Un altro Novellino/ 1

di in: Un altro Novellino

Questo libro contiene innumerevoli storie piacevoli ed esemplari. Vi si ascoltano parlate fiorite, vi si narrano alte cortesie; vi si registrano stupefacenti saggezze, immense virtù e generosi doni, così come li facevano nel tempo passato molti uomini veramente nobili – così come oggi quasi nessuno fa più.

Prologo

“La lingua parla dell’abbondanza del cuore”: con queste parole di Nostro Signore si apre l’antica raccolta di storie detta Novellino. Esse vogliono significare che le storie, fatte di parole, provengono sempre dalla generosità e da tutto quello che il nostro cuore ha in abbondanza da offrire agli altri.

Pertanto chi è nobile e gentile d’animo, non può non prestare ascolto alle storie che seguono, le quali sono fatte innanzitutto per rallegrare il corpo, per sostenerlo e per tenerlo in forma, proprio come un alimento naturale.

Qui si farà memoria di diversi racconti, cosiddetti fiori di parlare, di belle azioni cortesi, di belle risposte e di belle virtù, di bei doni e di begli amori, come nel tempo che è passato facevano molti (ma oggi quasi nessuno fa più).

Se poi chi ascolta queste storie avrà cuore nobile e intelligenza sottile, potrà utilizzarle come più gli aggrada, nelle occasioni che gli si presenteranno, e soprattutto nella misura in cui piacerà a coloro che le richiederanno non conoscendole.

Se tra le parole che seguono il lettore ne incontrerà delle stonate, ciò non gli sia grave, perché come un giardino o un orto piacciono nella loro immagine totale di bellezza, pur essendovi fiori o frutti poco belli, allo stesso modo il Novellino vorrà apparire dilettevole nella sua interezza, pur se a volte lievemente stonato.

Ci sono uomini che hanno trascorso gran parte della loro vita riuscendo a dire o ad ascoltare ben poche parole belle, e forse sarà questa l’occasione, almeno per costoro, di trovare finalmente un po’ di sollievo.


P.S.: L’autore di queste storie riferite in lingua italiana moderna, mentre scriveva, ha avuto ben presente e ascoltato con passione e curiosità il testo anonimo antico denominato Novellino, scritto probabilmente a cavallo dei secoli tredicesimo e quattordicesimo. Egli ha volgarizzato – se così si può dire – la lettera delle antiche storie, per ascoltarne meglio i consigli e per assaporarne il ritmo, rifatto e a volte replicato nel proprio idioma. In fondo, non ha realizzato altro che delle semplici traduzioni o riassunti o parafrasi, spinto anche dal naturale bisogno di capire meglio la lingua di quei racconti, mettendoci un poco (pochissimo, quel poco che ha) di estro, nel tentativo di imitare la scioltezza e la facilità di un modo di scrivere per il quale egli prova a volte una profonda nostalgia. In che modo ha parafrasato, tradotto, riassunto? Senza nulla aggiungere al testo antico? – oppure senza nulla togliere? Egli ha riscritto le storie leggermente aggiungendo e leggermente togliendo, a seconda del suo orecchio e dei casi, ma sempre – vuole infine augurarsi – con discrezione e sobrietà, uniche cose veramente utili al lettore per il suo diletto.

I. Un’ambasceria di Pretegianni al nobile Imperatore Federico

Un misterioso sovrano dell’India, molto rinomato in epoche passate, di nome Pretegianni, aveva sentito narrare della grande saggezza dell’Imperatore Federico, e voleva metterla alla prova, questa saggezza. Un giorno decise perciò di inviare presso la sua corte alcuni ricchi e nobili ambasciatori con tre pietre preziose. Gli ambasciatori avrebbero donato le pietre a Federico osservandone la reazione e facendogli contemporaneamente domande su quale fosse la cosa più importante del mondo.

Gli ambasciatori si recarono alla corte dell’Imperatore, ed eseguivano quello che era stato loro ordinato dal sovrano indiano. Donarono le pietre all’Imperatore, che nulla domandava di esse ma soltanto le lodava e apprezzava ringraziando molto. Poi al quesito postogli circa la cosa più importante del mondo, Federico rispondeva così: “La cosa più importante del mondo è la misura”.

Al loro ritorno, gli ambasciatori riferivano l’accaduto a Pretegianni, il quale osservava: “Tutta questa gran saggezza dell’Imperatore io non la vedo. Non ha neppure domandato delle virtù delle pietre che gli ho donato!”. Decideva perciò di inviare un suo gioielliere a Federico, per tentare a tutti i costi almeno di recuperare le pietre, finite secondo Pretegianni in mani che non sapevano apprezzarle. Il gioielliere, con una serie di stratagemmi riusciva a giungere al cospetto dell’Imperatore, facendosi mostrare le tre pietre preziose e prendendo a lodarle moltissimo, precisando anzi: “Questa vale la migliore città, quest’altra la più grande provincia e questa addirittura vale più di tutto l’Impero!”.

E così dicendo stringeva nel palmo della mano le pietre, delle quali proprio l’ultima aveva la virtù di far scomparire e poi riapparire in un luogo desiderato chi la impugnava. Fu così che il gioielliere sparì dalla corte di Federico e riapparve in quella di Pretegianni, al quale mostrò con gran soddisfazione le pietre recuperate.

II. Il sapere naturale

In Grecia viveva un re di nome Filippo, signore d’un gran reame. Questo re Filippo teneva rinchiuso in prigione, non si sa perché, un uomo ritenuto profondamente saggio.

Un giorno avvenne che il re volesse provare la saggezza del suo prigioniero. Gli presenta un destriero, che aveva comprato dalle parti di Spagna, domandando al saggio quale sia, a suo parere, il reale valore della bestia. Il saggio, la cui sapienza oltrepassava perfino le stelle del firmamento, guarda con attenzione il cavallo e sentenzia così: “Questo animale è stato nutrito con latte d’asina!”. Il re manda prontamente suoi inviati dalle parti di Spagna a verificare la risposta del saggio, scoprendo essere veramente morta la madre del puledro, appena questo era venuto al mondo. Allora il re ordinò che fosse dato al saggio mezzo pezzo di pane come premio.

Un’altra volta il re voleva fare un’altra prova. Porta al saggio tutte le sue pietre e gli chiede di giudicare quale sia la più preziosa. Il saggio dice: “Scegli quella che tu preferisci e mostramela”. Il re così fece. Allora il saggio stringeva nel palmo della mano quella pietra, veramente bellissima, e così proferiva: “Dentro questo diamante c’è un verme!”. Immediatamente Filippo ordinava di sezionare la pietra, e il verme c’era davvero. Come premio Filippo diede un intero pezzo di pane al saggio.

Adesso però il re voleva di più: voleva sapere se egli stesso era figlio legittimo del padre, perché aveva sempre avuto qualche dubbio. Manda a chiamare dalla prigione il saggio e gli pone il quesito; il saggio, effettuate le sue inchieste magiche, sulle prime è alquanto reticente, ma poi ammette, non senza imbarazzo: “Ebbene, Sire, voi siete figlio di fornaio!”.

Il re è sconvolto. Si reca dalla madre, dalla quale, non senza difficoltà, riesce a farsi dire la verità. Che è questa: “Filippo, è vero, sei figlio di un fornaio”.

Filippo, sconvolto, ritorna dal saggio, e a questo punto vuol sapere come fa a conoscere tutte queste cose. Il saggio gli risponde che il suo è un sapere tutto naturale, e consiste nell’osservare attentamente l’apparenza delle cose, nella piena evidenza di immagini in cui si presentano. È così che ha scoperto che il destriero era stato nutrito con latte d’asina, avendo le orecchie abbassate, a differenza dei purosangue; poi si è accorto della presenza del verme nel diamante, perché le pietre, solitamente, sono fredde, e quello invece era caldo; e infine, il re Filippo, proprio lui che adesso gli stava di fronte, non poteva non essere figlio di fornaio, perché altrimenti, nelle occasioni in cui lui, il saggio, aveva dimostrato tutta la sua saggezza, avrebbe potuto premiarlo almeno con una delle più belle e grandi città dell’Impero. E invece, come l’aveva ricompensato? Nel modo che gli era riuscito più naturale, essendo figlio di fornaio: con dei pezzi di pane.

III. Illusioni di un giullare

Un nobile cavaliere era appena riuscito a sfuggire a un rapimento, ma aveva perso tutto e ormai non possedeva più niente. Aveva pensato perciò di recarsi presso Alessandro, il quale aveva fama di uomo generosissimo. Per strada incontra un giullare, il quale gli domanda dove è diretto. Il cavaliere risponde che va da Alessandro per farsi donare qualcosa che possa farlo tornare a casa in modo più onorevole. Il giullare gli propone un patto: “io in questo momento ti posso donare quello che vuoi, ma tu poi mi donerai quello che Alessandro ti donerà”. Va bene, il cavaliere accetta, e chiede al giullare un cavallo e roba per il viaggio.

Si mettono in cammino; dopo un po’ arrivano a Gaza, ossia alle porte della città che Alessandro stava cingendo d’assedio. Si presentano al re, il quale però dice che non ha nulla da donare al momento. Il cavaliere se ne va, incamminandosi per la sua strada.

Tuttavia Alessandro, dopo non molto tempo, riesce a conquistare Gaza, e manda subito a chiamare il cavaliere che gli aveva chiesto qualche cosa in dono. “Eccoti le chiavi della città di Gaza”, gli disse il sovrano. Ma il cavaliere rifiutò.

Diceva infatti: “voglio solo oro e argento”. E Alessandro, pur meravigliandosi molto, gli donò oro e argento, che poi il cavaliere prontamente donò al giullare, come aveva promesso. Ma il giullare non fu soddisfatto del dono, e disse: il patto era che tu mi donassi quello che Alessandro ti avrebbe donato, e Alessandro ti aveva donato una città.

Il giullare accusava dunque il nobile cavaliere di non aver rispettato il patto, chiedendo addirittura l’intervento di Alessandro, il quale faceva convocare il cavaliere, che però a sua volta così argomentava: “Nell’animo di un giullare non può, né dovrebbe mai nascere il desiderio di signoreggiare una città. Quando abbiamo fatto il patto, tu, o giullare, non pensavi certamente a una città, ma all’oro e all’argento, e io oro e argento ti ho procurato. Poi, inaspettatamente, hai intravisto un così meraviglioso dono, e sei quasi diventato un altro, mettendoti in testa chissà quali brame”.

A questo punto Alessandro, non potendo far altro che lodare la profonda saggezza del nobile cavaliere, lo prosciolse dall’accusa di non aver rispettato il patto, invitando altresì il giullare a ritirarsi.

IV. Non si possono confondere le età della vita

Ci fu una volta un re, in Egitto, che aveva destinato un suo figliuolo, fin dalla più tenera età, a profondi insegnamenti e grandi studi, dovendo essere il giovane suo successore. Il fanciullo, fino all’età di quindici anni, non aveva praticamente conosciuto altro che libri, sentenze e grandi saggi.

Un giorno c’erano degli ambasciatori di Grecia che attendevano da questo re d’Egitto una risposta su una delicata questione. Il re delegò il suo figliuolo affinché desse un giusto parere. E dopo un po’ il ragazzo, mentre gli ambasciatori attendevano giù da basso, si affacciava alla finestra del palazzo reale per sentenziare. Ma proprio in quel momento per strada c’erano certi ragazzi che facevano dei giochi con l’acqua spruzzando tutti quelli che passavano, ridendo molto e divertendosi. Immediatamente il figliuolo del re scende giù e va a giocare con loro, tra lo stupore generale anche del popolo, che non si aspettava un atteggiamento così bambinesco da parte di un principe per di più tanto notoriamente saggio.

Interviene il padre, e comanda che il giovane sia ricondotto all’ordine senza discutere, quindi convoca il consiglio dei saggi e domanda il perché di un così strano comportamento. Ognuno dei saggi spiega la cosa a modo suo: chi sostiene che si tratta di momentaneo sbalzo d’umori, chi attribuisce la cosa a follia, chi a infermità d’animo, chi a debolezza di testa. Soltanto uno fa questa particolare domanda: “come è stato educato il giovane?”. Gli viene risposto che il giovane è stato educato tra libri, sentenze e grandi saggi fin dalla più tenera età. Il saggio allora dice: “Non c’è di che preoccuparsi, perché qui la natura si è semplicemente ripreso ciò che gli spettava, in quanto a chi è giovane convengono cose da giovane e a chi è vecchio cose da vecchio. Non si possono confondere le età della vita”.

V. Punizione per vanagloria

Il re David, che era divenuto re per volere di Dio, un giorno voleva contare precisamente tutti i suoi sudditi, perché andava orgoglioso di governare su una popolazione tanto numerosa. Ma così facendo – non si rendeva conto – commetteva peccato di vanagloria, di cui immediatamente s’accorse Dio, che gli inviava perciò un angelo messaggero a dire queste parole: “Tu, David, hai peccato di vanagloria e adesso Dio ti pone di fronte a una scelta: da chi vuoi essere punito? Dai tuoi stessi nemici o dal Signore?”.

David preferiva la punizione divina. Dio allora inviò l’angelo della morte a uccidere, quasi come per contrappasso, i sudditi dello stesso David, in modo che rapidamente la popolazione diminuisse di numero.

Capitò che David incontrasse l’angelo della morte mentre uccideva un suo suddito. “Fermati!” – esclamò il re – “Non uccidere degli innocenti, ma prendi me piuttosto, che sono il colpevole di tutto questo”.

In seguito a queste parole di grande pentimento e nobiltà d’animo, Dio ordinava che la strage avesse fine. Fu così che l’angelo della morte posò la sua spada.

VI. A volte i figli fanno di tutto per far ricadere le colpe dei padri su loro stessi

Si legge nelle Scritture che Salomone diede, tra i tanti altri, un dispiacere molto grande a Dio, il quale inviando l’angelo, così gli faceva sapere: “Tu, Salomone, dovresti perdere tutto il tuo regno, per quello che hai fatto, ma poiché tuo padre ben si comportò, tu non perderai alcunché, e tutto perderà invece tuo figlio”. Quasi a dire che le colpe dei padri ricadono sui figli.

Ma è veramente così che avvenne?

Salomone provò a sfuggire a questa sentenza divina, lavorando notte e giorno all’edificazione di un grande regno, con ingegno massimo e notevole sapienza. Provvedeva a raccogliere intorno a sé più di una moglie, più di una concubina, affinché il regno non finisse in mani straniere dopo la sua morte. Eppure, ebbe un solo figlio, da tante donne, il quale aveva nome Roboamo e che Salomone faceva accudire soprattutto in modo da farlo diventare sommamente saggio, ossia tra insegnamenti e gran maestri. Poi gli ammassava un gran tesoro, nascondendolo in luogo sicuro, e badava a non procurarsi inimicizie con i signori confinanti col suo reame.

Venne il giorno in cui Salomone morì. Allora il figlio Roboamo riuniva un consiglio di vecchi saggi perché voleva sapere come governare e cosa dire al popolo. I vecchi saggi rispondevano: “Di’ che laddove tuo padre è stato duro, tu sarai tollerante, che se lui li fece faticare, tu li farai riposare, che se li tartassò, tu sarai più equo. E nel dire tutte queste cose – aggiungevano i vecchi saggi – usa parole dolci e tono pacato”.

Roboamo sentiva di non esser soddisfatto di questi suggerimenti, e convocava un consiglio di giovani come lui, ponendo le stesse domande. “Guarda” – rispondevano questi giovani – “se tu farai come ti hanno detto i vecchi, apparirai come un sovrano debole agli occhi del popolo, il quale ti sbeffeggerà e alfine ti deporrà dal legittimo trono. Fa’ queste cose, invece: usa toni aspri quando parlerai e soprattutto prometti a tutti il peggio, evidenziando che tu sei il loro signore e puoi fare di loro ciò che ti aggrada, e che quindi li farai faticare e sudare e soffrire se ce ne sarà bisogno. Fa’ capire bene a tutti che sei tu il più forte e che tu solo hai il potere”.

Roboamo era soddisfatto di queste parole, e faceva come i giovani avevano consigliato. Ma in poco più di un mese, i baroni, scontenti forse ancora più del popolo, ordivano congiure e attuavano tradimenti che fecero perdere a Roboamo quasi tutto il suo regno, realizzando così il disegno divino a causa della follia dei giovani.

VII. Che cosa può essere veramente d’insegnamento?

Un signore di Grecia di nome Aulix aveva un gran reame e un giovane figliuolo, che faceva educare alle sette arti liberali e ai buoni costumi. Un giorno gli venne quest’idea, di dare al giovane una gran quantità di oro e di argento, dicendogli: “sei libero di spenderla come ti pare”, e ordinando ai baroni di seguirlo, ma di non fornirgli alcuna indicazione sui modi in cui utilizzare la ricchezza.

Il giovane un giorno si trovava a guardare dal balcone del suo palazzo la gente che passeggiava di sotto, notando tra gli altri un gruppo di nobili persone molto ben vestite e di bell’aspetto. Ordinava che fossero condotte al suo cospetto. I baroni chiedevano a queste nobili persone se volevano presentarsi al figlio del re.

Il figlio del re domandava a uno di essi: “In che modo ti sei procurato tanta ricchezza?”. Questi rispondeva: “Lavorando, perché io sono un mercante sollecito”. Poi a un altro chiedeva: “Di che condizione sei e da dove vieni?”. Questi rispondeva: “Io sono siriano ed ero re, adesso non posseggo più nulla perché ho governato male e la mia follia ha costretto i miei sudditi a cacciarmi”.

Il giovane allora dona tutto l’oro e l’argento all’ex re di Siria, suscitando grande stupore nei presenti e provocando l’intervento del padre, il quale, messo al corrente del fatto, chiedeva conto al figlio di una decisione così bizzarra. Il giovane rispondeva in questo modo: “Non ho regalato alcunché a chi non aveva niente di nuovo da insegnarmi, né mi dava da pensare, come ad esempio al mercante. Ho voluto dare tutto all’ex re siriano, perché la memoria del suo esempio mi costringerà a non deviare mai dalla retta via e quindi a ben governare”.

Si fecero gran parlamenti in tutto il reame di quest’azione del giovane figliuolo del re, del quale a lungo si parla ancora oggi soprattutto nelle conversazioni delle persone sapienti, costrette in fervidi contraddittori.

VIII. Indefinito per indefinito

In una città di nome Alessandria, – una delle dodici che Alessandro il Grande aveva fondato nel mese di marzo prima di morire -, ovvero in Alessandria d’Egitto, si trovavano un giorno, tra i molti saraceni, un cuoco che vendeva per strada i suoi cibi, e un uomo alquanto affamato con in mano un semplice tozzo di pane. Costui si avvicinava alla cucina di Fabrac (questo era il nome del cuoco), desiderando vivamente un companatico, ma non potendo acquistarlo a causa della scarsità di denari. Avvicinandosi, gli veniva questa idea: di poggiare il pane sul fumo che proveniva dai cibi cotti del cuoco e di sfamarsi con pane e odor di cibo.

Quel giorno Fabrac non vendeva granché e pertanto s’indispettiva molto per quella trovata del saraceno avventore, chiedendogli anzi, a un certo momento, di pagare quell’odor di cibo ricavato dal fumo. Ma il saraceno si rifiutava, e così veniva richiesto l’intervento del Sultano in persona, il quale non poteva far altro che demandare ai saggi la questione. I saggi discutevano a lungo, e alcuni sostenevano che il fumo del cibo fa parte del cibo stesso, e quindi va pagato, altri che il fumo, essendo aereo e vago, non ha sostanza e perciò non può esser venduto. Alla fine, veniva fuori un consiglio del genere, che sembrò subito il più adatto alla situazione: si stabilì che il saraceno avventore pagasse con la stessa valuta, ossia con lo stesso tipo di sostanza, l’odore trafugato. Che facesse suonare quindi, rotolandola per terra, una moneta, perché così il suono, con la sua indefinitezza, sarebbe stato il più appropriato pagamento per il fumo consumato.

IX. Questione di interpretazione

Un giorno un uomo decideva di partire in pellegrinaggio e di abbandonare le sue ricchezze. Convocava un suo amico dicendogli: “Eccoti trecento monete d’oro, custodiscile. Se mai dovessi far ritorno, mi restituirai quelle che vorrai e terrai il resto; altrimenti – dovessi non tornare più – terrai tutto per te”.

Il pellegrino partì, ma poi fece pure ritorno dopo un po’ di tempo e andava da questo suo amico di un tempo chiedendo indietro i denari. L’amico gli restituiva dieci monete d’oro e teneva le altre duecentonovanta per sé. L’ex pellegrino si adirava, ma il suo ex amico gli ricordava il patto e lo invitava a ripeterlo. Il pellegrino lo ripeté, eppure continuava a sostenere che gli dovevano essere restituite le duecentonovanta monete. Decidono di far intervenire un giudice, per la precisione un giudice molto famoso all’epoca, di nome Schiavo.

Schiavo ascolta attentamente il caso che gli viene sottoposto e infine emette questa bella sentenza, motivo poi di gran parlamento tra tutte le nobili persone del tempo: l’amico del pellegrino tenga per sé dieci monete d’oro e restituisca al pellegrino le duecentonovanta, poiché il patto recitava così: “restituirai quelle che vorrai”. E l’ex amico del pellegrino avrebbe voluto per sé duecentonovanta monete d’oro, che pertanto adesso doveva rimettere all’ex pellegrino.

X. Un discepolo infame

C’era un medico molto rinomato, di nome Giordano, che aveva un discepolo. Un giorno, mentre erano al capezzale di un fanciullo molto ammalato, il discepolo, per acquistar pregio ai danni del maestro, andava dicendo al padre del fanciullo che suo figlio sarebbe certamente morto.

Quindi faceva aprire la bocca al fanciullo, e con la punta del dito, dimostrando grande abilità, gli mandava giù per la gola una buona quantità di veleno, per la quale il fanciullo ben presto moriva. Il medico se n’andò da quella casa avendo perduto tutto il suo prestigio, acquistandone invece il discepolo infame.

Da quel giorno, però, il medico abbandonava la cura degli uomini, scegliendo di dedicarsi esclusivamente alla cura di bestie e vili animali.

 

(I – continua)