Una querelle etimologica
Tu lo sai, se hai un amico
nel quale hai fiducia
e se vuoi ottenere un buon risultato,
devi confondere la tua anima con la sua
e scambiare i regali
e rendergli spesso visita”.Dall‘Havamal, poema dell‘Edda scandinava
La querelle etimologica sul termine ‘communitas’ ha avuto luogo nella seconda quindicina del mese di agosto 2003, sulle pagine virtuali dei commenti a Lettera da Leuca 1 di Antonio Moresco in Nazione Indiana (www.nazioneindiana.com). Per una completa comprensione del contesto da cui è scaturita, e per i riferimenti generali, si rimanda ai pezzi, pubblicati più sotto in questa medesima sezione di Zibaldoni e altre meraviglie, dal titolo Per la comunità avvenire/1 e 2.
Nello spazio di questa breve introduzione, ci sembra doveroso ringraziare Roberto Esposito, a cui molto dobbiamo per la conoscenza degli argomenti discussi (si vedano in particolare i suoi due lavori su Communitas e Immunitas, editi da Einaudi rispettivamente nel 1998 e nel 2002), per le parole di incoraggiamento con cui ha voluto offrirci la sua amicizia e per il riconoscimento dell’importanza di tutta la discussione che abbiamo condotto in Nazione Indiana. A tal proposito ci sembra doveroso far conoscere il suo parere sulla questione, che egli ha voluto esprimere in una lettera a noi indirizzata in data 11 dicembre 2003:
Cari Enrico e Gianluca, grazie dei testi che mi avete mandato. Grazie soprattutto per il lavoro che state facendo, per la passione comunitaria che lo anima. Mi pare una cosa importante, autentica, coraggiosa. Una cosa nuova, almeno in Italia. Anche le parti polemiche mi sembrano utili. Come diceva Heidegger, lo stesso conflitto è una forma, un modo, certo negativo, del ‘cum’. Anche i testi che negano il ‘munus’ sono comunque inscritti sul suo rovescio. Quanto a voi, avete colto assai bene le cose essenziali del mio lavoro, ma soprattutto gli state dando ‘corpo’ e ‘voce’. […] Seguirò con attenzione e piacere il vostro lavoro.
A presto,
Roberto Esposito.
Con la pubblicazione della presente querelle, con cui termina il lavoro di selezione dei numerosi interventi accumulatisi in Nazione Indiana, pensiamo di mettere a disposizione del lettore un materiale sufficiente per approfondire la discussione sul tema in questione o, se non altro, per lavorare d’ora in avanti in senso autenticamente comunitario. Buona lettura.
*
In data 18 agosto 2003, interloquendo con Moresco, noi facciamo riferimento all’etimologia di “comunità”, scrivendo:
“(…) L’idea di comunità non indica una “proprietà”, una “appartenenza”, una “autorità” da conquistare. La comunità a cui pensiamo noi indica piuttosto una situazione di disperazione, di isolamento, e quindi la propria solitudine, il proprio isolamento che si fanno “munus”, dono, insieme a quello di altri (comunità = “cum” “munus”) nella nostra stessa condizione. La “comunità” non può avere a che fare con il “proprio”; ha a che fare, invece, con l’alterità, con il profondo abisso mortale dell’altro che ci insidia e ci guarda e ci chiede di accettarlo, e quindi di ascoltarne le ragioni – mentre noi vorremmo ucciderlo, perché Caino è nato prima di Abele ed è stanziale e assassino, “autoritario” per natura. (…)”.
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Raul Montanari scrive:
“Se peraltro De Vivo e Virgilio (con un nome simile, poi…) evitano di sbagliare di brutto l’etimologia di “comunità”, siamo tutti più felici e l’effetto “Ora del dilettante” si attenua. Comunità naturalmente non viene da cum-munus (autentica insensatezza etimologica) ma da cum-munis. Munis, mune è un aggettivo che in origine significava “chi svolge una carica”. Quindi communis sta per “chi è partecipe di una carica”. A me sembra anche più impegnativo del romantico e floreale “partecipe del dono della solitudine”. Fra scrittori che scrivono e scrittori che hanno scritto, magari c’è bisogno anche di qualcuno che ha letto (un buon vocabolario). Per una referenza precisa, senz’altro consigliabile il Dictionnaire Etymologique de la Langue Latine di Ernout e Meillet, quarta edizione, p. 421. Prima di pontificare sui massimi sistemi e deliberare sul nulla, può essere buona norma controllare il rubinetto del bidet”.
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Il 19 agosto rispondiamo a Montanari:
“… il primo significato che i dizionari attestano del sostantivo ‘communitas’ è quello che assume senso dall’opposizione a ‘proprio’… A questo primo significato canonico, tuttavia, se ne aggiunge un altro meno pacifico perché trasferisce al proprio interno la maggiore complessità semantica del termine da cui proviene: ‘munus’, che indica una caratterizzazione sociale… Benché generato da un beneficio precedentemente ricevuto, il ‘munus’ indica solo il dono che si dà, non quello che si riceve. Esso è proiettato tutto nell’atto transitivo del dare. Non implica in nessun modo la stabilità di un possesso… ma perdita, sottrazione, cessione… Il ‘munus’ è l’obbligo che si è contratto nei confronti dell’altro…” (Roberto Esposito, “Communitas”, Einaudi, 1998, pp. XII-XIV).
Veda, Montanari, nonostante le offese e l’accusa di dilettantismo, che per noi è piuttosto un elogio, poiché del professionismo alla sua maniera non sappiamo che farcene, anche la sua faciloneria pseudoprofessorale costituisce un ‘munus’, perché ci offre l’occasione per chiarire, a beneficio del “discorso comune”, qualche altra idea, e quindi di fare insieme ancora qualche passo. Il ‘munus’, a differenza del ‘donum’, ha un carattere particolarissimo: non si può fare a meno di farlo, “si è chiamati a farlo”. Etimologicamente, secondo il filosofo Roberto Esposito, è questo il suo senso, che può avere a che fare con l’idea di ‘dovere’ espressa dalla ‘carica’ (ma non solo). La ‘carica’, quindi, cui lei, o meglio, il dizionario, allude, non si riferisce semplicemente, a una “autorità”, come lei, forse, è abituato a vedere, ma a un “dono”, a una “grazia”, che chi ricopre la ‘carica’ dovrebbe sempre sentirsi in “dovere” di fare agli altri. Il carattere di “gratuità doverosa” del ‘munus’ a noi interessa fortemente ai fini del nostro discorso perché implica una certa idea di responsabilità e di sacrificio che obbliga quasi naturalmente ogni uomo a “fare” insieme agli altri. È per questo che parlavamo della necessità di perder tempo ad ascoltare gli altri, della fatica di mettersi in relazione per allestire una comunità, etc. “Abolire la relazione”, impedire di “alterarsi”, invece, è il presupposto di qualsiasi potere contrattuale, fondato non a caso sull'”immunitas” (veda i bloggers, “immuni” perfino da loro stessi, o il sistema culturale dei mediatori, che pompa tanti “scrittori” ognuno con la sua “poetica immunitaria”), opposta in tutti i sensi alla “communitas”, la quale, sia detto per inciso, ma non sarebbe neppure necessario, perché chi mastica un po’ di latino e legge con attenzione e fino in fondo i vocabolari, coglie a volo (“sente”) che l’origine di ‘munis’ è ‘munus’ – “communitas”, dunque, la quale ha a che fare con un “dono” (“munus”) che non si può non fare (la “doverosità”) alla pari con gli altri (“cum”), in un circolo partecipativo che è l’esatto contrario del potere costituito, anche perché alla sua base dovrebbero esserci, come suggerisce Esposito citando Bataille, lo spreco e il nostro nulla costitutivo, ovvero il punto sempre sfuggente dell’orizzonte (la “comunità” come nostra radice più propria) verso cui si tende nonostante tutto, ma che non si afferra mai, e la nostra fragile natura mortale.
Ma a lei, Montanari, è risaputo che queste cose non interessano, preso com’è dalle sue ansie difensive della posizione “professionale”, perfino in questo angolo sperduto di universo che è la finestra di un micronico forum.
Per concludere, notiamo soltanto che la citazione di Esposito proviene da un ambito di ricerca di filosofia politica e morale che persegue tutt’altri approdi, ma è molto interessante perché tira in ballo dinamiche e argomenti di cui stiamo discutendo in questi giorni: la sua nozione di “comunità” ci è sembrata subito aderente ad alcune nostre intenzioni, per questo l’abbiamo utilizzata, anche se in tutt’altra prospettiva, è chiaro (per chi ha letto i nostri interventi). D’altronde, che la questione sia anche “politica” lo hanno già detto in molti, ragion per cui questi riferimenti non ci sembrano affatto campati in aria.
Legga meglio i vocabolari, dunque, caro Montanari, e, soprattutto, legga il libro di Esposito e i nostri scritti, se vuol saperne di più. Di cosa? Del suo destino, naturalmente. E se ha bisogno di un idraulico, ci faccia un cenno”.
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Segue la controreplica di Montanari:
“Cari ragazzi, raramente ho sperimentato la sensazione di dare la testa contro un muro (non di gomma) (almeno spero!) come provando a confrontarmi con gente come voi e il vostro amico P., creature che immagino allignino solo nella fauna virale del web e negli incubi delle suore di clausura. Naturalmente il significato di communis è quello attestato dai vocabolari, non dai ghiribizzi di Esposito (di cui vi affrettate, vedo, a segnalare la pubblicazione in Einaudi, noto blog). Cascate malissimo con la vostra cialtroneria (cfr. Tommaso Labranca, “Chaltron Hescon”, sempre sito Einaudi) perché sono laureato in glottologia con una tesi in latino arcaico e un pochino me ne intendo; diversamente avrei continuato a sonnecchiare leggendo il vostro intervento e non sarei stato irritato dall’etimo alla Corrado Mantoni, né sarei intervenuto. Ma questo immagino non conti nulla per voi. Costruire castelli di aria cerebrale sopra premesse malsicure è una caratteristica di quel tipo di dilettante che poi preme il pulsante sbagliato e fa partire l’atomica. Per fortuna voi non potete far partire proprio niente, nonostante il vostro affannoso contorcervi e dibattervi per avere spazio (…)”.
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Il 20 agosto Franco Gabrielli interloquisce con Montanari:
“Ho letto con grande attenzione la sua dotta spiegazione sull’etimologia della parola “communitas”. Gliene sono davvero grato. Ho altrettanto apprezzato il suo giusto fastidio per la scarsa professionalità e il dilettantismo che si trovano nel mondo culturale odierno (o sub-culturale, come lei sembra intendere quello degli “Zibaldoni”). Le dicevo che le sono estremamente grato, perché occorre, ogni tanto, che qualcuno metta i puntini sulle i. Però, credo che il suo gesto avrebbe davvero un valore e assumerebbe il senso che lei sembra attribuirgli solo se questa dotta disquisizione lei la inviasse a Ernesto Franco, editor di Einaudi, e, per conoscenza, a Roberto Esposito, redattore di MicroMega e professore ordinario di filosofia teoretica a Napoli. A dire il vero, sarebbe opportuno oltremodo che lei scrivesse una bella lettera aperta in cui spiega quanto una casa editrice come Einaudi sia in mano a una cricca di incompetenti e ignoranti (visto che nella quarta di copertina del libro di Esposito si legge: “[…] in nessuno di questi casi il concetto di comunità è stato interrogato a partire dal suo originario significato etimologico: cum munus”. La responsabilità non è dunque solo di quel filosofucolo di Esposito…). Caro Montanari, mostri di avere i coglioni, non insulti due illustri sconosciuti come quelli degli “Zibaldoni”, scriva a Ernesto Franco o magari all’amministratore delegato di Einaudi e gli dica che è un incompetente e un ignorante. Non sia coniglio con i forti e forte con i deboli. Anzi lo scriva qui sul BLOG che poi noi mandiamo il link a Franco ed Esposito”.
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Montanari risponde a Gabrielli:
“Punto primo: i coglioni mostro di averli con chi voglio, dove voglio, quando voglio. Sto ancora aspettando che qualcuno contesti l’etimologia corretta di communitas su base linguistica, e dubito che questo avverrà mai. Non ho dato nessuna dotta spiegazione: ho solo riferito il dato linguistico, che qualunque filosofo può forzare a piacimento, purché non salti fuori qualcuno che considera tale forzatura basata addirittura sul buon senso, sul “masticare un po’ di latino”. Con Ernesto Franco o con gli altri dell’Einaudi, quali l’amico Mauro Bersani, parlerò se avrò voglia, quando avrò voglia, ecc., e soprattutto quando ci sarà un argomento un po’ meno volatile di cui parlare. Le goffe inferenze di Gabrielli, espressioni come “filosofucolo” e “cricca di incompetenti e ignoranti” fanno parte di una tecnica nazi-staliniana ben nota, consistente 1. nell’estrapolare e 2. nel forzare il pensiero di chi scrive; quindi mi prendo il lusso di fregarmene senza patemi (…)”.
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Il 23 agosto Gabrielli replica a Montanari:
“Che c’entra Einaudi? (…) Come lei ben saprà, le quarte di copertina dei libri vengono scritte o dall’autore (quando i redattori non hanno la minima idea di cosa scrivere) o, come è molto probabile in una grande casa editrice come Einaudi, dall’editor o un suo uomo di fiducia. Bene, se le cose stanno così, e sono certo che ne converrà, è evidente che la frase che compare sulla quarta del libro di Esposito – che, come lei ha giustamente fatto notare, non solo è falsa, ma denota la scarsa professionalità e serietà nella quale è precipitata la cultura italiana – o è stata scritta dall’autore, Esposito, o dalla casa editrice, Franco o un suo delegato. Ecco, qui sta il punto della questione. Qualunque sia la situazione, autore o editore, questo errore grossolano denota la decadenza delle scelte e della qualità della grande editoria italiana (non è dunque solo di furberia o volontà di profitto che si tratterebbe nelle scelte editoriali – come sembra pensare Moresco – ma di vera e propria incompetenza e incapacità). Se una casa editrice come Einaudi, con tutta la storia che ha alle spalle, può o commettere un errore così grossolano o, peggio, “riconoscere l’auctoritas” di un incompetente (poiché sulla quarta si dice espressamente, senza se e senza ma, che “cum mumus” è l’etimologia di “communitas”), ciò significa che la situazione dell’editoria italiana è molto preoccupante. In questo senso, le chiedevo di non prendersela con gli “Zibaldoni” che, se vogliamo, sono solo “ingenue vittime” di un sistema, ma con chi è causa di questo impressionante abbassamento del livello della discussione. E, sempre in questo senso, mi sembrava non solo opportuno ma necessario che un intellettuale, una volta venuto a conoscenza di un fatto grave (ed è grave diffondere falsa cultura quando si ha per missione, come certamente Einaudi ha, il produrre cultura e auctoritas), si assumesse il dovere di denunciare pubblicamente e direttamente i veri responsabili e la loro ignoranza e incompetenza – almeno se non vuole divenirne corresponsabile (…)”.
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Risponde Montanari:
“(…) Sapete perché è perfettamente inutile che io telefoni a Bersani (il suo parere vale quello di Franco, ma con Bersani sono amico) e gli dica che nella quarta di copertina di quel libro c’è, a dir poco, una leggerezza, un’etimologia di seconda mano non controllata? Perché il discorso di Gabrielli sulla decadenza è verissimo, e va molto, molto più in là del problema dell’etimologia di communitas, su cui ormai credo che tutti sorridiamo tranne i due imbufaliti. Rispetto alle cose spesso inesatte e spessissimo esagerate o fuorvianti che si scrivono nelle quarte di copertina (o che si permette agli autori di scrivere: è vero, di solito è così), ci sono almeno due azioni che pertengono strutturalmente a una casa editrice, e che sono molto più centrali per una valutazione delle stesse: la scelta dei libri che vengono pubblicati, e la spinta (pubblicità, iniziative dell’ufficio stampa, pressione sulla forza vendita, ecc.) che si dà a questi libri. Ora, è evidente che 1. si pubblicano moltissimi libri inutili, dannosi, stupidi; 2. si spingono molto spesso questi libri a detrimento di libri che meriterebbero molta più attenzione (…)”.
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Interviene Gustavo P.:
“Egregio signor Montanari,
dal momento che la sua prosopopea non ha limiti e che è giusto che qualcuno la castighi, ho deciso di perdere un po’ di tempo e di consultare i vocabolari che ho sotto mano, giusto per acclarare l’etimologia della parola “communitas” e per evitare che altri la seguano troppo ciecamente sui sentieri dell’errore. Ed ecco che cosa ho trovato:
DIZIONARI ITALIANI
De Mauro:
Comunità: dal lat. communitate(m). V. anche comune.
Comune: dal lat. comune(m) comp. di con- “assieme con” e munus “incarico, ufficio”.
Zingarelli 2002:
Comunità: voc. Dotta, lat. Communitate(m), da communis “comune”.
Comune: lat. Comune(m) “che compie il suo incarico (munus) insieme con (cum) altri”.
Dir Dizionario italiano ragionato della Casa editrice D’Anna:
Comunità in comune: lat. communitas.
Comune: lat. commune(m), comp. di cum “con” e di un derivato di munus “incarico, compito” e pertanto “che svolge il proprio compito insieme con altri”.
Devoto-Oli:
Comunità: dal latino communitas -atis “comunanza”, der. di communis “comune”.
Comune: lat. commmunis ” che partecipa a una carica insieme” comp. di com- e munus “carica ufficio”.
Cortellazzo-Zolli:
Comunità in Comune: Vc. dotta, lat. comune(m), propr. “che compie il suo incarico (munis) insieme con (cum) altri”.
Lessico Universale Italiano V, Istituto dell’Enciclopedia Italiana 1970:
Comunità: dal lat. Communitas a-atis “comunanza”, der. di communis “comune.
Comune: lat. Communis “comune; mediocre, affabile”, comp. Di cum e munus “carica, ufficio”, propr. “che compie il medesimo ufficio”.
Grande Dizionario della lingua italiana UTET 1964:
Comunità: voce dotta, lat. Communitas -atis “comunanza” da commmunis “comune”.
Comune: Deriv. Dal lat. Comune (neutro sostant, dell’aggettivo communis) “possesso, bene comune; repubblica, stato”.
Dizionario etimologico italiano di Carlo Battisti e Giovanni Alessio, vol. II 1951:
Comunità: v. dotta, lat. Communitas -atis “comunanza” (communis).
Comune : (arc. commoinis), composto con munis ” che compie il suo incarico o il suo dovere (munus in origine ufficio).
DIZIONARI LATINI
Calonghi, 3° edizione rifusa ed aggiornata del dizionario Georges-Calonghi 1999:
Communitas: da communis.
Communis: (arc. commoinis ; cfr. munia, arc. moenia e im-munis).
Munia, ium (munis, e) “doveri che incombono a qualcuno (ufficiali e privati)”.
Munis, e (munus), “obbligato, riconoscente”.
Moenia, arcaico = munia
Im-munis, e: (arc. Immoenis, da in e munis, cfr. munus e munia)”immune, esente, libero da prestazioni, pubblici servizi”.
Castiglioni-Mariotti:
Communis: cfr. moenia, munus.
Moenia :, ium (cfr. munio) mura, baluardi.
Munus, -eris, ufficio, dovere.
NOTA BENE: il Calonghi distingue moenia -ium (arcaico = munia (V.) “doveri che incombono a qualcuno (ufficiali e privati)” da moenia -ium = mura della città, mentre Castiglioni e Mariotti riportano solo moenia -ium (da munio) = “mura, baluardi”.
Gli altri dizionari in mio possesso, cioè il Campanini-Carboni e il Conte-Pianezzola-Ranucci non aggiungono nulla d’altro.
Ora, che cosa mi risponde? Che tutta la cultura italiana è impazzita e che nelle scuole circolano solo vocabolari redatti da ignoranti?
Non farebbe meglio, giusto per salvaguardare il suo rapporto con il miliardo di suoi lettori, che ammettesse di aver preso un granchio? Già ha chiesto scusa per il tono; faccia un altro passetto: chieda scusa per il merito della sua fallace etimologia”.
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Interviene Giuliana:
“Buongiorno e scusate l’intrusione. Mi è stato segnalato da un mio ex studente, grande fan di questo sito, che c’era una discussione in corso sull’etimologia delle parole “comunità”, “comune”, e così via. Sono insegnante di materie classiche da più di trent’anni, e ho collaborato con varie università fra Milano e Pavia; non lo dico per “mettere i documenti avanti”, ma semplicemente per presentarmi, visto che mi intrometto in una discussione che, a quello che vedo, è molto accesa e tocca argomenti anche molto importanti e lontani dal problema etimologico. L’etimologia addotta da R. Montanari è quella corretta, comunemente accettata dai linguisti. Non so quanto valga la mia auctoritas (lo dico con un sorriso), ma vi assicuro che è così. La ricerca del signor Paradiso, che vedo ora, non è sbagliata in sé, anche se per la verità non so quale edizione del Devoto-Oli abbia consultato, dato che la mia (Le Monnier 1971) riporta l’etimo esatto di communis = cum + munis,e, come sostenuto da Montanari, e non cita “munus”. Ma questa può essere una svista; il vero punto non è questo. La ricerca, dicevo, e anche la parte della discussione precedente che riguarda la parola in oggetto, è viziata da un errore di tipo storico. L’aggettivo munis,e non deriva dal sostantivo munus, anche se le due parole sono certamente imparentate, ma lo precede storicamente. Ora, il fatto che a un certo punto munus si sia aggiunto alla famiglia che si stava creando intorno alla radice *moin- e alle sue varianti apofoniche, non significa che “communis” venisse sentito come legato a munus, perché questa parola, communis, era nata prima di munus. Faccio un esempio, scusandomi se fatico a spiegarmi bene, perché questi sono argomenti un po’ tecnici. L’esempio mi viene proprio dal nome dello scrittore che partecipa al dibattito, il nome “Raul” (questa è la grafia corretta, non Raoul che è la variante francese). E’ un nome che conosco bene perché è più… comune di quanto si pensi: ho avuto familiarità con più di una persona che lo portava. Tutti costoro erano infastiditi dal fatto che qualcuno pensava che Raul fosse il diminutivo di “Rudolf”, Rodolfo, al punto che uno dei “Raul” da me conosciuti era addirittura chiamato “Rodolfo” dai suoi amici. In realtà sia Raul che Rudolf (o Rudolph) derivano dall’antico nome germanico Rudewolf (“lupo selvaggio”). I due nomi, Rudolf e Raul, hanno avuto una storia del tutto indipendente, pur avendo sicuramente una radice comune, ed è sbagliatissimo sostenere che quello più breve sia derivato da quello più lungo. Quindi è senz’altro vero che c’è “aria di famiglia” fra i vari munis, munus, communis, communitas, ma è linguisticamente inesatto affermare che l’etimologia di communis sia cum + munus. Aggiungo che molto probabilmente, quando i latini dicevano communitas, “sentivano” nella parola soprattutto la presenza e l’assonanza di moenia (mura), di munio (fortificare), e simili, e quindi connotavano il termine in senso fortemente difensivo: communitas = tutti coloro che sono difesi, circondati dalle stesse mura. In ogni caso, quindi, l’idea di communitas come “partecipazione di dono”, che mi sembra sia stata avanzata in modo molto preciso dai signori De Vivo e Virgilio nell’intervento all’origine di tutta la questione, è senz’altro sbagliata. Si tratta proprio del tipo di errore in cui può incorrere una persona colta, una persona che “mastica latino” (come i due autori osservano in un intervento successivo), che viene sedotta da un’etimologia che sembra quasi suggerirsi da sé, e che invece è una sorta di “falso amico”, ingannevole. Sono d’accordo con Montanari e con alcuni degli intervenuti, come il signor Andrea e il signor Gabrielli, anche sul fatto che è normale che i filosofi forzino il linguaggio. Basta saperlo! Grazie per l’attenzione e scusatemi ancora per la mia pedanteria da latinista inveterata… e ormai anche “vetula”, purtroppo!”
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Risponde Gustavo P. a Montanari:
“Chiedo scusa ai lettori di Nazione Indiana se sono costretto a intervenire di nuovo sulla questione etimologica sollevata da Montanari, ma non mi è possibile tacere davanti alla distorsione di ogni discorso che sia fondato sulla verità dei fatti. Dice Andrea a proposito della mia ricerca etimologica sui dizionari: “Scusa Paradiso, tutti gli esempi che porti parlano di carica non di ‘dono’, e tutti scrivono comunità da ‘communis'”. Allora, io vorrei ricordare ad Andrea, come agli altri, che fare una ricerca etimologia vuol dire ricercare l’origine della parola, non la semplice derivazione, risalendo fin dove è umanamente possibile risalire. Ora, se io trovo che comunità deriva dall’aggettivo communis, non ho ancora rinvenuto l’etimologia, poiché a sua volta communis deriva da cum + munus, oltre il quale termine non è possibile andare, almeno allo stato attuale degli studi. Se io mi fermassi a communis, avrei trovato l’immediata derivazione della parola comunità, ma non l’etimologia. Non so se mi sono spiegato. Inoltre, caro Andrea, se ti prenderai la briga di consultare qualsiasi vocabolario di latino, scoprirai (ma già lo sai, credo) che sotto la voce munus-eris vengono sempre riportati due significati: incarico e dono, i quali significati, dal punto di vista antropologico, non hanno avuto mai una vita autonoma, poiché ogni incarico comporta un dono, come potrai scoprire leggendo un po’ di letteratura antropologica a partire da Marcel Mauss, “Saggio sul dono”, per arrivare a J. T. Godbout, “Lo spirito del dono” e ancora dello stesso autore “Il Linguaggio del dono” (per agevolarti, aggiungo che il primo lo pubblica Einaudi, gli altri due li pubblica Bollati Boringhieri). Ricevere un incarico significa sentirsi obbligato a ricambiare i vantaggi che da esso derivano. E come? Con un dono, naturalmente; sicché il pubblico funzionario (ma non solo lui, se allarghiamo il discorso) è colui che è in debito perenne con la comunità, così come lo è ciascun membro di essa, poiché tutta la vita comunitaria si regge su questo continuo scambio di doni. E’ vero, oggi la ragione utilitaristica sembra negare tutto ciò. E per questo anche dicevo che gli zibaldoniani sono degli idealisti, ma non dei bugiardi o degli incapaci, anzi. Leggi il saggio che Marco Aime premette a Marcel Mauss, “Saggio sul dono”, pubblicato l’anno scorso dall’Einaudi, leggilo, magari insieme al libro di Esposito, che queste e molte altre letture presuppone, e ne riparleremo, se vuoi.
Detto questo, vengo all’insegnante Giuliana, la quale si definisce “vetula”, ed infatti lo è perché possiede un Devoto-Oli di trentatré anni fa. Consulti l’edizione del 2000-2001 e vedrà che non mento sull’etimologia di comunità che deriva da cum + munus, come ho scritto a chiare lettere e senza “sviste” nella scorsa lettera. Ma se questa è questione minore, la questione nella quale la professoressa Giuliana va a impelagarsi verte sulla dimostrazione che “l’aggettivo munis, e non deriva dal sostantivo munus … ma lo precede storicamente”. Ecco, io mi metto nei panni di quel suo alunno, fan di Nazione Indiana, che le ha fatto la soffiata, il quale a questo punto chiederebbe alla sua insegnante: “Mi spieghi, professoressa Giuliana, su quale base non dico scientifica, ma di buon senso, lei può dire che “questa parola, communis, era nata prima di munus”?
Io credo che quell’alunno aspetterebbe un bel pezzo d’eternità prima d’avere una risposta; perché, in realtà, risposta la nostra buona donna non può darla. E poi, con quale faccia tosta può misconoscere i risultati inoppugnabili della mia ricerca? Geoges e Calonghi, Devoto e Oli, Zingarelli, De Mauro, che non sono solo pagine di vocabolari, ma sono persone che hanno studiato e qualche autorità in materia ce l’hanno, tutti costoro avrebbero solo detto delle corbellerie, mentre la professoressa Giuliana, bazzicante tra le università di Milano e Pavia, avrebbe ragione? Ora capisco perché costei non si è qualificata in modo completo, in modo da assumersi la responsabilità dei suoi assunti; non lo ha fatto perché si sarebbe squalificata nel mondo accademico italiano, e non solo, ecco la ragione della sua reticenza.
A proposito, invece, della proposta della professoressa Giuliana, secondo la quale communitas vale “tutti coloro che sono difesi, circondati dalle stesse mura” (cum + moenia “mura” da munio “fortificare”), la mia ricerca già vi faceva cenno. Infatti, e scusate se mi cito, nella precedente lettera scrivevo: “Calonghi distingue moenia -ium (arcaico = munia (V.) “doveri che incombono a qualcuno (ufficiali e privati)” da moenia -ium = mura della città, mentre Castiglioni e Mariotti riportano solo moenia -ium (da munio) = “mura, baluardi”.
Risultato: nessun vocabolarista si assume la responsabilità di far derivare comunità da cum + moenia. Vi allude solo il Mariotti, senza convalidare l’argomento in modo chiaro e preciso. Personalmente, io non mi sento di escludere questa possibilità etimologica, ma sono convinto che, se fosse accertata, essa rischiarerebbe ulteriormente le mie (e non solo le mie) tesi. Infatti, se si va al fondo della questione si trova che “tutti coloro che sono difesi, circondati dalle stesse mura” sono gli stessi “che compiono il loro incarico” nell’ambito della “communitas”, entro la quale il dono circola come cemento che tiene insieme gli individui.
Sic stantibus rebus, cara professoressa Giuliana, le raccomando di aggiornare il suo bagaglio culturale, di svecchiarlo, perché è giusto che i nostri figli abbiano almeno all’università qualche insegnante competente e non solo dei fan di Montanari; e soprattutto, si procuri una versione più aggiornata del Devoto-Oli! Quanto a lei, Montanari, secondo il quale la ricerca etimologica di Paradiso sarebbe stata “confutata in modo garbatissimo e spero definitivo dalla professoressa Giuliana”, ebbene, mi dispiace profondamente deluderla, ma ancora dovrà fare un po’ di lavoro per convincere il suo miliardo di lettori di avere ragione. In realtà, si rassegni: l’etimologia di communitas è da cum + munus, come sostengono quelli di “Zibaldoni” e tutta una tradizione culturale, e, soprattutto, come sostiene il valente Esposito. Suvvia, cosa le costa, faccia questo passetto: chieda scusa e non se ne parli più”.
Il 24 agosto Montanari scrive a Gustavo P.:
“Adesso non è più divertente, solo noiosa.
Caro Paradiso, mi sembra un po’ eccessivo che lei definisca “fan di Montanari” (tacciandola quindi di partito preso a priori) una persona che in tono serio, senza nessun sarcasmo, ha voluto dire la sua sulla questione etimologica, con molta chiarezza e fra l’altro osservando che se il vostro è un errore non si tratta di un errore triviale, ma di un errore “nel quale può incorrere solo una persona colta”. Perché non definisce fan di Montanari anche Andrea, Savelli, Gabrielli? Non conosco affatto questa professoressa Giuliana, ma a giudicare dalla timidezza del tono con cui è intervenuta immagino che non si farà più né vedere né sentire, visto come è stata accolta! La professoressa ha avuto l’autoironia amabile di definirsi pedante e vetula; qui, a mo’ di benvenuto, viene messa in dubbio la sua professionalità, la si chiama con sufficienza “la nostra buona donna”, la si invita ad aggiornarsi, e perfino il povero allievo ci va di mezzo perché si dice di lui che “ha fatto la soffiata”. Caspita, che scelta di termini! Insomma, guai a chi si intromette! Particolarmente comico il momento in cui si dice che la professoressa non si è “qualificata in modo completo”. Ma lei, Paradiso, che mestiere fa? Quanti anni ha? Che titoli ha? Cominci a qualificarsi lei, prima di chiedere che lo facciano persone che alzano la voce meno di lei. O tutti o nessuno, non le pare? Io non intervengo più su questa faccenda dell’etimo. Gli argomenti in campo sono chiari. Lascio che i lettori giudichino non solo chi ha ragione o torto, ma anche chi è intollerante e chi non lo è.
Non ho nulla di cui scusarmi sui contenuti, sul tono mi sono scusato a sufficienza (…)”.
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Replica Gustavo P.:
“Montanari delle mie argomentazioni etimologiche non dice niente perché, appunto, non può dirne niente, essendo esse inoppugnabili. Questo è un buon segno, è segno forse che si sta ravvedendo e sta capendo l’errore commesso, ma c’è ancora qualcosa che lo frena, forse una comprensibile, quanto inammissibile questione di orgoglio, non saprei. Da questo ginepraio, se dio vuole, stiamo per uscire, a fatica, ma probabilmente anche grazie alla mia modesta ricerca tra dizionari e libri vari. Forse stiamo per arrivare a una minima verità. Manca però un ultimo passo: l’ammissione esplicita da parte di Montanari di aver commesso un errore, ovvero di essere stato superficiale nella considerazione della parola “communitas”.
Per il resto, aggiungo solo che il mio modo di rivolgermi alla “timida” (Montanari la definisce “timida”, quando è chiaramente una incompetente) professoressa di “materie classiche” (!!!), si giustifica con lo stupore che ha in me suscitato con le sue infondate pretese “scientifiche”.
Quanto alla mia identità, io non avrei problemi a rivelarla per esteso (indirizzo, etc) a chi me la chiedesse mostrandomisi come persona fidata, scrivendomi in privato all’indirizzo che ho sempre messo in calce ai miei interventi, a differenza di tanta gente che parla esibendo solo “carte” e “distintivi”, sputando veleno e diffamando le persone gratuitamente, nascosta magari dietro un bel nick o, peggio, dietro una istituzionalità che dovrebbe sempre richiedere la visibilità e la chiarezza assolute, non l’anonimato. È innanzitutto per una questione deontologica che la “timida” Giuliana dovrebbe obbligatoriamente rivelare la sua identità, perché lei, a differenza di me, che non ho bisogno di vantare alcun titolo, ha parlato in qualità di professoressa. Ma siamo in Italia, purtroppo, e in Italia nessuno mai paga per gli errori che commette, figuriamoci una “timida” professoressa che strafalciona in una finestrella di Nazione Indiana…
Detto questo, se Montanari, come dice, tacerà, cioè non addurrà nuovi argomenti che confutino la mia ricerca etimologica, io mi riterrò soddisfatto e non infierirò più di tanto per avere ulteriore soddisfazione. Tuttavia continuo a ritenere che sarebbe per Montanari veramente liberatorio, deposto ogni inutile orgoglio, ammettere di aver sbagliato (chi non sbaglia nella vita?). In questo modo significherà a tutti che è veramente pronto per riprendere, senza equivoci e senza falsa coscienza, la discussione sulla comunità da costruire, dal punto in cui l’ostacolo etimologico, che lui stesso aveva frapposto, l’aveva interrotta. Se farà ciò, questa discussione non sarà stata vana, ma sarà servita a tutti noi per guardarci dentro, e per capire che, a volte, siamo noi stessi che, senza volerlo veramente, ma per una inconscia costrizione, miniamo le basi di ogni vera comunità. Un’ultima cosa tengo a precisare: se ho definito Montanari servo, non l’ho fatto per lanciare un attacco ad personam, ma per esemplificare nei comportamenti di Montanari un costume morale che mi sembra invalso ormai da troppo tempo nei comportamenti degli intellettuali italiani, quello di attestarsi sulle proprie posizioni acquisite, paghi del proprio rapporto col potente di turno che ne tutela gli interessi. Secondo questa logica, chiunque dica qualcosa di nuovo (penso agli zibaldoniani) va censurato e respinto, anche con una capziosa stilettata etimologica. E invece, poverini, avevano ragione loro!”
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In data 26 agosto interveniamo noi:
“… e l’astio rovinoso… e la concordia conciliatrice…” (Empedocle, ‘Poema fisico’, 1)
“… Da quella materia, mescolantesi alla rinfusa, molti elementi permangono distinti:/ tutti quelli che l’astio, sollevato in alto, ancora tratteneva; e strenuamente, giacché/ non è rimasto, verso gli estremi confini dell’orbita, al di fuori del tutto,/ ma dentro rimaneva in una parte dei componenti, e dall’altra era uscito;/ e di quanto volta a volta gli avveniva di cedere, di tanto subentrava, volta a volta,/ il benigno slancio inestinguibile della strenua concordia./ E ben presto i corpi che si generavano, impararono d’essere mortali, già elementi immortali/ e distinti, prima di essersi mischiati deviando dai propri cammini;/ ma poi, quando vanno frammisti, si spandono innumerevoli stirpi di corpi mortali,/ compatte in molteplice forme, che danno stupore alla vista”. (Empedocle, ‘Poema fisico’, 6)
Cari amici di Nazione Indiana,
redattori e lettori, il demone della disunione, che negli ultimi tempi aveva assunto la guida dei nostri discorsi, generando incomprensioni e dando luogo a duri giudizi, esasperando gli animi e inasprendo i toni di chi pure si riprometteva una discussione serena, sembra aver abbandonato questo luogo. Ora è il momento della concordia, che succede sempre alla discordia nell’eterno circolo della vicissitudine universale.
Ma che cosa è accaduto in questi due mesi? Forse è accaduto che siamo riusciti a parlare, a comunicare, a vasocomunicare; nel bene e nel male, poco importa. Lo spirito della discordia ci ha indotti al dibattito e, malgrado certe durezze, ha favorito una più o meno franca discussione su temi per noi di grande interesse. Caro Moresco, non se l’abbia a male se noi non ci siamo limitati a tessere l’elogio delle sue opere, ma l’abbiamo interrogata a partire dalle cose che ci ha scritto da Leuca. Noi crediamo davvero che le opere siano solo il punto di partenza di un discorso che coinvolge tutti e che conduce ad altre opere, e non alla vetta irraggiungibile di una montagna oltre la quale c’è solo il cielo o l’abisso. Perciò, se l’abbiamo interrogata, è con questo fine, mai con quello di innescare inutili tensioni. A Montanari diciamo che bisogna abituarsi a pensare che i mali non vengono per nuocere, e che la nostra durissima, ma crediamo sempre corretta polemica nei suoi confronti, è valsa a definire meglio il nostro (lato sensu) modo di vedere le cose. Dalla polemica, infatti, nascono solo cose buone, per chi sa vederle, e alla fine anche le allucinazioni e gli incaponimenti etimologici favoriscono la verità. Vogliamo ringraziare anche Gustavo Paradiso, che si è tanto prodigato in nostra difesa, armandosi di vocabolari e analisi antropologiche, sebbene gli contestiamo il fatto che ci ritenga degli idealisti e degli illusi. I fatti la smentiscono, signor Paradiso, perché alla fine si è giunti, tutti insieme, a capire come stanno le cose e perlomeno a discuterne. In fondo non è questa la comunità di cui da tempo andiamo parlando? Certo, sarà piena di difetti, di narcisismi, di esibizionismi, e di altri ‘ismi’ uno peggiore dell’altro, ma è anche vero che al di là di tutto questo è possibile scorgere qualche verità che diriga il nostro cammino nel mondo. Altrimenti, lei che cosa propone? Di starcene ognuno a casa sua, in solitudine, in silenzio? No, non può essere questa la soluzione. Allora non rimane che parlare, scriversi, comunicare, e sia se tutto questo porta con sé talvolta qualche parola grossa e qualche giudizio più duro di quanto non si richieda nella civile conversazione. Forse per troppo tempo ci siamo disabituati a parlare insieme ed ora che questo finalmente accade, o comincia solo ad accadere, tutti noi siamo come un fiume in piena che porta con sé tanta acqua, ma anche fango, ghiaia, alberi sradicati: non sappiamo più trattenerci (i blog e in genere i luoghi internettiani, poi, sembrano fatti apposta per rompere ogni argine) e ce ne diciamo come dio comanda. Ma tutto questo non è negativo, non è semplicemente il “male” che va rimosso o colpevolizzato. È bene che la campagna si allaghi, perché al rifluire delle acque l’humus la fecondi di nuovo e il raccolto del contadino sia più ricco.
Ringraziamo anche i lettori e gli altri commentatori perché siamo convinti che abbiano compreso tutto questo e lo abbiano seguito con attenzione e con perspicacia, al di là di quella che sembrava essere una oziosa questione etimologica – e invece era anch’essa una tappa del ciclo universale delle cose comuni, mortali. A tutti diciamo che siamo fermamente intenzionati a riprendere quanto prima questo dibattito sulle pagine di “Zibaldoni e altre meraviglie”, e ad esso inviteremo tutti coloro che hanno partecipato alle discussioni in NI. Purtroppo la nostra rivista è trimestrale e quindi i tempi non saranno brevi, ma che importa; non bisogna avere nessuna fretta in questo genere di cose. La comunità da costruire, ogni giorno, con ogni intervento, con ogni commento, semplicemente leggendo e scrivendo, è tema troppo importante per essere esaurito nello spazio di un dibattito estivo”.
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Risponde Montanari:
“Ragazzi, io rispetto e ammiro il vostro entusiasmo. Diversamente da quello che fa Gustavo Paradiso con me, non ho dedotto dal vostro silenzio che vi foste ritirati dandovi per vinti sui temi in questione; pensavo che continuaste a essere della stessa opinione, e vedo che non mi sono sbagliato.
Per quanto mi riguarda, purtroppo, devo dirvi che continuo a pensare tre cose:
1. Che quell’etimologia è errata, e la consultazione di 24.000 vocabolari italiani e di un vocabolario latino per le medie superiori non vale la ricostruzione precisa della storia della parola che si trova in uno dei due soli dizionari etimologici del latino usati in tutte le università del mondo, e che la povera professoressa intervenuta ha provato, con molta chiarezza, a ricostruire. I vocabolari bisogna anche saperli leggere. I lettori di NI hanno dimostrato di averlo capito, infatti nessuno ha dato ragione alle follie di GP; tutti hanno compreso come stanno le cose, molti si sono ritratti annoiati da quelle che giustamente definite allucinazioni e incaponimenti (non miei, però: basta leggere per capire, e chi ha letto ha capito).
2. Che communitas, qualunque sia il suo etimo, in ogni caso non vuol dire “mettere in comune il dono della solitudine”. Il punto di partenza della querelle, come Andrea ha sintetizzato bene, è stato questo (…).
3. Che al di là dell’entusiasmo (sempre Andrea, simpaticamente, vi aveva definiti i Simon & Garfunkel della letteratura) c’è nei vostri discorsi un difetto di concretezza. Non si capisce bene cosa vogliate fare, non rimane in mano niente. Volete fare la vostra rivista, la state facendo? Va benissimo: sul web c’è posto per tutto e per tutti. I discorsi sulla communitas, su Socrate, sull’Eros platonico ecc. io non li ho visti sostanziarsi in mezza riga di proposta concreta. Cosa volete fare? Un supersito in cui entriamo tutti, per esempio? Se ne potrebbe parlare! Azioni di boicottaggio contro l’editoria ufficiale su carta? Si può parlare anche di questo. Che altro? Smettere di leggere i libri stampati? Chiedere agli scrittori di pubblicare solo e-books? Chiedere agli scrittori di smettere di scrivere per gli editori e dedicarsi solo ai blog e alle riviste on line? In realtà, si può parlare anche di questo. Basta che la richiesta o proposta venga concretizzata.
Volete una prova di questo disinteresse che suscitano i vostri discorsi troppo astratti? Carla Benedetti ha pubblicato su NI, proprio prima delle lettere di Moresco, la vostra lettera aperta ai lettori del blog. Quanti commenti, quante reazioni ci sono state? Una: quella comicissima di GP che stava postando dappertutto la sua polemica contro di me. Che è come dire: nessuna.
Questo mica vuol dire che siate scemi o antipatici: vuol dire che forse nel vostro argomentare, come osserva Savelli, c’è un qualcosa di fumoso, di centripeto, per cui in pratica uno non sa bene come mettersi in relazione con voi, come creare una dialettica.
Io, e molti con me, ho letto nelle vostre parole solo, o quasi solo, un curioso odio verso il libro (curiosissimo perché poi non fate che citare da libri, e tutto lo sforzo di GP è avvenuto con un grande spostamento di enormi tomi di carta scritta), una notevole antipatia verso gli scrittori attuali, e per andare sul concreto di questa pagina di commenti una sostanziale incomprensione del lavoro di Moresco, che si è manifestato in quell’apostrofe incredibile (“Ma lei cosa ha fatto? Ha scritto libri? Ma milioni di persone scrivono libri!”). Può darsi che milioni di persone scrivano o più esattamente scrivano testi che aspirano a diventare libri, ma solo pochissime migliaia di persone pubblicano questi libri e danno quindi un senso dialettico, ripeto, alla loro scrittura, e solo pochissime decine (o piuttosto unità) di persone scrivono libri rischiosi e potenti come quelli di Moresco. Questa sottovalutazione è nelle vostre parole, e ve lo dico con la massima pacatezza, la stessa con cui mi sono scusato di cuore per avere trasceso di molto nei toni. Continuo, rassegnato, ad aspettare le scuse altrui.
A questo punto proporrei di spostarci altrove, magari nella Lettera da Leuca numero II (ormai sembriamo i commentatori del Vangelo…), giusto per non rendere illeggibile questa finestra”.
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Controreplica nostra del 27 agosto a Montanari:
“Caro Montanari,
noi per la verità non siamo per nulla stufi di aver condotto con te e con altri questa disputa etimologica. Non ci riteniamo dei pedanti e le etimologie le andiamo a ricercare solo perché ci fanno meglio capire le cose, non per utilizzarle in esibizioni da erudito. E mai come in questo caso andare all’origine della parola ci è sembrato importante per impostare nel migliore modo possibile il dibattito, per centrare l’argomento, per non divagare. E difatti non abbiamo divagato. Mentre discutevamo su che cosa significava in origine la parola “communitas”, noi abbiamo formato una “communitas”, obbligandoci reciprocamente e donandoci le nostre parole reciprocamente (e tu non te ne sei nemmeno accorto!).
Ebbene sì, per noi il termine comunità significa proprio questo, “mettere in comune il dono della solitudine”, la tua e la nostra e quella di tanti lettori e commentatori che si sono ritrovati nelle giornate del solleone a discutere su questioni che evidentemente li riguardavano profondamente e intensamente. Non si spiegano altrimenti i 53 interventi destinati al commento dell’articolo di Antonio Moresco. E se questi interventi non riguardavano direttamente l’articolo di Moresco, è altresì vero che tutto partiva da lì e dalle domande rivolte da Gustavo P. a lui, in primo luogo. E dopo, ricordi cosa è accaduto? Dopo un nostro intervento, sei intervenuto tu per dirci che sbagliavamo, che eravamo degli ignoranti et similia. Non siamo offesi, per carità, non lo siamo mai stati. Ma ora notiamo che sei tu ad interrogarci, ancora con una certa ironia, e con qualche burbanza e supponenza, anche. Ma non importa. Ci chiedi che cosa vogliamo fare e ci rimproveri che nei nostri discorsi mancano le proposte concrete. Tranquillo, non vogliamo proporvi un supersito, magari all’insegna del “vogliamoci tutto bene”, e neppure vogliamo boicottare l’editoria e gli scrittori moderni. Mai sostenute queste cose. Ognuno deve seguire fino in fondo la sua strada ed inoltre, lo abbiamo scritto a chiare lettere, noi non siamo contro l’editoria moderna, anche se certe concentrazioni ci spaventano. Ma questo è un altro discorso.
Quello che noi vogliamo è semplicemente quello che stiamo facendo e continueremo a fare, ovvero fondare e costruire nel tempo, giorno dopo giorno, discussione dopo discussione, in luoghi anche diversissimi e con persone anche diversissime una dall’altra, una vera comunità, cioè quello che in Italia, e forse anche altrove, manca, perché questo mercato delle lettere ha diviso ciò che doveva essere unito, respingendo nella solitudine chiunque azzardi un discorso comune. E tu, nei tuoi primi interventi, e un po’ anche adesso, hai fatto proprio questo nei nostri confronti, hai tentato di respingerci nel silenzio dal quale eravamo venuti, e in parte, ma con qualche titubanza, ci respingi anche ora, quando dici che “sul web c’è posto per tutto e per tutti”, sottintendendo con questo che è inutile che ci dimeniamo tanto, perché il nostro angolino ci è riservato e, dunque, possiamo stare tranquilli. Comprendi, caro Montanari, che queste tue parole, interpretate nel loro significato migliore non vogliono dire altro che: “avete una rivista, statevene lì dentro e non rompete i coglioni”? Certo che abbiamo una rivista, ma non ci interessa coltivare il nostro orticello, se abbiamo tutt’intorno il deserto. Vuoi una proposta concreta? Essa arriverà al momento giusto, quando saremo in grado di stabilire un contatto più vero, quando ognuno di noi avrà riconosciuto la ragione dell’altro, ma, prima di tutto, avrà messo da parte ogni pretesa da prima donna, da grande scrittore o grande intellettuale che ha dei precisi interessi privati da tutelare e scrive solo con questo fine, quando le tue domande saranno senza l’ironia che ora le contraddistingue e chiederanno non avendo già pronta una risposta che elude quella dell’interlocutore e, quindi, le sue ragioni. Allora potremo davvero incontrarci e vasocomunicare. Ma ora, in questa fase preliminare, in cui dobbiamo rintuzzare i tuoi continui attacchi delegittimanti, le tue etimologie, la tua supponenza, come possiamo pensare a un colloquio sincero e a un progetto comune, cosa vuoi che venga fuori di “concreto” dall’associazione, che risulterebbe certamente forzosa, di persone che non si rispettano? Se tu ti affidi solo a un vocabolario in circolazione nelle università, senza capire che le parole non hanno solo un passato, ma anche un avvenire, come puoi fidarti di una proposta tesa a immaginare una nuova comunità? Ci puoi dire tu che cos’è per te, se esiste, una comunità? E non venirci a dire che i nostri discorsi suscitano disinteresse. Ammetterai che non avete avuto mai un numero simile di commenti prima che noi prendessimo la parola (e se Gustavo P. è l’unico commentatore del nostro articolo postato da Benedetti è perché la discussione è avvenuta altrove, non ti pare?). Ammetterai che, prima dei nostri interventi, il dibattito non era mai uscito dalla ristretta cerchia dei collaboratori della vostra rivista e da pochi, pochissimi commentatori fin troppo beneducati o fin troppo maldicenti. In realtà, noi comprendiamo bene i motivi “per cui in pratica uno non sa bene come mettersi in relazione” con noi. E’ semplice, noi non amiamo gli esibizionismi, le pose da star della cultura e della letteratura, i narcisismi, e tutto quanto il gran varietà delle lettere contemporanee che Costanzo invita nel suo salotto. Chiunque comprenda tutto ciò, non avrà difficoltà a parlare con noi”.
Primo poscritto sull’AUDIENCE.
Tu dici, caro Montanari, che intorno ai nostri interventi c’è disinteresse perché hanno ricevuto un solo commento. Bene. È vero. Però se tu leggi il blog sul quale scrivi, cioè NI, ti accorgi che la quasi totalità dei pezzi pubblicati dai suoi redattori (non da noi quindi) riscuote una media di ZERO commenti. Cinque pezzi su sei scritti da te, ad esempio, hanno avuto ZERO commenti; una buona decina di pezzi di Moresco, ZERO commenti; idem i pezzi di Voltolini e di altri: o nessun commento o 1-2 commenti. Ci sono commenti vivaci, e in quantità superiore allo ZERO (ma sempre in una media tra l’1 e il 6-7) soltanto in pochissimi pezzi di Carla Benedetti e di Scarpa. Infine, soltanto in 3 occasioni si registrano commenti che vanno oltre la diecina. Vediamo quali sono queste occasioni. La prima è quella della discussione sui BLOG, provocata da Scarpa e Benedetti, che ha suscitato una sessantina di interventi in tutto, per lo più di bloggers incazzati, ma anche di gente che esponeva le proprie idee. La seconda è stata quella provocata dal tuo pezzo sul sesso: 36 interventi, quasi tutti contrari allo spirito del tuo testo, che possiamo ben dire non è piaciuto che a sparutissimi lettori. La terza è quella del commento alla lettera di Moresco: 54 interventi, fin qui. Ripetiamo: in tutte le altre occasioni, gli altri pezzi dei redattori di NI riscuotono invece, in media, un numero di ZERO commenti. Ma torniamo alle tre occasioni di dibattito che fin qui hanno avuto anche un successo di pubblico. Se leggi bene, caro Montanari, ti accorgi che in tutte e tre le occasioni, e non parliamo per vanteria, la nostra presenza è stata fondamentale, rilevantissima, orientando l’interesse del cosiddetto pubblico, sia nei commenti positivi che in quelli negativi. Anche quando il dibattito si è spostato dal tuo pezzo sul sesso a quello su Moresco, è stato perché noi abbiamo chiesto di spostarlo, prontamente seguiti dai lettori, i quali ci son venuti dietro, per criticarci o contestarci, non perché ci amano particolarmente, ma perché vogliono sentir parlare delle cose di cui noi parliamo, ossia della comunità che manca. E sono le stesse cose di cui, se guardi ancora meglio, avevano scritto anche Benedetti, a proposito dei bloggers, e Scarpa, definendo gli stessi bloggers peggio di Liala. Anche il tuo pezzo sul sesso, come ricordi, ha suscitato una “sommossa popolare” (ricordi i toni non proprio felici con cui ti sei rivolto ai lettori?) proprio in nome della “serietà” e contro ogni “ironia”, concetti espressi da Benedetti ancora a proposito del suo intervento sui bloggers e ripresi da noi nel nostro primo intervento pubblicato su NI a cura di Scarpa e della stessa Benedetti. Difatti, partendo dal tuo articolo, ancora una volta subito la discussione si era spostata sulla “comunità”, e da lì è poi continuata su questi stessi temi, non sul “sesso parlato dagli uomini”, che in effetti non interessava a nessuno. D’altronde, nessuno dei redattori di NI è intervenuto a parlare di sesso, ma solo di comunità (vedi Moresco, ma anche Inglese, Voltolini e altri, per vie diciamo indirette). Questo per dire, o meglio per ripetere, a te e agli altri, la seguente osservazione, che avevamo già fatto (ma qui si fa presto a dimenticare, ecco un’altra cosa da analizzare): oggi l’isolamento di chi parla, a qualsiasi titolo, da qualsiasi pulpito che non sia ufficiale e allineato, è totale, globale, paragonabile a niente che storicamente si sia visto fin qui a livello di organizzazioni sociali e comunitarie. I pezzi di Moresco, i tuoi, quelli nostri cadono nello stesso vuoto – ZERO commenti – in cui cade tutto ciò che è frutto di pensiero e di sangue: in un dimenticatoio indefinibile, in un isolamento assoluto che, questo è il paradosso, ha le belle sembianze della “comunicazione globale”. Alle volte è interessante leggere dei commenti scritti da certi lettori in una lingua nettamente chiusa, autistica, che non comunica niente, si avvolge solo su stessa o sproloquia in deliri offensivi e turpiloqui, senza provocare reazioni di sorta: sono i tipici commenti di chi ormai per mettersi in relazione usa solo internet e non sa dove andare a sbattere la testa per incontrare due occhi e una voce viva che risponda. “Viva” non nel senso di reale, ma che sappia prendere in considerazione l'”altro”, che “risponda” alle tue domande profonde. La lingua dei nostri interventi, invece, questo devi riconoscerlo, ti fa smuovere il culo dalla sedia, ti fa sobbalzare, almeno ti fa andare in cerca dei libri di latino che avevi abbandonato da anni, e forse a qualcuno fa anche venir voglia di uscire e di abbandonare questi schermi luminosi. Vedi, Montanari, è “difficile mettersi in relazione” con noi anche perché la nostra lingua e la nostra voce sono aperte sull’esterno e sugli altri, a dispetto della loro natura internettiana (il nostro, se vuoi, è un paradosso al contrario): sono una lingua e una voce che rifuggono l’isolamento e il narcisismo, e ricercano l'”altro” a costo della propria morte. Sono una lingua e una voce che ambiscono a fondersi con quelle di altri, non a dettare proclami da giustapporre a quelli di milioni di disperati. Non essere superficiale: qui non si sta facendo una questione di audience, né crediamo che Scarpa e Benedetti abbiamo postato i nostri scritti sperando di smuovere le masse. Lasciamo queste diatribe ai curatori dei palinsesti tv. Pensiamo alla sostanza, almeno qui dentro. E la sostanza della “verità” riguarda sempre poche persone, non dimenticarlo.
Secondo poscritto sull’ ATTIVITA’ LETTERARIA.
Per noi, dunque, almeno per il momento, l’unica concretezza possibile sta nella nostra proposta letteraria, consistente in un progetto di rivista che, a differenza di altri, parla chiaramente agli scrittori interessati a una comunità diversa da quella attuale, in cui il vizio della menzogna domina come una bestia immonda. Il nostro modo di fare letteratura ricerca la dimensione comunitaria, prima di quella individuale: ci ispiriamo allo zibaldone anche per questo, etc. E perciò cerchiamo contatti anche con gente diversissima da noi, perché siamo convinti che prima delle “nostre idee” sia necessario tenere sempre desta quella che tu chiami “dialettica” con le “idee degli altri”, e rinnovare perciò sempre le occasioni di incontro, a maggior ragione in una situazione come quella attuale.
Per noi l’attività letteraria deve servire a far stare insieme le persone, non ad isolarle, magari in luccicantissimi progetti poetici stilati da editors mezzo sapientoni; a costruire una comunità che persegua la verità in tutti i campi del sapere e della conoscenza; a dare sollievo e a far pensare. Per questo riteniamo che le “opere” e gli “autori” siano secondari: nel senso che “vengono dopo”. Se infatti non esiste una comunità fondata sulla condivisione di un sapere, oppure, se non c’è la possibilità, per una comunità, di comunicare liberamente il sapere e le conoscenze, o ancora, addirittura, se la ricerca della verità, in una comunità, è continuamente inficiata da un uso surrettizio di tutti i mezzi e i linguaggi a disposizione (letteratura compresa): a che cosa servono gli scrittori e le opere? È ancora possibile, in queste condizioni, parlare di comunità? In chiusura di uno scritto che sarà pubblicato prossimamente in occasione della presentazione a Venezia di un suo documentario, Gianni Celati dice: “Ormai l’obbligo principale in tutte le attività è quello di fare dei prodotti di consumo e di facile smercio. Il che vuole dire che non può esserci alcuna ricerca se non nella direzione del cosiddetto marketing. Nella letteratura sta accadendo lo stesso e i libri diventano sempre più tutti uguali, scritti nello stesso modo. Mi sembra che il documentario rappresenti ancora uno dei pochi spazi di lavoro e di pensiero non completamente devastati, ancora un terreno di ricerca, con una straordinaria fioritura di esempi degli ultimi anni. Non so quanto durerà”. Noi riteniamo che oggi ci troviamo in una situazione grave, in una situazione in cui tutte le forme e i linguaggi sono facilmente “devastati e devastabili” dal marketing e dalla produttività industriale, al di là, spesso, anche dei più eroici tentativi “individuali” di resistenza. Perciò concordiamo con le analisi di Benedetti e Moresco, perciò siamo fissati con l’idea di comunità. Per tali motivi stiamo qui a discutere queste cose e, soprattutto, facciamo il tipo di rivista che facciamo, con le intenzioni che abbiamo illustrato (molte) altre volte, e in compagnia di persone che, sia detto per inciso, quanto ad autorevolezza e autorità (se è questo che ti interessa sapere) nei campi del sapere e della letteratura, non hanno niente da invidiare a nessuno, nonostante tu ti affanni ogni volta, dall’alto della tua burbanza pretenziosa, a definirci velleitari, ingenui e folcloristici”.
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Interviene Gustavo P. in data 29 agosto:
“Avrei preferito tacere per sempre, se avessi sentito il silenzio di Montanari da me richiesto per por fine alla ormai oziosa discussione. Ma dal momento che questo silenzio non c’è stato, d’accordo, aprirò anch’io il tanto invocato e sbandierato (e mal letto…) “Dizionario etimologico” Ernout-Meillet, retirage de la 4e édition augmentée d’additions et de corrections par Jacques André, Klincksieck, Paris 2001 [1985], giusto per ristabilire, spero in via definitiva, la verità. Anche i dizionari, infatti, hanno un’anima, e bisogna saperli leggere fino in fondo, studiarli e citarli per esteso, non solo per la parte che ci serve per fare bella figura. Bisogna sempre cercare la verità, non la ‘propria ragione’.
Ma, prima di venire ai fatti, ecco, ad uso dei lettori, un riepilogo delle posizioni differenti che si sono affrontate fin qui a proposito dell’etimologia del termine ‘communitas’; poi, aggiungerò alcune mie note frutto delle mie ricerche e delle mie riflessioni.
SCRIVONO DE VIVO E VIRGILIO: “La comunità a cui pensiamo noi indica piuttosto una situazione di disperazione, di isolamento, e quindi la propria solitudine, il proprio isolamento che si fanno “munus”, dono, insieme a quello di altri (comunità = “cum” “munus”) nella nostra stessa condizione”.
SCRIVE MONTANARI: “Comunità naturalmente non viene da cum-munus (autentica insensatezza etimologica) ma da cum-munis. Munis, mune è un aggettivo che in origine significava “chi svolge una carica”. Quindi communis sta per “chi è partecipe di una carica”. A me sembra anche più impegnativo del romantico e floreale “partecipe del dono della solitudine”…”.
SCRIVONO ANCORA DE VIVO E VIRGILIO: “… “communitas”, la quale, sia detto per inciso, ma non sarebbe neppure necessario, perché chi mastica un po’ di latino e legge con attenzione e fino in fondo i vocabolari, coglie a volo (“sente”) che l’origine di ‘munis’ è ‘munus’ – “communitas”, dunque, la quale ha a che fare con un “dono” (“munus”) che non si può non fare (la “doverosità”) alla pari con gli altri (“cum”)…”.
Allora, apro l’Ernout-Meillet alla parola “munis” (p.421) e… che cosa trovo? Trovo sotto l’aggettivo ‘munis, -e’ questa bella definizione latina: “munem significare certum est officiosum; unde e contrario immunis dicitur qui nullo fungitur officio”, che nella traduzione francese e poi nella mia vuol dire “è certo che munem indica “qui accomplit sa charge ou son devoir”, cioè “chi compie il proprio incarico o il proprio dovere”; da cui al contrario si dice “immunis” chi non ricopre alcun incarico. Trattasi, aggiunge l’Ernout-Meillet, di un “adjectif rare et refait secondairement sur les composés du type normal immunis, communis (de munus, cfr. barba/imberbis)”, cioè questo ‘munis, -e’ è un “aggettivo raro e rifatto secondariamente sui composti del tipo “immunis” e “communis”, i quali derivano da ‘munus'”. È l’Ernout-Meillet che lo dice, non io (e non l’aveva detto neanche Montanari… chissà perché…). Quindi all’origine vi è “munus”, sostantivo la cui radice è sempre “muni”, tant’è vero che i composti di “munus”, che si leggono sotto questa voce (p. 422), e cioè ‘municeps’, ‘munidator’, ‘munifex’, ‘munificus’, presentano tutti la medesima radice “muni”. È vero, “communitas” è un derivato di “communis”, ma si è già detto che “communis” deriva a sua volta da “munus” (‘de munus’, è scritto nell’Ernout-Meillet). Qual è la conclusione? Nel caso in cui qualcuno stentasse a vederla, la conclusione è che l’origine latina di “communitas” è nella parola “munus”. E allora, mi si dirà, in che rapporto è ‘munis, -e’ con ‘munus, -eris’? È molto semplice: sono in realtà la stessa parola con due funzioni diverse, la prima è un aggettivo e la seconda è un sostantivo. Come dire in italiano ‘solare’ e ‘sole’, caritatevole e carità, piacevole e piacere.
Se poi vado a cercare i significati delle parole, trovo che il significato di “communis” (de munus) “devait etre “qui partage les charges”, mais ce sens n’est pas attesté, et ‘communis’ ne signifie que “commun” (par opposition à ‘proprius’)”. Insomma, il significato antico, che doveva essere “chi condivide gli incarichi”, non è attestato da nessuna parte, e ‘communis’ non significa che ‘comune’ (in opposizione a ‘proprio’). Allo stesso modo ‘immunis’ significa “exempt de charge: quelquefois synomyme de ‘ingratus’ (à cause du double sens de ‘munus’ “charge” et “présent””, ovvero immunis significa “esente da incarico”: qualche volta sinonimo di “ingratus” (a causa del doppio significato di “munus” “incarico” e “dono”). Cosicché, quando trovo ‘munus -eris’, l’Ernout-Meillet mi dà questo significato: “significat (officium) cum dicitur quis munere fungi. Item donum quod officii causa datur”, cioè, traduco, “significa (incarico) quando si indica chi ricopre un incarico. Allo stesso modo (significa) dono che si dà per un incarico” (la noterella storica spiega che i doveri di un magistrato consistono come si sa nell’offrire spettacoli al popolo, eccetera).
Che cosa si vuol concludere? Che nella parola ‘munus’, presente, come si è dimostrato, in ‘communitas’, si deve avvertire questo duplice senso che riporta alla responsabilità dell’individuo che svolge un incarico e nello stesso tempo alla sua munificenza. Egli ottiene un incarico, ma dà un dono, compensando il suo status con una parte di sé che la comunità gli chiede e che egli deve dare “obbligatoriamente”. Chi ha letto il ‘Saggio sul dono’ di Marcel Mauss conosce l’importanza che riveste questo avverbio nella questione del dono.
Il fatto che il ‘munus’ sia costitutivo della ‘communitas’, quindi, oltre che non essere assolutamente una ‘insensatezza etimologica’, come affrettatamente e superficialmente sostenuto da Montanari, conferma in pieno tutti gli studi sul ‘dono’ che ho citato anche l’altra volta e in particolare le indagini di Roberto Esposito, che forse su questo punto dell’etimologia non sono proprio del tutto chiare, ma certamente consentono di intuire, a chi ne è capace, tutto quello che De Vivo e Virgilio hanno intuito senza bisogno di vocabolari, solo grazie alla loro spiccata sensibilità linguistica e letteraria. Ma le indagini di Esposito risultano interessanti soprattutto perché mettono in rilievo come oggi il senso di ‘comunità’ sia legato piuttosto al ‘proprio’ che al ‘comune’. È paradossale, dice Esposito, ma è così. Oggi le ‘comunità’ vogliono ciascuna la ‘propria’ autonomia, la ‘propria’ bandiera, il ‘proprio’ statuto, la ‘propria’ sicurezza; insomma: la ‘propria’ ‘immunitas’. Scardinare questa vera e propria tendenza ideologica (e politica) contemporanea significa affidarsi a un senso del tutto opposto della ‘communitas’, che poi, come abbiamo visto ed è stato più volte detto qui, è il suo senso più profondo, che ha a che fare con il ‘munus’, quindi con l’altro, non con il ‘proprio’. E diversamente, cari tutti i miei affezionati lettori, non potrà essere, se vogliamo sopravvivere. La natura umana, il cosiddetto individuo si caratterizza per il suo ‘mettersi in relazione’, prima che per il ‘proprio’, e il rovesciamento oggi vigente a livello ‘globale’ in favore di quest’ultimo (condivido le analisi di Carla Benedetti) non può essere che una perversione di questo stato di cose originario, o, se si vuole, più naturalmente umano. Anche Nazione Indiana, a volte, sembra una ‘comunità’ troppo moderna o postmoderna, cioè un gruppo chiuso, troppo chiuso, o con logiche troppo ambigue per accogliere chi è diverso fino in fondo da essa – e che infine, ne sono sicuro, potrebbe essere il solo a poterla salvare con il suo ‘munus’, con il dono della sua ‘solitudine’ o della sua ‘disperazione’, come dicono quelli di Zibaldoni. Con questo credo di aver concluso. Dica pure ora Montanari quello che sa e può. Stavolta sarò io a tacere. Intelligenti pauca. Vale”.
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Risponde Montanari il 30 agosto:
“Caro Gustavo, sono contento di rileggerti. Dopo lo scadimento di livello che c’è stato ultimamente, rimpiangevo le nostre schermaglie etimologiche. Sono felicissimo che tu abbia messo le mani sul meraviglioso Ernout-Meillet. Ti dico solo una cosa: per capirci sul benedetto munus/munis dovremmo essere fianco a fianco, sfogliarlo insieme, vedere com’è organizzato il lemma, discutere. Io resto della mia idea ma mi arrendo, nel senso che non ce la faccio a scrivere un post chilometrico per controargomentare, specie ora che la discussione si è spostata ad altro. Ho consegnato l’altro ieri il famoso romanzo su cui si informava con amorosa sollecitudine Settis, e adesso me ne vado due settimane in vacanza con una bella teutone.
Chissà che un giorno non ci capiti davvero di incontrarci; io vivo a Milano.
Tu sei un gentiluomo: sono sicuro che dopo queste parole mi manderai una stretta di mano senza suonare la tromba. La povera e bistrattata professoressa Giuliana aveva già riconosciuto la serietà della tua ricerca, io non posso che essere d’accordo, qualunque opinione abbia del suo punto di arrivo. Grazie di avere smesso di darmi del servo, e a presto (…)”.
(III – fine)