste definizioni valgono per la politica, ma non per le lettere. Dobbiamo fare degli esempi? Ma no, per carità, il nostro lettore è sufficientemente colto e non ha bisogno del nostro suggerimento. Però, giacché è saltata fuori la questione, è bene fare qualche precisazione. Tutti devono sapere che la rivista trimestrale “Zibaldoni e altre meraviglie” è, appunto, una rivista e non un blog. La differenza è che in un blog ci scrive chiunque, in una rivista ci scrive chi ha cura di pubblicare quella rivista e tutti coloro che vogliono partecipate a questa impresa collettiva. Ripetiamo, così gli entra nella capa, allo Scarpa: siamo una rivista, non un blog. Lui sa che cosa è un blog? Ebbene, noi non siamo un blog, ma una rivista. Perché vuole acquistare da noi ceci, se noi vendiamo fave?

6. LEGGETE LO ZIBALDONE LEOPARDIANO…

E converso, apprendiamo con grande stupore letterario che NI non è, come si definisce, un blog collettivo, bensì uno zibaldone, almeno nella parte riservata agli Scrittori (l’Home page). Scarpa, naturalmente, tiene ben distinti i commentatori, che non c’entrano per nulla con uno zibaldone, mentre prima aveva detto che non c’è alcuna differenza tra scrittori e commentatori: misteri del populismo! Ma ci pensate, cari lettori, Scarpa senza volerlo ha firmato una sorta di “resa al nemico”, dichiarando che NI è uno zibaldone! Forse non lo sa, ma vorrebbe somigliare a noi. Saremmo tutti molto contenti e appagati, se non ci cogliesse il dubbio che Scarpa non sappia cos’è uno zibaldone. La definizione di zibaldone, di cui diremo più avanti, infatti, non si attaglia molto a NI, dove ognuno pubblica quello che gli pare e, quando succede che qualcuno pubblichi delle cose non condivise (vedi Montanari, quest’estate), ecco che uno prende le distanze (Benedetti), l’altro tace (Scarpa e tutti gli altri), l’altro ancora interviene tirato per i capelli e dice cose non meditate a dovere (Moresco), mentre Montanari deve cavarsela da solo, e ci riesce solo dopo molte mazzate sulla testa ricevute da bloggers e commentatori vari, che non perdonano, e fanno bene. Ognuno, insomma, in NI, dalla propria finestra, e per i fatti suoi, mette in mostra spavaldamente la sua opera o quello che gli pare e piace, senza che si sviluppi mai un discorso comune con chi sta fuori e al di là dei propri gusti e steccati, diminuendo anzi sempre più i margini di qualsiasi dialogo e accrescendo la sindrome da autoaccerchiamento tipica dei gruppi e delle bande. Ora, diteci voi, può questo essere uno zibaldone? Il povero Leopardi, se fosse nella sua tomba, si starebbe rivoltando, e non una volta. Almeno due volte. E sapete perché? Perché Scarpa parla a sproposito anche delle gerarchie tra scrittore e lettore, che da noi, in “Zibaldoni e altre meraviglie”, sarebbero quanto di più vecchio si possa immaginare. Scarpa non sa – e come può saperlo uno che scrive per il mercato – che lo zibaldone non è mai scritto per un lettore immediato, come un romanzo di duecento o quattrocento pagine, ma è scritto nella solitudine comunitaria per il lettore avvenire. La vicenda postuma dello Zibaldone leopardiano dovrebbe insegnare qualcosa a Scarpa, al quale potremmo parlare altresì della nostra esperienza zibaldoniana, che ci ha rivelato la vera natura del mercato editoriale. Solo la rete ci ha consentito di dar vita alla forma zibaldoniana, ad una forma antica, che nella rete, scavalcando l’intero mondo dell’editoria, trova la sua realizzazione. Ebbene sì, siamo “una rivista vecchio stile”, “tradizionale”, ma solo perché ora, con noi e grazie a tutti coloro che contribuiscono alla nostra opera, cioè alla comunità che si viene formando, una rivista zibaldoniana è possibile, è possibile realizzare il sogno di Giacomo Leopardi. Noi siamo vecchi, vecchi quanto lo è Leopardi!

In realtà, lo “zibaldone” è uno strumento potentissimo, che si presta ottimamente, per la sua intima natura mnemonica e misteriosa, a mostrare la via – intrecciata a quella degli altri – che ciascuno di noi percorre vivendo. Lo “zibaldone” non è il blog, Scarpa. Forse non lo hai mai neanche sfogliato uno zibaldone, meno che mai quello di Leopardi, altrimenti ti saresti accorto che uno zibaldone non è un’eruzione gratuita di scrittura come quella del blog, ma il frutto meditato di una vita che si fa scrivendo, di chi “pensa scrivendo”. Lo “zibaldone”, Scarpa, ha un ‘ordine dissipatorio’ che tu nemmeno immagini: è l’ordine delle menti che cercano scrivendo la propria ragion d’essere, non, come ingenuamente tu credi, l’ordine fatto dai pezzi messi a caso dentro un contenitore, ‘consumati’ per puro sfizio postmoderno o per il piacere di trasgredire e di fare spettacolo. Tutti potrebbero scrivere uno “zibaldone”, è vero, ma a patto di consacrarsi alla scrittura: non a quella cosa noiosa che alligna nei “blog” e nei “racconti” tecnicistici, nei “romanzi” elucubranti e nelle “poesie belle”, che di solito si apprende anche nelle “scuole di scrittura”, ma proprio alla scrittura intesa come strumento di conoscenza per la scoperta della verità. Quale verità? Quella che ognuno di noi custodisce, ma che pochi riescono a mettere per iscritto perché pochi si consacrano veramente alla scrittura.

7. SCRITTORI SERVI E INFELICI

Cosa c’entra, ora, l’audience con tutto questo? Cosa credi, Scarpa, che ci guadagniamo qualcosa con questa nostra opera? Che qualcuno ci paghi? Tu lo sai che questo non avviene. E quindi non venirti a lamentare delle miseria dello scrittore moderno. Tu lo descrivi come un poveraccio in una catapecchia. Ma non ti chiedi, non se lo chiede il tuo spirito critico, perché questo poveraccio d’uno scrittore è ridotto in questa condizione, chi lo ha ridotto così. Capiresti che lo scrittore ingenuo che crede di lavorare per la comunità, a cui vorrebbe fare del bene regalandole un bel libro di un esordiente da lui scoperto, in realtà altri non è che un povero cristo sfruttato dagli editori che gli fanno tirare la cinghia; capiresti che il modello di scrittore che ti sei figurato è un servo più o meno cosciente della sua condizione nelle mani dei grandi e piccoli gruppi editoriali; capiresti, infine, che questo modello di scrittore è l’autoritratto della tua condizione infelice nella quale incoscientemente vai alla deriva, pensando di tenere la rotta. In realtà, i grandi e piccoli gruppi editoriali sfruttatori non esisterebbero nemmeno, se non ci fosse la caterva di scrittori prezzolati al loro servizio. Scarpa fa un nome: Tiziano Scalvi, e potrebbe aggiungere il suo. La passione, poi, la vocazione, l’ispirazione, la gioia, l’arte, tutte queste belle cose, non ti accorgi, Scarpa, che sono solo la sublimazione della tua condizione di prezzolato dell’industria editoriale?

8. SCRIVERE PER ‘PASSIONE’, COME UNA P…

Abbiamo letto, qualche giorno fa, le dure parole di Giuliano Ferrara contro Antonio Tabucchi, il mandante annunciato di un eventuale omicidio di Ferrara. Ed ecco che anche noi, nel nostro piccolo, per aver scritto Scrittori e bloggers, siamo diventati pericolosi, poiché d’ora in avanti saremo considerati i mandanti dei bloggers in quanto avremmo giustificato il loro operato. Scarpa, sei inquietante ed esilarante insieme! Non ti accorgi di emulare i comportamenti di Ferrara che sono quanto di più lontano possa esserci dal nostro sentire. Non avendo idee, lanci strali, fino a denigrare i tuoi interlocutori. Ma non c’è nessuno in NI che possa darti dei consigli, o vige sempre la regola dell’ “ognuno per sé e Dio per tutti”? A noi non interessa offendere l’altro con “frasi farabutte, vigliacche, da mandanti codardi”, e invece ci divertiamo moltissimo quando la penna tradisce un risentimento, un astio più radicato nella bile del nostro interlocutore. E ancor di più quando la stanchezza gli impedisce ogni forma di autocontrollo e lo scritto porge il fianco all’infilzata finale; così noi, in conclusione, vogliamo infilzarti col tuo stesso stiletto, o Scarpa, e raccontandoti una storiella, giusto per renderti meno grave il trapasso. A Napoli, qualche tempo fa, c’era una prostituta, la quale diceva sempre che durante il giorno incontrava a pagamento cento uomini, che ricompensava con finti gemiti di piacere, ma godeva davvero solo la sera, col suo uomo (che, in realtà era il suo magnaccia), e nel raccontare ciò usava un tono passionale, come rivendicando un diritto che per lei era anche un piacere. A lei abbiamo pensato quando abbiamo letto quello che dicevi; che, cioè, tu scrivi su NI gratis, per realizzare la tua passione, quando, invece, aggiungi, “le mie parole, sul mercato, verrebbero ricompensate con una decorosa quantità di denaro”. Non avertela a male, Scarpa, ma il tono delle tue parole è il medesimo di quello della prostituta napoletana e il medesimo è anche il loro significato.

9. BATTERI E ANTICORPI

Questo, dunque, è il modello di Scrittore presente e già passato, che vogliono imporci gli altri e che a noi non interessa. Noi su tutto quello che dice Scarpa stendiamo un velo pietoso e compassionevole, e tuttavia sappiamo che l’ “immunizzazione da Scrittore”, vera e propria sindrome da cui sono affetti gli Scrittori come Scarpa, è l’altra faccia della nostra sana passione comunitaria, necessaria almeno quanto l’immunità di Scarpa, nella determinazione della “communitas”. Come qualsiasi organismo vivente ha bisogno di batteri e di “nemici” in genere, anche noi abbiamo bisogno di chi ci ‘attacca’ per rendere più chiare e vere le nostre idee. Che stanno ancora qui insieme a noi, ancora più forti e potenti di ieri. Pertanto noi, che apparteniamo al futuro, lasciamo volentieri a Scarpa questo tempo nel quale sguazza a meraviglia, tra una esibizione e l’altra di muscoli ed effetti speciali, questo tempo fatto di mercato (per gli Scrittori e non solo) e di consenso, di audience, di spettacolini imbecilli e trovate scrittorie, oltre che di servitù più o meno velate. Il futuro al quale apparteniamo, però, non è quello ironico nel quale Scarpa vorrebbe confinarci, ma quello in cui lettori e scrittori costituiranno finalmente una comunità non condizionata dal mercato e dai suoi lenoni o mediatori, e non più ossessionata dalla “scrittura”, come in un blog infinito. Cosa ce ne facciamo noi di tutta questa gente che si mette in mostra? Di questi milioni di persone che scrivono da sé di sé e per sé? Queste domande, coinvolgendo gli scrittori, coinvolgono a nostro avviso anche la letteratura. Che roba è quella che leggiamo nei blog individuali o collettivi? Può essere considerata letteratura? Chi dovrebbe aiutarci a capire se è letteratura o meno? La risposta è semplice: gli scrittori sono tra quelli che dovrebbero aiutarci a capire. Ma… dove avevamo lasciato gli scrittori? Se non sbagliamo, li avevamo lasciati a pavoneggiarsi in una vetrina di un blog, autorizzati dal Mangiafuoco di turno del sistema mercantile delle lettere, che prima li ha trasformati in Scrittori e poi li ha mandati in avanscoperta ad accalappiare nuovi pinocchi attraverso la lettura di manoscritti e chissà quali promesse. E un tale Scrittore può aiutarci a capire che cos’è o dov’è oggi la letteratura? Noi non crediamo proprio. Un tale Scrittore può aiutare solo se stesso, se ancora ci riesce, offrendo lavoro salariato al Mangiafuoco di turno. Un tale Scrittore è anzi la negazione di qualsiasi possibilità di capire alcunché in quello che ci succede intorno perché un tale Scrittore ha come orizzonte soltanto il proprio interesse e, genericamente, il “proprio”.

Noi siamo convinti che, se davvero necessarie, le parole devono essere pudiche, residuali, affettuose, piene di echi. Le parole devono rimembrare, risuonare nell’animo di chi ci sta accanto e ci ascolta. Non si può dissipare la propria vita scrivendola in un blog immunizzato, annullandola in uno racconto spudorato del proprio tempo reale, dei propri fallimenti o delle proprie fisime, più o meno elevate. Se proprio bisogna scrivere, bisogna scrivere per aiutare noi stessi e gli altri a ricordare, non per confonderli, accumulando roba scritta come ferri vecchi e inutilizzabili. La letteratura, se ancora potrà servire a qualcosa, è a questo che dovrà rivolgersi, alla sua radice che coincide con una sapientissima arte della memoria”.

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Il 13 novembre, riceviamo da ‘parte di Carla Benedetti una e-mail privata, nella quale leggiamo: “non mi pare che voi stiate lavorando per una comunità futura. Non vedo un pensiero in ciò che scrivete su NI, neanche uno. L’impressione che date è solo di avercela con qualcuno, di essere mossi solamente dal risentimento o dal bisogno verboso di attestare la vostra esistenza”. Decidiamo di divulgare pubblicamente il messaggio in considerazione del fatto che un attacco di questo tipo contro di noi in realtà mette in luce la precisa volontà da parte di Benedetti di porre fine alla discussione sul tema della “comunità avvenire”, che pure lei stessa aveva contribuito ad avviare.
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Scarpa replica il 14 novembre con la seguente lettera:

“Cari De Vivo e Virgilio,

grazie di aver partecipato e di continuare a partecipare alla discussione. Come bloggers siete niente male: sapete offendere, insultare, dare delle puttane, dei servi, degli ingenui, dei vili, degli ignavi…

Sapete fare mosse molto scorrette (pubblicare lettere private è reato), per poi rivestire i panni degli equilibrati imperturbabili, come e quando vi fa comodo.

Chiedete spazio e vi lamentate quando vi viene dato; criticate lo spazio del blog e poi vi lagnate perché non vi viene dato spazio nei modi e tempi che vorreste voi; lodate i tempi riflessivi, ponderanti, TRImestrali della vostra rivista e poi protestate perché il vostro intervento è stato pubblicato su Nazione Indiana DUE mesi dopo che l’avete inviato. Volete il conflitto, vi contrapponete frontalmente agli “Scrittori” servi del mercato, innescate la polemica e poi fate le vittime perché vi si risponde; date il benvenuto al terrorismo verbale e poi mettete in mostra le ferite mugolando ‘ci hanno fatto la bua, ci hanno irrisi, ci hanno sbeffeggiati, cattivi, cattivi!’.

Con terrificante superbia totalitaristica pontificate che lo “Scrittore” debba “sforzarsi di togliersi di dosso la sua S maiuscola” (maiuscola che gli avete messo voi…) “deponendo ai piedi della comunità avvenire quella che credeva essere la sua Verità”. Ma io non depongo un bel niente, cari i miei dittatori! E’ esattamente il potere totalitario che chiede agli scrittori di deporre la loro verità in nome della comunità a venire. E’ esattamente il discorso fascista, nazista, stalinista e di tutte le ideologie totalitarie, quello che ha chiesto ciò agli scrittori. Rimproverando agli scrittori PROPRIO di FAR PARTE di una società corrotta, borghese, reazionaria, sopraffattrice, ingiusta, e di non essere i purissimi alfieri dell’utopia realizzata, E QUINDI di essere ambivalenti, contraddittori, E QUINDI non autorevoli, E QUINDI di non essere veri autori, E QUINDI di non avere diritto a scrivere. Rimproverando agli scrittori PROPRIO di proporre la loro verità individuale invece della fulgida verità collettiva (leggi: della classe politica al potere, dei funzionari di partito, dei professionisti della rivoluzione). Gli esempi storici non si contano. Delegittimazione, emarginazione, censura, confino, prigionia, tortura, eliminazione fisica. Ma dove dovremmo vivere, secondo voi, noi scrittori o nonscrittori? Dove dovremmo esprimerci e dare il nostro contributo, la nostra povera verità individualissima, se non nel tempo che ci è dato? Avete l’indirizzo di Atlantide? Ce lo spedite? Sfoglieremo il vostro dépliant turistico, e NON partiremo.

Non me ne importa nulla se voi affermate di essere aperti e mi proclamate a parole di non essere totalitari: il vostro ragionamento COINCIDE con il totalitarismo! Grazie a dio non siete al potere. Confermo e ribadisco che questo vostro ragionamento è terrificante. Mi terrorizza l’idea che possiate avere il potere di metterlo in pratica. Spero che il giorno in cui avrete il potere di farlo, nel frattempo abbiate cambiato idea. Sto lavorando per questo. Partecipo alla polemica per questo. Per farvi cambiare questa idea terrificante.

Siccome quello che scrivono gli scrittori, e le condizioni in cui si trovano a scriverlo, non corrisponde all’utopia “avvenire”, alla società perfetta futura irrealizzata (ma oh, quanto meravigliosa, giusta e paradisiaca!), che gli scrittori smettano (qui, oggi, nella nostra epoca) di scrivere. Stiano a casa in silenzio e si ripresentino solo quando avranno trovato la formula magica della “comunità avvenire”.

Deporre la verità individuale in nome di quella collettiva non ancora realizzata! Dite quello che avete da dire, col coltello o senza: vi staremo comunque ad ascoltare; ma non venite qui a chiedermi di deporre quello che ho da dire in nome della vostra utopia. È pazzesco che non ve ne rendiate conto. Siccome c’è il mercato e gli scrittori si trovano a doversi esprimere dentro di esso, la vostra soluzione è: “tacete, inventatevi qualcos’altro nel frattempo: intanto zitti”. E il bello è che attaccate un blog (proponendo di gettare a mare questo mezzo di discussione), che è proprio una zona fuori dal mercato!

Enrico, Gianluca, dài: ammettetelo. Vi piace moltissimo il mezzo del blog. Vi siete presi una cotta per il meccanismo delle botte e risposte. Ribattete colpo su colpo (se lo fate bene o male, lo giudicano da sé i lettori). Continuate a dire che il mezzo del blog è la negazione della discussione, e non smettete di affermarlo DENTRO un blog. Continuate a dire che Nazione Indiana è un ricettacolo di nefandezze, di mortificazioni, di censure, di assenza di libertà comunicativa, dicendolo DENTRO Nazione Indiana… Siete quelli che hanno avuto più spazio di chiunque altro, qui dentro (vabbe’, la gratitudine non è di questo mondo).

Ora, grazie un pochino anche a Nazione Indiana, il vostro sito è un po’ più conosciuto (ho detto solo UN PO’, eh! Non pensiate che io adesso voglia accaparrarmi un potere informativo che Nazione Indiana non ha. Ma, diciamo, almeno una trentina di persone in più sa che offrite in rete una rivista trimestrale). Bene. Lo visiteremo volentieri.

Io però continuo a pensare che distribuire gli articoli nel corso del tempo (in un blog o in un sito impostato con rinnovi più frequenti) gioverebbe di più alla riflessione e alla discussione (se voi desiderate chiamare ciò formare la “comunità avvenire”, va bene).

Avete fatto una scelta: pubblicare trimestralmente una cospicua mole di articoli. Se foste un blog, o un sito di altra natura, li sgranereste nel corso del tempo, permettendo ai lettori di leggerli uno alla volta, meditandoli, e, se è il caso, commentandoli per mettere in comune con gli altri lettori, SENZA LA VOSTRA ILLUMINATA MEDIAZIONE REDAZIONALE, le riflessioni che quegli articoli hanno suscitato (esattamente come avete fatto voi qui in questa finestra dei commenti e, ancor prima, durante l’estate, e poi inviandoci il vostro contributo “Scrittori e bloggers”, e altri contributi prima di esso, che sono stati puntualmente ripresi e pubblicati in home page, non fate finta di dimenticarlo).

Non mi sembra che il blog consumi in fretta ed espella gli argomenti senza digerirli a dovere. Questa discussione ne è la prova. Continua da settimane (molti infatti si sono stufati), ci incita a meditare, a modificare le nostre idee, a metterle nero su bianco per verificare la loro tenuta argomentativa, oltre che per comunicarle agli altri. Che cosa c’è che non vi convince in tutto questo?

Secondo me la formula che avete scelto (la rivista trimestrale) è proba nelle intenzioni, discutibile negli effetti: forse inefficace, o comunque debole (e questo, credo, non giova alla “comunità a venire”). Scusate se mi permetto di dirvelo. È la mia opinione. La mia analisi personale. Il “munus” che vi faccio. Usatelo come meglio credete. Non vi sto dicendo di deporre la Zeta maiuscola dei vostri Zibaldoni in nome di una meravigliosa e perfetta “pubblicazione avvenire”.

Può anche darsi che per tre mesi di seguito, fedelmente, uno venga a visitare il vostro sito pur sapendo che non viene rinnovato, e si legga uno alla volta tutti i contributi. Oppure può darsi che scarichi e stampi tutto in una volta, per trasformare zibaldoni.it in rivista “privata” (detto senza doppi sensi: intendo “personale”, pratica, maneggevole) su carta. Può darsi. Io penso che sia poco probabile, ma magari sbaglio.

Ma avendo scelto la forma del trimestrale, vi private di alcune possibilità. Intervenire sull’attualità, per esempio. Perché l’attualità dev’essere proprietà del giornalismo? Perché la descrizione e il commento del tempo, della cronaca, di ciò che è “attuale” (urgente, presente e vivo) deve essere deciso dal “giornalismo” (che significa gruppi di interesse, proprietà editoriale, filtro redazionale, mediazione, logica pubblicitaria, ecc.)? Perché il giorno deve essere in mano al “giornismo” di chi possiede l’oggi e la sua descrizione?

Noi di Nazione Indiana abbiamo avviato questo sito ANCHE per questi motivi. Ci siamo stufati di mendicare spazi sui giornali, che non ci vengono dati, o ci vengono dati male (interventi pubblicati dopo settimane, titoli redazionali e occhielli – scritti dalle redazioni – che non rispecchiano il nostro pensiero, ecc.). Piuttosto di stare nel (fintamente o parzialmente libero) mercato del giornalismo, abbiamo deciso di lavorare gratis nella liberissima rete (curioso che chi lavora gratis vi faccia venire in mente le puttane). È un passo (solo UN passo) VERSO la comunità a venire, questo? È tentare di essere intellettuali impegnati? O è narcisismo, presunzione, vanità da “Scrittori”?

Forse il blog e in generale la rete non è la Grande Soluzione, avete ragione (forse). Non siamo in una nicchia di paradiso, qui. Ma perché soffocare un “bene” in nome del “meglio”?

Un’ultima cosa: pubblicate TUTTA questa discussione su zibaldoni.it. L’avete suscitata voi: che gli diate spazio riprendendola integralmente mi pare il minimo. Ve lo chiedo pubblicamente”.

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La nostra risposta è del 15 novembre:

“Caro Scarpa,

finalmente notiamo un cambiamento, se non di argomenti, almeno di tono nella tua ultima lettera; un tono non più ironico, beffardo, bensì serio, come crediamo si addica a questi discorsi, nei quali c’è in gioco molto di più dei nostri casi personali. E di questo ti ringraziamo vivamente, anche perché ci sembra che, così facendo, si riesca a dare aria alla discussione e a utilizzare in maniera seria e impensata lo strumento blog. A queste condizioni, il dialogo ci sta bene – e anche il blog.

Ma, dicevamo, non sono cambiati gli argomenti. Le cose che ci rimproveri, le nostre lamentele, i nostri insulti, i nostri comportamenti eccessivi noi non vogliamo negarli, ma li consideriamo come lo scotto che siamo costretti a pagare, e a far pagare anche ai nostri interlocutori, per la mancanza di attenzione verso certi temi, per l’acquiescenza e la mancanza di senso critico con cui chi scrive spesso esercita la sua attività. Devi riconoscere che almeno con i nostri interventi lo stagno di Nazione Indiana si è mosso. Siamo intervenuti per il gusto di fare polemiche? Noi non lo pensiamo. Pensiamo, invece, che sia giusto fare in modo che i nodi, tutti i nodi vengano al pettine, se vogliamo che la pettinatura riesca bene. Noi non vogliamo il conflitto, noi siamo una delle forze che agitano il conflitto. L’altra siete voi, indubbiamente. Ma voi tendete ad addormentarvi e noi siamo allora il vostro pungolo: questa è l’autentica vasocomunicazione, come la intendiamo noi, nella quale non può esistere nessun tipo di gerarchia moralistica (noi siamo i “buoni” e voi i “cattivi”, ad esempio). Siamo stati iperbolici perché nella polemica bisogna esserlo, quasi per necessità di genere. E non abbiamo esitato a colpire in basso quando da parte di qualcuno (leggi Carla Benedetti ultimamente) si è tentato di ridurci al silenzio in modo subdolo. Ma questo, come dicevamo, è il prezzo da pagare. Come epigrafe alla sezione della nostra rivista dedicata alla polemica intellettuale, abbiamo messo la seguente frase di Dante: “rispondere si vorrebbe non con le parole ma col coltello a tanta bestialitade”, frase che, se fosse stata letta come mostri di leggere i nostri discorsi, caro Scarpa, avrebbe procurato al nostro grande poeta come minimo l’accusa di essere un assassino. Così fai tu con noi: prendi le nostri iperboli e le discuti alla lettera. Non è corretto, sia dal punto di vista intellettuale che da quello letterario (confondi i “sensi” della scrittura). Non puoi dire che siamo staliniani. Ti rendi conto di coprirti di ridicolo? È come se un professorino ignorante venisse a spiegarci che Nietzsche con il superuomo ha anticipato il nazismo e perciò noi siamo immorali a citarlo. Così fai tu con noi, ci accusi delle nostre idee per quello che possono far intendere di male, addirittura nel futuro, sicché tutti sono avvertiti: siamo pericolosi e guai a votarci, se dovessimo scendere in campo anche noi! Tutto ciò, ripetiamo, ci sembra quanto meno ridicolo. Ma noi sappiamo che tu a queste cose non ci credi veramente, perché altrimenti non saresti così perdigiorno da scrivere a due ex o post-staliniani. Dovresti aver capito, invece, che la nostra idea di comunità nasce non da un’ “utopia realizzata”, cioè dalla nostra presunzione di averla già bell’e creata, con noi a capo come dei novelli dittatori chapliniani, ma da una seria mancanza di comunicazione con gli altri, relativa al passato e in parte anche al presente, da una condizione di profonda solitudine dalla quale ci siamo a poco a poco tirati fuori (ma ci si può mai tirar fuori dall’esser soli?), anche parlando con voi di Naz. Ind., pur tra mille equivoci e fraintendimenti, pur tra continue aggressioni e violenze verbali. Altro che “alfieri di una utopia realizzata”! Abbiamo noi mai detto di aver realizzato un’utopia? Il nostro progetto zibaldoniano è tutto proiettato nel futuro e si realizzerà solo col contributo di tutti, non certo per nostro merito esclusivo. E a noi sta bene così, perché è appunto questa l’idea di comunità che ci anima, che ci tiene in vita, che ci fa sentire meno soli, pur nel nostro solitario lavoro individuale. Il resto è solitudine nera, individualismo, conformismo, ma della peggiore specie. No, non vogliamo convincerti. Te lo abbiamo già detto: guai se tu non fossi Scarpa l’immune e noi non fossimo i tuoi anticorpi: non potresti vivere senza di noi e neppure noi senza di te. Ma almeno riconosciamoci per quello che siamo e traiamone le giuste conclusioni. Non è, per esempio, una conclusione giusta quella secondo la quale noi intimeremmo il silenzio agli scrittori di oggi. Ma come potremmo farlo proprio noi, avendo deciso di dar vita a una rivista letteraria? Saremmo dunque noi degli aspiranti suicidi? No, caro Scarpa, noi non vogliamo il silenzio degli scrittori, come chi ci scrive lettere private liquidatorie; al contrario, siamo sempre noi a chiedere il loro contributo, non solo quando li invitiamo a scrivere per la nostra rivista (e abbiamo invitato anche te), ma anche quando, altrove, per esempio in Naz. Ind., suscitiamo la discussione, la animiamo con tutte le nostre forze ed energie, costi quel che costi. Ci hai fatto caso a tutto questo? Le persone si giudicano dai comportamenti, non dai semplici enunciati teorici. E i nostri comportamenti sono energie pure messe in gioco per favorire la discussione e la comunità, non per esibirci o per fare della pubblicità gratuita alla nostra rivista (ma se ci hai portato trenta lettori ti ringraziamo).

Quanto al blog, potresti avere ragione tu: ci siamo presi una cotta per questo mezzo, e lo usiamo sistematicamente perché ci piace moltissimo. Ma la nostra cotta non è quella di un ragazzino per una sua coetanea, bensì è la cotta di chi, con un certo disincanto, sa bene che ogni amore svanisce e lascia solo rovine. La nostra riflessione ci induce a utilizzare il blog come mezzo di discussione, ma ad utilizzarlo con coscienza e distacco critici, come dovrebbe esserti apparso chiaro dal nostro intervento “Scrittori e bloggers”. Noi siamo dentro il blog, ma contro il blog: quale contraddizione vedi in tutto questo? Scriviamo in Naz. Ind. e siamo contro Naz. Ind.: ti meravigli? Fa parte del nostro modo di vedere le cose, del nostro istinto a mettere il muso fuori da casa per vedere che aria tira fuori, perché fuori da casa nostra corre la vita, non dentro; e se questo ci porta a contraddirci, pazienza. Non siamo giustificati, ma neppure ci giustifichiamo, perché non siamo anime belle e non ci spacciamo per tali. E poi, non siamo affatto d’accordo che il blog sia fuori dal mercato. Anche in questo caso una riflessione critica un po’ più approfondita ci porterebbe a concludere che un blog è DENTRO questo mercato, poiché la virtualità è tale solo fino a un certo punto, e può sussistere solo al prezzo di un dispiegamento di mezzi economici enormi. In realtà il blog è quanto di più sottile e precipuo il mercato ha inventato per frantumare la comunità in una miriade di bloggers, ognuno dei quali sopravvive alla mancanza dei rapporti reali attraverso l’illusione di esistere in rete. Questo riguarda anche noi, s’intende, e anche voi. E allora, dove sta la differenza? La differenza è nel fatto che noi queste cose le riconosciamo e le diciamo, adoperandoci per superarle come meglio è possibile con l’instaurare una serie di rapporti con gli altri fondati sull’amicizia, come abbiamo avuto modo di scrivere su queste pagine nel dibattito dell’estate scorsa. Questo è stato ed è il cardine del nostro discorso sulla comunità avvenire, non altro. E invece ci siamo spesso trovati a dover rintuzzare fraintendimenti, malintesi, e anche non poche scorrettezze.

Quanto alla rivista trimestrale adattata a internet, le tue critiche e i tuoi consigli sono giusti e accettabili, anche se dobbiamo farti notare che la scansione trimestrale e altre quisquilie ci sembrano davvero inconsistenti per la sostanza di un discorso inerente alla letteratura. Noi non ci facciamo usare dal mezzo, noi usiamo il mezzo, e ce ne frega di tutte le questioni inerenti al dinamismo di internet, alla interattività, e blablabla. Noi internet lo usiamo con lentezza, sobrietà, quasi con disattenzione per l’aspetto tecnico. Insomma, anche da come si usa un mezzo, secondo noi, si può dedurre un’etica per opporsi alle forme e ai ritmi dominanti che vorrebbero imporci, non ti pare? Comunque, seppur con ben altre motivazioni, già da qualche tempo abbiamo provveduto a vivacizzare il sito con la creazione di una pagina (COL COLTELLO), ancora in fase sperimentale, da aggiornare con maggior frequenza. Per il resto la nostra rivista rimane trimestrale, una scansione che si adatta bene ai nostri tempi artigianali e che vogliamo mantenere, poiché siamo convinti che, a prescindere da questa scansione, la rivista-zibaldone potrà acquistare la sua vera forma solo in avvenire, quando cioè i contributi degli scrittori saranno tali da delineare la variegata e infinita forma di uno zibaldone. Noi, con tutto questo, c’entriamo ben poco, quel poco a cui si ridurrà il nostro contributo.

Quanto alla tua proposta di pubblicare sul nostro sito TUTTO il dibattito degli ultimi mesi, ti diciamo subito che riteniamo che NON TUTTO il dibattito riveste la stessa importanza. Pertanto, stiamo vagliando il materiale, che pubblicheremo nei prossimi tempi. Sarà una selezione solo di quegli interventi nei quali sia più apprezzabile il contributo alla discussione sulla comunità avvenire. Sarà una scelta nostra, certo, assolutamente parziale e facilmente criticabile, ma ce ne prenderemo tutta la responsabilità ed è certo che sapremo difenderla.

Per chiudere, ti facciamo notare soltanto che la discussione in NI sulla “collettività che manca” non l’abbiamo affatto suscitata noi, ma Benedetti, Janeczeck e altri. Noi siamo venuti dopo”.

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Gustavo Paradiso il 18 novembre fa le sue osservazioni:

“Gentili lettori,

[…] da quello che dice Scarpa, io ho capito che lui all’idea di comunità non ci crede né punto né poco e, quindi, è inutile che i due zibaldoniani gli rompano ancora le scatole. Come poi possa avvenire quella che in Naz. Ind. si chiama la vasocomunicazione, non si capisce bene, ma nessuno può chiedere a uno di essere quello che non è.

Per quanto riguarda Benedetti, penso che riportare il testo della sua lettera privata sia stata una scorrettezza, ma capisco anche lo stato d’animo di Virgilio e De Vivo che dall’oggi al domani si sono visti considerare come degli avventurieri e dei dilettanti da una persona nella quale credo riponessero molta fiducia. Ma perché Benedetti li ha improvvisamente rinnegati, mentre qualche mese fa andava pubblicando i loro testi e scriveva, se non ricordo male, di “aver aperto dei file” a seguito della lettura di alcuni pezzi degli zibaldoniani? Ora, se questi file sono rimasti vuoti una ragione c’è e, secondo me, va rintracciata nello scritto di De Vivo e Virgilio dal titolo Scrittori e bloggers, nel quale i due utilizzano alcune tesi della Benedetti per ritorcerle contro Naz. Ind. Per esempio, parlano della deresponsabilizzazione dei bloggers o delle metamorfosi degli scrittori che diventano bloggers e viceversa, mettendo a frutto, ripeto, la lezione di Benedetti. Ora la cosa peggiore che a un maestro possa capitare è di vedersi crescere in casa due allievi che utilizzano quanto hanno appreso da lui per criticarlo, poiché questo significa commettere parricidio (matricidio, in questo caso), un reato gravissimo e da cui non ci si può emendare in nessun modo, se non abiurando. Non so se sono stato chiaro. Benedetti con quella lettera che tutti hanno potuto leggere rinnega i suoi allievi, dice loro che non meritano il suo insegnamento e chiude loro la porta in faccia. Fa bene, fa male? Ai posteri l’ardua sentenza. La scorrettezza dei due è indubitabile, così come anche rimane l’ingenuità della Benedetti, la quale non ha ben meditato che ogni idea, una volta partorita, non è più di nessuno ed è di tutti e che ogni parricidio avviene per una ragione vitale, che non si può reprimere con una e-mail.

Ecco, io questa idea mi sono fatto dello stato della discussione, come di un susseguirsi di uccisioni tra letterati, che sono quelle più tragiche e più pietose. Che io mi sbagli? Può darsi, ma un senso la cosa deve pur avere, altrimenti mi pare che tutta questa faccenda sia destinata o a finire nel nulla oppure a volgersi in farsa. Invece credo che una morale della favola ci sia, ed è che in questa società non è possibile alcun discorso comunitario, poiché ognuno difende il recinto nel quale si è rinchiuso, e non ne vuole sapere di ciò che dicono gli altri. Si convincano, dunque, gli zibaldoniani, e si mettano il cuore in pace: facciano pure le discussioni in casa loro, nel loro recinto, ma lascino in pace quelli di Nazione Indiana.

Per quanto mi riguarda io continuerò a leggere gli uni e gli altri e a fare le mie considerazioni quando mi piacerà farle; così, pur non facendo parte di una comunità, passerò di volta in volta da un recinto all’altro e questo mi darà almeno l’illusione di essere meno solo”.

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Lo stesso giorno, interviene Alberto Sigismondi:

“Mio caro Paradiso, di cosa ti meravigli? Questi sono i ritmi del blog e della rete, e cioè del consumo, anche della scrittura. Scrittura da consumo, ecco cos’è un blog come questo qui. Chi vi scrive, vi scrive per consumare un po’ di energia scrittoria, non per discutere. Anche perché altri argomenti incombono, altri temi devono essere “consumati”: dall’Iraq alla pubblicità alle più profonde questioni letterarie e poetiche. Guarda gli interventi accumulati qui sopra: i temi più disparati vengono aperti e abbandonati, con una noncuranza e superficialità spaventose. Gli stessi contendenti, poi, dove sono finiti? Hanno lasciato appese le loro false questioni e sono spariti. Non hanno più argomenti da opporre e allora si mettono a masticare altri “temi”, si spostano in altre finestre a dare il loro contributo, ossia il loro morso al gran banchetto della scrittura da consumo. […]

Ti saluto, caro Paradiso, questo mondo non fa per noi, temo”.
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In realtà, malgrado queste parole che vorrebbero segnare l’esaurirsi della discussione, essa si protrarrà ancora per molto tempo; tuttavia, a partire da questo momento essa degenera in attacchi ad personam, che fanno cessare ogni dibattito serio e costruttivo. L’immiserimento dei ragionamenti e dei toni usati ci ha determinati nella decisione di interrompere qui la registrazione di questi atti, che, dal nostro punto di vista, devono servire ad avviare un più serio confronto sulla “comunità avvenire” e non a delegittimare persone e ad avvilire idee degne di grande considerazione. Va da sé che, chi fosse interessato alla querelle, anche nelle sue espressioni più spicciole, ma per molti versi significative, può leggerla nell’archivio del mese di Novembre 2003 in Nazione Indiana (vedi la colonna dei commenti a Tiziano Scarpa, Il pianeta dei fantablog).

(II – continua)