Imperfetto /2

di in: Bazar

“Vide allora la sua vita come un gioco nel quale si immaginava molto e ci si facevano tante idee ma si sapeva ben poco o forse perfino niente del tutto”

 

Ed ecco dunque senza troppi preamboli il Kariboni a colloquio con la Frattazzi Eberle, nel convincimento e nella speranza di appunto convincere la Frattazzi Eberle a stare qui per lottare anche per quelli che stanno qui e sono sfruttati senza ritegno dai governanti senza scrupoli.

Dopo che il Kariboni, accolto con simpatia dalla Frattazzi Eberle, ebbe tentato di convincere la suddetta Frattazzi Eberle a fornire un aiuto concreto alla realizzazione del corto di protesta, così rispondeva la Frattazzi Eberle al Kariboni:

-Vedi, caro Kariboni, se guardi il mare e vedi l’azzurro è bello se la montagna nel silenzio è innevata, e poi vivere le sensazioni del momento è un po’ come la spuma di un’onda che si rifrange come immagine di specchio nel mentre gli alberi nel bosco silenti si levano intorno a te, sì, caro Kariboni, osserva la natura che ti circonda, i colori del tramonto mattutino o di certe imperdibili albe serali, lo squittio dei pipistrelli tra gli alberi di mele, e vorrei aggiungere se permetti caschi di banane a mo’ di acconciature, la passione, caro Kariboni, niente senza la passione, è come comunicare col mondo intero tramite un tunnel che ci porta io so dove e te lo direi anche, caro Kariboni, se non fosse che la neve si scioglie nel sole del mezzodì accecante e io ti dico che ce la si può fare a patto che ci si metta tutto se stessi, o se stessi nel tutto, o se tutto nel stessi, o nel tutto se stessi…

All’udire questo vaniloquio, il Kariboni si sentiva montare dentro, precisamente all’altezza del colon straverso, un imbufalimento senza pari. Ma bloccato quasi ancorato nella poltrona dove la Frattazzi Eberle lo aveva fatto accomodare, ecco quanto doveva ancora ahilui ascoltare:

– Eh sì, caro Kariboni, grandi impegni, fare dire comunicare, ma se solo in un momento ti rendi all’erta nel cosmo finito, allora ti posso dire che no, non ci siamo, siamo qui per quelli là o siamo là per questi qui, fa lo stesso, goditi la natura e il mondo, brinda allo champagne di ogni istante, ma ricorda: niente senza passione, no, niente senza passione, perché di un libro fatto per leggere si può certo dire che, ma di molte altre cose non so se si può dire che…

Così per circa due ore o forse più andava avanti e avanti la Frattazzi Eberle nel suo vaniloquio. E il Kariboni, bloccato quasi ancorato nella poltrona dove la Frattazzi Eberle lo aveva fatto accomodare, sentiva sempre più forti i sintomi dell’imbufalimento, per esempio che cominciava a sudare in maniera profusa da tutti i pori della pelle e sentiva che le pupille degli occhi roteavano su se stesse e i piedi dentro le scarpe che nuotavano nel sudore da essi stessi piedi rilasciato. A un certo punto, giunto al punto estremo dell’ imbufalimento che gli era montato dentro all’altezza del colon, si alzava il Kariboni di scatto dalla succitata poltrona e investendo la Frattazzi Eberle di irriferibili contumelie e improperi la prendeva con sé e la trascinava con forza nel più vicino studio medico, gestito e anzi abitato ventiquattr’ore su ventiquattro dal medico dottore tale Anacardo Heinzer Ventiglioni, esperto in malattie del ricambio. Così avendo letto il Kariboni sulla targhetta esposta all’ingresso dello studio medico, scaricava la Eberle sul lettino medico del Ventiglioni spiegando al Ventiglioni stesso i sintomi manifestati dalla Frattazzi Eberle. Ma nel mentre spiegava il Kariboni al Ventiglioni i sintomi manifestati dalla Frattazzi Eberle, ecco che il Kariboni aveva all’improvviso l’impressione di ravvisare una certa qual somiglianza tra il Ventiglioni e gli altri medici dottori già comparsi in questa storia delle vicende del Kariboni: vale a dire il Mazzucchelli medico dietologo, l’Intragna primario del reparto di rianimazione, il Fanizzi psicologo, l’Aldegheri dottorissimo professorone dell’ospedale psichiatrico e il Lanfranchini frenologo. Ad uno sguardo più attento si accorgeva anzi il Kariboni essere la sua ben più che un’impressione, dal momento che il Ventiglioni altri non era sotto tutti gli aspetti e sembianze se non la stessa identica persona che il Mazzucchelli, l’Intragna, il Fanizzi, l’Aldegheri e il Lanfranchini. La qual cosa, detta anche agnizione, come comprensibile provocava nel Kariboni un potentissimo scatto d’ira, al punto che il Kariboni si metteva a spaccare tutte le apparecchiature che il Ventiglioni teneva nello studio suo di medico specialista nella malattie di ricambio e che infatti servivano per curare le malattie del ricambio o più probabilmente, come urlava il Kariboni nella sua furia di spaccatore di apparecchiature mediche, per salassare o meglio ancora prelevare ingenti somme di danaro da chi andava a farsi curare. E che poi, così sempre il Kariboni al culmine del suo furore di distruzione, quelle ingenti somme di danaro venivano immediatamente versate nelle casse dei governanti serpi bastardi, che se ne servivano per andare insieme ai medici a trascorrere le cosiddette settimane bianche in rinomate località di montagna. Il Lapizzi e il Manera, infatti, avevano accompagnato una volta due classi di bambini figli di ricchi a trascorrere una cosiddetta settimana bianca in una rinomata località di montagna, e avevano raccontato al Kariboni di cose pazzesche: del tipo che i bambini figli dei ricchi, ai quali naturalmente i porci governanti avevano riservato una pista speciale, si bardavano a mo’ di cavalieri medievali con tanto d’usbergo e uscivano spesso e volentieri di pista per andare ad urtare i bambini poveri che sciavano in una pista attigua, e li urtavano dunque con inaudita violenza e con esiti di varie fratture ai danni dei bambini poveri non sufficientemente equipaggiati, che peraltro non venivano soccorsi e morivano nella neve, nel giro di poche ore, a causa dei rigori del freddo. Ma non solo: il Lapizzi e il Manera avevano anche raccontato che in quel periodo, in un albergo a forma di castello, alloggiavano anche alcuni governanti in compagnia di alcuni medici che più di altri avevano contribuito a rimpinguare le casse del governo farabutto, e che i governanti in compagnia dei medici combinavano cose da far strabuzzare gli occhi, come per esempio che avevano torvamente fatto arrivare un treno speciale pieno di giovani donne dalle zone orientali del continente, e una volta arrivato il treno avevano sottoposto le giovani donne ai più torbidi commerci sessuali, nel senso di copule multiple, accoppiamenti contro natura ecc..

E che aveva proprio ragione il Pherlega, urlava il Kariboni ormai prossimo ad aver raso al suolo lo studio medico dell’atterrito medico Ventiglioni, perché qui ormai si era ad un grado di degrado ormai insostenibile.

Dopo aver distrutto lo studio medico del Ventiglioni in stato di choc ed aver lì abbandonato la Frattazzi Eberle in totale stato di confusione, il Kariboni di nuovo fuggiva nella notte ormai sopraggiunta. Il cielo era sereno, soffiava vento da nord, e sollevando lo sguardo il Kariboni in fuga osservava le stelle sopra di lui e si immaginava, in un subitaneo trasporto di poesia, che anche le stelle lo stessero guardando e che pensassero a cosa stava facendo lui, il Kariboni, e a cosa stavano facendo tutti gli altri come lui esseri viventi sulla terra. La visione del cielo stellato nella notte invernale poteva invero far rinascere nel Kariboni i consueti pensieri di malinconia e disillusione e spingerlo verso casa e verso il suo letto di dolore, dove sarebbe poi rimasto per giorni interi senza la forza di far niente ma solo pensando alla sua nullità di uomo vivente e destinato a morire per sempre. Così, almeno, pensa chi sta raccontando la storia e la vicende del Kariboni, ma in realtà il Kariboni, emozionato dalla visione delle stelle, si era sentito confermato nel suo proposito di girare un corto di protesta e denuncia e si era avviato verso la casa del Pherlega per trovare supporto e sostegno.

Si dirigeva dunque il Kariboni verso la casa del Pherlega. E senza stare a dilungarsi sul fatto che il Kariboni percorre la tal e la tal via, svolta al tal angolo, percorre il tal sottopassaggio, suona alla porta della casa del Pherlega, il Pherlega apre la porta ecc., vale dunque la pena di ritrovare il Kariboni stesso seduto in una poltrona nel soggiorno del Pherlega e intento ad ascoltare il Pherlega che gli parla di una stampa appesa ad una delle pareti del soggiorno. La stampa, opera di mano ignota, raffigurava la città in sfacelo quando non era ancora in sfacelo, e infatti il Pherlega, in quanto esperto di arredi urbani e di terreni golenali, faceva notare al Kariboni come gli edifici erano ancora intatti, come ci fosse addirittura uno splendore particolare nella luce qua e là diffusa dai raggi del sole, e come non da ultimo si poteva notare un’espressione di gioia e di serenità sui volti delle persone che si potevano vedere sempre qua e là tra gli edifici riprodotti dalla stampa. E non come adesso, diceva il Pherlega, che non si può neanche andare in giro da tanto tutti sono abbruttiti e pensano solo al danaro e al godimento del sesso nella maniera più torva.

Il Kariboni, per dir la verità, reso stanco dalla sfuriata di distruttore che aveva avuto nello studio medico del Ventiglioni, si era addormentato e dormiva un sonno di elefante simile a quello che lo aveva colpito durante le relazioni letterarie del Logorroico e dell’ Ascetico. Ma il Pherlega, nella penombra del soggiorno, non se ne era accorto, e continuava nelle sue rimembranze:

– Quando ero ancora uno che contava, così il Pherlega al Kariboni addormentato e dunque in realtà a se stesso, questa città era diversa, si sentiva nell’aria un non so che, come un sentore di cambiamento, una specie di comune cammino verso il meglio. E invece adesso che non conto più niente ho come l’impressione che tutto andrà sempre peggio, che ci saranno sempre meno volatili primaverili e sempre più cartelli stradali divelti e spaccati, che poi nessuno saprà più con precisione quale direzione prendere, e che soprattutto non ci sarà futuro, perché tutti ormai pensano al godimento del sesso e trascurano il fine ultimo e primo della procreazione e riproduzione.

Al che il Kariboni, che dal sonno profondo era passato a quello che in chissà quale gergo si definisce un soporoso dormiveglia, sentendo le ultime frasi del Pherlega sui volatili primaverili e il futuro ecc. aveva cominciato a pensare che anche sul Pherlega non c’era niente da sperare al fine del corto di protesta, essendo il Pherlega totalmente perso nei ricordi del passato e nelle sue stramberie di esperto di arredi urbani e terreni golenali. Pensava ai volatili primaverili, il Pherlega, pensava ai torvissimi godimenti sessuali degli abitanti di quella città in sfacelo, pensava al calo delle nascite e cose simili, mentre invece l’azione doveva essere radicale, senza concessioni al cosiddetto romanticismo. Qui insomma bisognava girare un corto che avrebbe mostrato le cose così come stavano, ma mentre il Kariboni pensava alle cose così come stavano ecco che gli succedeva all’improvviso di pensare che in fondo cosa ne sapeva lui di come stavano le cose. E allora si addormentava di nuovo, e quando si svegliava sentiva il Pherlega che diceva sempre le stesse cose, poi si riaddormentava, poi si risvegliava, e il Pherlega sempre lì a ripetere le stesse cose, come una cantilena che toglieva al Kariboni tutte le furie e le pretese di fare chissà cosa.

La notte trascorsa in casa del Pherlega sembrava dunque provocare un cambiamento sostanziale nella vita del Kariboni, ma al risveglio nella luce del mattino, mentre il Pherlega continuava a dire le stesse cose, ecco il Kariboni riafferrato dal suo solito pensiero di girare un corto di protesta e denuncia contro i governanti bestie maledette.

Spinto da questo pensiero, si recava il Kariboni in visita presso un altro suo cosiddetto conoscente, tale Entropeo Heppelzaima, un uomo di mezza età che si occupava, in qualità di critico letterario, di libri e di questioni editoriali. Viveva lo Heppelzaima in una sorta di condominio o falansterio nella parte maggiormente in sfacelo della città in sfacelo o maggiormente in degrado della città in stato di degrado. Un edificio, quello dove abitava lo Heppelzaima, continuamente infestato dalla presenza di topi di fogna, al punto tale, così lo Heppelzaima nel ricevere il Kariboni, che lo Heppelzaima stesso si trovava costretto a interrompere le proprie riflessioni sui libri e sulle questioni editoriali per dare la caccia ai topi, i quali topi erano peraltro molto spesso delle vere e proprie cosiddette pantegane, di lunghezza e più in generale di dimensioni davvero impressionanti. Così almeno sosteneva lo Heppelzaima.

Sedeva dunque di poi il Kariboni in una poltrona nel soggiorno della casa dello Heppelzaima, e sottoponeva allo Heppelzaima il proprio progetto di realizzare un corto di denuncia e di protesta sociale che aveva lo scopo di mostrare le cose come stavano. Ma come detto si trovava il Kariboni in uno stato di dubbio su come stavano le cose, e lo Heppelzaima, reso acuto dalla lettura di molti libri e dall’approfondimento di questioni editoriali, lo notò subito facendo da parte sua notare al Kariboni quanto segue:

– Vedi, caro Kariboni, lo stato delle cose è sempre incerto, sempre fluttuante, e quello che noi pensiamo nei nostri pensieri non è altro che un rispecchiamento deformante dello stato delle cose. A questo devi anche aggiungere che gli stati delle cose sono in numero uguale agli esseri umani viventi su questa terra. Perché in verità ti dico che ogni essere umano vivente, da quando nasce fino a quando muore, è come se si trovasse all’interno di uno stato di cose precostituito, dal quale non può uscire se non appunto morendo. Ognuno vive insomma dentro un suo personale stato delle cose, del quale gli altri, che vivono ciascuno nel proprio stato delle cose, non sanno niente, e di conseguenza la somma di tutti gli innumerevoli stati delle cose è di fatto uguale a niente. Ti spiego quanto ho appena detto facendo il mio esempio: io, ad esempio, vivo nello stato delle cose formato dai libri e dalle questioni editoriali, e altri come me vivono all’interno di questo stato delle cose, ma il mio stato delle cose formato dai libri e dalle questioni editoriali non è lo stesso stato delle cose formato dai libri e dalle questioni editoriali in cui vivono gli altri che vivono nello stato delle cose formato dai libri e dalle questioni editoriali. Quello che ne risulta è che non c’è nessuna comunicazione tra i vari stati delle cose, anche se sono formati dalle stesse cose. Quando poi gli stati delle cose sono formati da cose differenti, allora la comunicazione non solo non c’è, ma è addirittura impossibile. Quelli che vivono all’interno di stati delle cose differenti dal mio non sanno niente del mio stato delle cose, e io, ovviamente, non so niente del loro stato delle cose. Il risultato è che la cosiddetta vita umana, come tra l’altro ho scritto nell’Elogio del semisuicidio al quale sto lavorando da alcuni anni, è formata da infiniti stati delle cose, la cui somma è uguale a zero. E’ come, in altre parole, se noi tutti fossimo dentro qualcosa che portiamo avanti senza sapere cosa sia. Quello che tu hai definito il mio corto di protesta ecc., caro Kariboni, è il tuo personale stato delle cose, ma il tuo stato delle cose non ha niente a che vedere con gli stati delle cose degli altri.

Il mio suggerimento è che dovremmo in realtà semisuicidarci tutti, per porre fine agli stati di cose precostituiti nei quali ci siamo venuti a trovare, ma anche questo mio suggerimento, a ben vedere, è un prodotto del mio personale stato delle cose, del quale gli altri non sanno niente. E quindi mi sembra di poter dire che la vita è come se andasse avanti per forza d’inerzia, o per meglio dire per reciproca indifferenza dei differenti stati delle cose.

Però, pensava il Kariboni tra sé e sé, dice davvero delle cose molto profonde questo Heppelzaima. E poi, rivolgendosi allo Heppelzaima:

– Ma tu pensi allora che gli stati delle cose non si possano proprio modificare?

– No, caro Kariboni, è impossibile, perché si può o si potrebbe modificare solo ciò che esiste, mentre gli stati di cose, sia presi singolarmente sia in generale, sono un insieme di cose che non esistono, e dunque non si possono modificare le cose che non esistono. Potrei dirti in altri termini che la vita umana in generale non è modificabile, in quanto composta da stati di cose la cui somma è uguale a zero. E’ comunque vero che la maggior parte degli esseri umani viventi vive all’interno di uno stato delle cose non sapendo di vivere all’interno di un preciso stato delle cose, e da questo ne consegue che la maggior parte degli esseri umani viventi vive la propria vita in uno stato di sonnambulismo. Gli stati delle cose si interrompono solo con la morte, anche se a dire il vero anche la morte è uno stato delle cose, o per meglio dire la perfezione dello stato delle cose, perché con la morte si annullano tutti i desideri che rendono instabili gli stati delle cose che quando siamo in vita ci rendono irrequieti. Nel mio Elogio del semisuicidio dedico appunto parecchie pagine a questo stato di perenne irrequietezza che nasce dall’inconsapevolezza di trovarsi all’interno di uno stato delle cose. La tua personale irrequietezza, ad esempio, caro Kariboni, nasce dal fatto che tu ti muovi come un sonnambulo all’interno di uno stato delle cose che tu chiami il mio corto di denuncia ecc., ma in realtà non sei tu a muoverti dentro quello stato delle cose, è piuttosto quello stato delle cose che ti muove in maniera inconsapevole e ti fa avere mosse, gesti e parole da sonnambulo.

Le parole dello Heppelzaima parevano sempre più al Kariboni, incerto su come stavano le cose, come parole di grande saggezza e riflessione, così che avrebbe desiderato chiedere altre cose allo Heppelzaima. Ma proprio mentre si stava apprestando ad esternare altre domande ed altri dubbi, faceva il suo ingresso nel soggiorno dello Heppelzaima un’enorme pantegana, che lo Heppelzaima si dava naturalmente ad inseguire con grande foga e senza più badare alla presenza del Kariboni seduto nella poltrona. Al che il Kariboni, resosi conto che lo Heppelzaima non badava più alla sua presenza, si alzava dalla poltrona, usciva dalla casa dello Heppelzaima e lasciava lo Heppelzaima stesso alle prese con la pantegana che aveva fatto il suo ingresso nel soggiorno. Nel lasciare la casa dello Heppelzaima, andava ovviamente pensando il Kariboni alla saggezza e alla grande riflessione delle parole dello Heppelzaima, ripromettendosi di andare di nuovo a trovarlo per ascoltare di nuovo le sue parole di saggezza e di grande riflessione. Il Kariboni, a dire il vero e pensandoci meglio, aveva capito poco o niente di quanto aveva detto lo Heppelzaima, eppure era come se le parole dello Heppelzaima lo avessero convinto. Non avrebbe saputo, il Kariboni, dire convinto di cosa, e purtuttavia si sentiva convinto, e andava in giro per la parte maggiormente in sfacelo della città in sfacelo come uno convinto di qualcosa. Osservava in particolare, il Kariboni, gli altri esseri umani che erano in giro per quella zona in sfacelo della città in sfacelo. E, convinto della verità delle parole dello Heppelzaima, vedeva negli altri esseri umani nient’altro che degli stati di cose che camminavano, si fermavano, guardavano le vetrine dei negozi, indossavano abiti, parlavano, ascoltavano ecc.. Osservando gli esseri umani partendo dal presupposto rappresentato dalle parole dello Heppelzaima, il Kariboni aveva come l’impressione di rendersi conto che lo Heppelzaima aveva ragione, perché ogni essere umano sembrava in effetti non solo muoversi dentro uno stato di cose precostituito ma anzi essere egli stesso uno stato di cose formato dall’insieme dei suoi gesti, dei suoi sguardi, delle sue parole, dei vestiti che indossava ecc..

Pensiero particolarmente malinconico, questo del Kariboni, acuito peraltro dal fatto che l’osservazione del Kariboni aveva luogo nelle primissime ore del pomeriggio di un giorno di febbraio con temperatura di pochi gradi sopra lo zero e grigiore diffuso del cielo. Il Kariboni osservava insomma gli altri esseri umani o stati di cose sullo sfondo per così dire di queste condizioni climatiche, la qual cosa gli provocava, in sintonia sempre per così dire coi suoi pensieri, sentimenti di fortissima malinconia, del tipo per fare un esempio che il Kariboni, che credeva di essere convinto di qualcosa, capiva all’improvviso di non essere convinto di niente, e in quell’ora del giorno con quel cielo così grigio aveva come l’impressione che la vita scivolasse via dalle sue membra e dalla sua cosiddetta anima per andare a finire chissà dove, e che lui non fosse più signore e padrone dei suoi pensieri e delle sue azioni.

Dispiacerebbe, a chi sta raccontando la storia del Kariboni, se venisse sottaciuto il fatto che il Kariboni, nelle primissime ore dei pomeriggi della stagione fredda, andava o cadeva spesso preda di sensazioni di straniamento e di incertezza su dove stava andando la sua vita di essere umano. Ma non deve ugualmente venire sottaciuto il fatto che in quel giorno di febbraio il Kariboni veniva preso da una crisi di incertezza particolarmente violenta. Non era, per chiarire, una delle sue solite malinconie che lo costringevano nel suo letto di dolore, quanto piuttosto una di quelle incertezze che, secondo le parole dello Heppelzaima, erano la causa o l’effetto dell’irrequietezza degli esseri umani. Per fuggire a questa incertezza e irrequietezza o viceversa, gli esseri umani viaggiavano, nel senso che andavano da qualche parte a osservare l’irrequietezza di altri esseri umani e trovando nell’irrequietezza altrui una sospensione almeno temporanea dell’irrequietezza propria.

E così fece, con repentina decisione, anche il Kariboni, con la conseguenza che questa prossima parte della storia del Kariboni – che nel suo complesso è racchiusa sotto il titolo Imperfetto – deve venire racchiusa sotto il titolo

Il viaggio del Kariboni

che si reca appunto in viaggio in un luogo di mare lontano dalla sua città in sfacelo. Al culmine della sua tristezza delle primissime ore pomeridiane di quel giorno di febbraio si era infatti ricordato, il Kariboni, che in una località di mare viveva un altro suo conoscente, tale Trifonio Meinrado Inghilesi, un anziano regista che nei cosiddetti anni della maturità aveva girato due o più probabilmente tre film di protesta sociale. Lo Inghilesi era stato, come si suol dire, uno dei maestri spirituali del Kariboni, ma i suoi due o più probabilmente tre film di protesta sociale non avevano sortito alcun effetto sul pubblico, nel senso che le sale dove venivano proiettati erano rimaste vuote e lo Inghilesi, deluso dal fallimento dei suoi due o più probabilmente tre film di protesta sociale, si era trasferito a mo’ di ritiro e con decisione inappellabile nel luogo di mare dove adesso si stava appunto recando il Kariboni.

Seduto nello scompartimento di un treno, si recava dunque il Kariboni verso il luogo di mare con lo scopo di incontrare lo Inghilesi e trovare sollievo nell’incontro.

Il treno viaggiò dapprima attraverso pianure nebbiose. Il Kariboni osservava il paesaggio che sfilava al di là del finestrino, e veniva colpito dal gioco di apparenze e disparenze delle cose: campi, casolari, agglomerati urbani in lontananza, giganteschi tralicci dell’elettricità, passanti isolati con cani al guinzaglio o senza, ecc. si susseguivano senza soluzione di continuità, in una sorta di fuga a ritroso. Questo gioco di apparenze e disparenze fece insorgere nel Kariboni pensieri di estrema profondità ad esempio sul passare del tempo, del tipo che il Kariboni pensava che col passare del tempo le cose, nella vita di un essere umano vivente, fuggivano via a ritroso e si perdevano con la stessa velocità del gioco di apparenze e disparenze che osservava dal finestrino. Oppure che si era spinti continuamente in avanti, e questo essere spinti continuamente in avanti faceva sì che ci si lasciassero alle spalle infinità di cose perdute nel tempo. Oppure il Kariboni, rievocando forse un racconto di uno scrittore americano che aveva letto in gioventù, si figurava il passare del tempo come un imbuto o come una voragine o addirittura come un gorgo oceanico dove le cose ineluttabilmente si perdevano.

Mentre il Kariboni era immerso in questi pensieri sul passare del tempo, il treno lasciò le pianure nebbiose e si inoltrò in una valle grigia e chiusa, immersa in una luce crepuscolare. A questo punto venivano allora in mente al Kariboni altri e consimili pensieri, del tipo ad esempio che il Kariboni, osservando le case di quella valle grigia e chiusa, si chiedeva cosa facessero gli abitanti di quelle case, come trascorressero la loro vita, con quali pensieri riempissero il tempo delle loro giornate. Non trovando risposta, ovviamente, perché quelle case che sfilavano veloci oltre il finestrino nella valle grigia e chiusa rappresentavano stati di cose che l’immaginazione del Kariboni non riusciva nemmeno a figurarsi. Il Kariboni si trovava dunque confermato nella sua convinzione di essere convinto di qualcosa, vale a dire di non essere convinto di niente, e in questa convinzione si sentiva come felice e protetto, anche se parimenti avvertiva come una persistente nota di tristezza annidarsi nella sua felicità e nel suo sentirsi protetto.

Quando il treno, poi, uscito dalla valle grigia e chiusa, sostò in una stazione, il Kariboni si mise ad osservare l’edificio della stazione stessa, gli esseri umani che sostavano o camminavano sui marciapiedi che separavano i binari, un uomo che stava leggendo un giornale, un bambino con un giocattolo tra le mani, e tutto gli apparve fisso ed immobile, come un normalissimo e incredibile spettacolo dell’ovvietà quotidiana. Nella sua triste felicità di essere convinto di qualcosa e cioè di essere convinto di niente, il Kariboni aveva come l’impressione di riuscire a guardare il mondo con occhi nuovi, senza più aspettative, lasciando che fossero le cose a venire a lui e non il contrario. E allora la sua città in sfacelo dominata dai governanti bastardi schifosi e il suo progetto di girare un corto di protesta e denuncia gli apparvero come cose lontanissime, o forse per meglio dire addirittura come pensieri o stati di cose di un altro uomo.

Il treno arrivò infine alla stazione del luogo di mare, meta del viaggio del Kariboni. E da questo punto in poi, almeno per alcune righe o addirittura una pagina intera, chi sta raccontando la storia del Kariboni deve raccontare di quello che si potrebbe definire lo stato di grazia del Kariboni.

Fine viaggio del Kariboni

Sceso dal treno, il Kariboni si mosse infatti in direzione della casa dove sapeva abitare lo Inghilesi. Raggiunta la casa e suonato il campanello e non ricevendo alcuna risposta, venne a sapere da un vicino di casa dello Inghilesi che lo Inghilesi sarebbe tornato di lì a qualche giorno, essendosi recato lo stesso Inghilesi in una località termale in collina con lo scopo di seguire un ciclo di cure termali. Nell’attesa del ritorno dello Inghilesi, il Kariboni prendeva allora alloggio in uno dei pochi alberghi aperti in quel periodo dell’anno e si dava a far passare il tempo nell’attesa appunto del ritorno dello Inghilesi.

Quello che chi sta raccontando la storia del Kariboni ha definito come stato di grazia del Kariboni può essere descritto o meglio illustrato con alcuni esempi. Come primo esempio troviamo il Kariboni seduto su uno scoglio mentre osserva il mare in tempesta. Le onde si sollevano alte con fragoroso spumeggìo contro il molo e gli scogli, ma nel loro sollevarsi il Kariboni non individua alcuna irrequietezza. Il Kariboni riflette pensando che quelle onde non sanno nulla del suo stato di cose, vale a dire del suo progetto di girare un corto di denuncia e protesta: gli paiono in un certo qual modo contente e soddisfatte di essere onde e basta. Il cielo è coperto, il mare è color del piombo, ma all’orizzonte alcuni raggi di sole filtrano dalle nuvole.

Lo stato di grazia del Kariboni consiste precisamente nel fatto che il Kariboni stesso, osservando le onde che non sanno niente del suo stato di cose, si sente confermato nel suo essere convinto di qualcosa, e cioè di essere convinto di niente. O per meglio dire, di fronte a quelle onde ha la sensazione di essere niente, lui con tutti i suoi pensieri su come cambiare lo stato delle cose. E questa sensazione lo pone in consonanza con la semplice e banale circostanza del suo destino di essere umano vivente, che proviene dal niente e finirà nel niente, come una cosa mai esistita.

Come secondo esempio troviamo il Kariboni che cammina per le vie del luogo di mare, all’ora del tramonto. L’ultima luce del sole colora di rosa le facciate degli edifici, e il Kariboni si sente uno qualunque o uno qualsiasi nel va e vieni dell’ora del tramonto che poi è anche l’ora del cosiddetto rientro serale. Prova la sensazione, il Kariboni, di qualcosa che si potrebbe definire come sospensione del tempo, nel senso che il Kariboni ha come la sensazione che in quell’ora del tramonto il tempo sia come immobile, e le cose che accadono siano destinate in qualche modo ad essere eterne. Il che, ovviamente, come vuole e trova giusto e doveroso sottolineare chi sta raccontando la storia del Kariboni, non è vero, perché ogni cosa che accade è destinata a finire nel niente, come una cosa mai esistita. Ma è vero, d’altro canto, che il Kariboni si trova in uno stato di grazia, dove a lui, convinto di essere convinto di niente, tutto appare normale, ed è dunque visitato e letteralmente posseduto dalla potenza dell’illusione.

Detto dipoi che il Kariboni, posseduto dal suo stato di grazia con tanto di pensieri di onde del mare e colori del tramonto, trascorreva una sera tranquilla nella sua stanza d’albergo ecc., si può forse raccontare a questo punto dell’incontro tra il Kariboni e lo Inghilesi.

Che avviene il giorno seguente la sensazione di sospensione del tempo provata dal Kariboni, col Kariboni che suona il campanello della casa dello Inghilesi e con lo Inghilesi, tornato dal ciclo di cure termali, che accoglie il Kariboni con grande ospitalità, del tipo per fare alcuni esempi che lo Inghilesi dice al Kariboni di fare come se fosse a casa propria, offrendogli cioccolatini e caffè in abbondanza e così via, e facendolo sedere su una poltrona di estrema comodità con vista sul mare.

Il Kariboni si trova ancora nello stato di grazia, e di conseguenza non gli viene in mente il motivo per cui è venuto a trovare lo Inghilesi. Il quale, da par suo, notando il silenzio e il fare un po’ impacciato del Kariboni, gli rivolge la parola dicendogli quanto segue:

– Ho fatto una settimana di cure termali, ma non è servito a niente, perché ti spediscono alle terme non per curarti ma solo per salassarti. E’ tutta colpa dei medici in combutta con i governanti corrotti, sì, che a pensarci bene mi verrebbe voglia di girare un film di protesta per far vedere come stanno realmente le cose nelle cure termali ma anche in generale nel mondo. Ma ormai sono vecchio e stanco. Adesso tocca a quelli come te, caro Kariboni. Di’, davvero, perché non lo giri tu un bel filmone di protesta e di denuncia?

Le parole dello Inghilesi, che inizialmente giunsero al Kariboni come parole dette in una lingua che il Kariboni in stato di grazia non comprendeva, presero però lentamente forma nella mente del Kariboni stesso e lo fecero uscire dallo stato di grazia. In un primo tempo, a dire il vero, il Kariboni come detto non riusciva a capire le parole dello Inghilesi, perché gli sembravano delle parole di irrequietezza, e il Kariboni non riusciva soprattutto a capire perché in quel luogo di mare, con lo spumeggìo delle onde e i colori del tramonto, si dovesse comunque continuare a pronunciare parole di irrequietezza. Ma quando lo Inghilesi ebbe finito di parlare e domandò al Kariboni perché non lo girava lui un bel filmone di protesta, il Kariboni si sentì all’improvviso come se scivolasse fuori da un guscio, e quel guscio dal quale stava scivolando fuori era esattamente lo stato di grazia che per qualche ora o per qualche giorno lo aveva fatto vivere senza aspettative nei confronti del mondo. E adesso, scivolato fuori dal guscio e come ipnotizzato dalle parole dello Inghilesi, pareva al Kariboni come di essersi risvegliato da un sogno, un sogno che chi sta raccontando la storia del Kariboni amerebbe definire come il sogno della vita come non è, e senza neanche rispondere alla domanda dello Inghilesi ecco che il Kariboni usciva quasi di corsa dalla casa dello stesso Inghilesi, si avviava verso la stazione del luogo di mare senza più osservare le onde e i colori del cielo, e prendeva il primo treno che lo riportava nella sua città in sfacelo e disfazione e degrado.

Il viaggio di ritorno del Kariboni non merita di essere raccontato. Perché se anche il treno, in senso contrario rispetto all’andata, percorse una valle grigia e chiusa e poi pianure nebbiose; perché se anche in questo viaggio di ritorno il Kariboni osservò il gioco di apparenze e disparenze fuori dal finestrino, non può d’altro canto passare sottaciuto che il Kariboni, a causa delle poche ma a quanto pare decisive parole dello Inghilesi, era ripiombato in quello che lo Heppelzaima aveva definito come stato di sonnambulismo, con aggiunta del fatto che, uscito dallo stato di grazia, il Kariboni era stato riafferrato da tutte le sue irrequietezze che, a lui come a tutti gli altri esseri umani viventi, impedivano di osservare il mondo perché persi ciascuno nel proprio personale stato di cose.

Il Kariboni arrivò dunque nella sua città in sfacelo degrado e disfazione senza quasi accorgersene. E qui ci si può forse concedere di aprire un piccolo inciso e di paragonare il viaggio di ritorno del Kariboni al viaggio degli esseri umani viventi verso la morte, nel senso che gli esseri umani viventi, in moltissimi casi, arrivano alla loro destinazione, vale a dire alla morte, senza nemmeno essersi accorti di avere viaggiato, e alla fine scompaiono come cose mai esistite. Sia qui concesso a chi sta raccontando la storia del Kariboni di fare i complimenti a se stesso per questa bella e profonda e incisiva e congeniale metafora.

Il Kariboni arrivò dunque nella sua città in sfacelo degrado e disfazione senza quasi accorgersene. Appena sceso dal treno e uscito dalla stazione, si recava subito verso il falansterio dove abitava lo Heppelzaima, perché voleva parlare con l’Heppelzaima e dirgli che non era vero che gli stati di cose sono immodificabili, e che lui, il Kariboni, avrebbe girato il corto di protesta e denuncia sociale e avrebbe fatto vedere le cose come stavano, con la conseguenza che le cose si sarebbero modificate e forse la si sarebbe fatta finita una volta per tutte con i governanti maiali bastardi. Ma, mentre si stava recando verso il falansterio dove abitava lo Heppelzaima, il Kariboni pensò che in fondo era inutile spiegarsi con lo Heppelzaima che tanto non avrebbe capito le sue ragioni, e dunque telefonò al Lapizzi e al Manera dandogli appuntamento a casa sua per farsi raccontare come erano andate le cose nel frattempo.

Malissimo, raccontarono il Lapizzi e il Manera circa un’ora dopo in casa del Kariboni. I bambini, durante le lezioni, erano diventati ormai assolutamente ingovernabili, nel senso solo per fare un esempio che un bambino figlio di genitori ricchi aveva raccontato a suo padre che il Manera possedeva un’automobile che costava meno di diciottomila euro, con il risultato che il giorno dopo il Manera si era ritrovato in classe il genitore ricco del bambino ricco, il quale genitore gli chiese spiegazioni del perché lui, il Manera, non possedeva o possedesse una macchina che costava più di diciottomila euro, aggiungendo che lui, il genitore, trovava assolutamente inaccettabile e riprovevole che il maestro di suo figlio possedeva o possedesse un’automobile che costava meno di diciottomila euro ecc.. Il Lapizzi, dal canto suo, raccontò di cose non meno incredibili, del tipo per dire che una bambina figlia anche lei di genitori ricchi lo aveva rimproverato di non vestire all’ultima moda, in particolare indossando scarpe che costavano meno di duecento euro, con il risultato che il giorno dopo il Lapizzi si era ritrovato in classe la mamma ricca della bambina ricca, la quale mamma gli chiese dapprima spiegazioni riguardo alla sua (del Lapizzi) povertà, e in un secondo tempo gli fece delle profferte lubriche e lascive aggiungendo a pretesto di tali profferte il fatto che lei, la mamma ricca, trovava particolarmente eccitante il fatto di poter avere uno o più coiti in differenti posture con un povero sotto tutti gli effetti quale era il Lapizzi. A questo punto prendeva nuovamente la parola il Manera, raccontando di un altro bambino ricco che si vantava di aver ucciso almeno venti bambini poveri nel corso di una settimana bianca, e il Lapizzi parlò di un altro bambino ricco che prendeva a calci e pugni tutti i bambini che non avessero anche loro, come lui, un apparecchio telefonico portatile del prezzo di almeno quattrocento euro con di più anche la possibilità di digitare e inviare messaggi qua e là per il mondo, e il Manera raccontò di un’altra bambina ricca che spendeva ventiduemila euro per andare in vacanza con i genitori, e il Lapizzi di un bambino che aveva la televisione con lo schermo gigante con l’abbonamento per vedere le partite di calcio e i film alla moda ecc., e in conclusione tutti e due, il Lapizzi e il Manera, raccontarono che un giorno tutti i bambini delle loro due classi si erano messi per così dire a fare a gara a chi possedeva i vestiti più costosi, le macchine più costose, i viaggi più costosi ecc., con il risultato che loro due, il Lapizzi e il Manera, si erano sentiti umiliati con quasi pensieri di suicidio che però non avevano messo in atto per istinto di sopravvivenza da un lato e in attesa del ritorno del Kariboni dall’altro.

Il quale Kariboni, ascoltando i resoconti dei poveri Lapizzi e Manera, decise che il corto di protesta si doveva girare una volta per tutte, e che insomma caspita qui non c’era più proprio tempo da perdere.

Il giorno dopo, di conseguenza, dopo una notte praticamente insonne passata a rimuginare sui racconti o resoconti del Lapizzi e del Manera, si recava il Kariboni ad ora molto presta da un suo altro conoscente, un giovane aspirante scrittore, tale Eawar Perkott Rosini, che stava lavorando da anni ad un romanzo di denuncia e protesta e che però, da altrettanti anni, era fermo al capitolo diciottestimo del suddetto romanzo di denuncia e di protesta.

Ma a questo punto è purtroppo obbligatorio, per non dire addirittura morale ed educativo e pedagogicamente congruo, riferire di una cocente delusione patita dal Kariboni. Così come di una terribile esperienza. Il Kariboni si recava infatti nella casa dove abitava il Rosini con lo scopo di parlare con il Rosini stesso di un’eventuale sinergia (al Kariboni era venuta in mente questa parola mentre si recava verso la casa del Rosini) tra il suo (del Kariboni) corto di protesta e denuncia e il suo (del Rosini) romanzo anche di denuncia e protesta o di protesta e denuncia. E mosso da questo scopo si aspettava di trovare nel Rosini un assenso immediato ed entusiastico alla sua proposta. Il Rosini, invece, sprofondato in una poltrona con la televisione accesa e il telecomando nelle mani, accoglieva il Kariboni con fare distratto, del tipo che lo guardava senza dare l’impressione di vederlo, che lo sentiva senza dare l’impressione di ascoltarlo e così via. Si limitò a dire, a precisa domanda del Kariboni, che il suo romanzo di protesta e denuncia era ancora fermo al capitolo diciottesimo, e che molto probabilmente non sarebbe nemmeno andato avanti a scriverlo, dal momento che non vedeva alcun senso non solo nello scrivere un romanzo ma anche, più in generale, nel fare qualcosa in questa vita. A sostegno di questa sua decisione, argomentava il Rosini a proposito di quello che lui stesso definiva “inventarsi qualcosa per tirare avanti” e più nello specifico “inventarsi qualcosa per non aver paura della paura della morte”, con discorsi veramente pazzeschi che qui si possono pressappoco riassumere come segue (senza il -, dato che trattasi di un riassunto):

Se io considero la vita degli esseri umani, la vedo totalmente dominata dal pensiero della morte. Ma siccome gli esseri umani non hanno il coraggio -anche di fronte all’evidenza- di pensare questo pensiero, ecco che si sforzano di pensare pensieri di tutt’altro genere. In genere si tratta di pensieri piacevoli, nel senso che sono pensieri lontanissimi dal pensiero della morte. Siccome il tempo che passa porta ogni essere umano verso la morte, ecco che gli esseri umani cercano di non pensare al tempo che passa, o meglio ancora fanno di tutto per non percepire il tempo che passa. La vita degli esseri umani, in generale e in via di principio, mi pare caratterizzata dal pensiero di non pensare al tempo che passa, o meglio dal pensiero di riempire il tempo che passa in modo tale che non si abbia l’impressione che passi. Io mi invento qualcosa, il tempo passa ma io non me ne accorgo, ed ecco che mi sento in salvo. Ma dal momento, caro Kariboni, che queste mie argomentazioni potrebbero sembrare a prima vista le argomentazioni di un pazzo, ti farò alcuni esempi. Lo stato perfetto dell’essere umano consiste nell’essere nulla, nel senso di non fare nulla, percepire il tempo che passa e andarsene verso la morte trasportato appunto dal tempo che passa, di scomparire insomma come una cosa mai esistita. Ma il tempo che passa fa paura: quando lo senti, hai come l’impressione di avvertire un sibilo violento, lancinante, che ti penetra dalle orecchie e nel cervello e poi si diffonde in tutte le membra. Non è il semplice tic-tac dell’orologio. No, è qualcosa di molto più nascosto e tuttavia percepibile. A me, ad esempio, capita di percepire il tempo che passa soprattutto quando sono sveglio nel cuore della notte. Allora, anche se intorno a me, in questa stanza per esempio, tutto è fermo e immobile e silenzioso, io avverto però qualcosa come un risucchio, una specie di fischio nelle orecchie, un calore del cervello e insieme un irrigidimento e raffreddamento delle membra. In un istante del genere io sto percependo il tempo che passa. E’ una percezione bellissima e dolorosissima, che gli esseri umani cercano di evitare. E per evitarla si inventano qualcosa. Mi sembra anzi di poter dire che tutto quanto si trova su questa terra è inventato all’unico scopo di non sentire il sibilo del tempo che passa. Se accendo la televisione, ad esempio, le voci e i suoni della televisione coprono il sibilo del tempo che passa; se parlo con un’altra persona, come con te in questo momento, il suono delle mie parole copre il sibilo del tempo che passa; se lavoro tutto il giorno come un forsennato il mio lavorare come un forsennato copre il sibilo del tempo che passa; se sono impegnato in qualcosa, come scrivere qualcosa o credere in un dio oppure a non so cos’altro nel mondo, il mio scrivere e il mio credere coprono il sibilo del tempo che passa e mi fanno illudere di star bene, di essere salvo. Ma io non voglio star bene, non voglio essere salvo, vorrei soltanto stare e essere, ma quando semplicemente sto e sono ecco che torna a farsi sentire il sibilo del tempo che passa. Tento allora di fare qualcosa, ma non ce la faccio. Da quando ho cominciato a percepire sempre più distintamente il sibilo del tempo che passa non ho più la forza di fare niente, perché vedo che tutto è inventato, che tutto non ha senso, che tutto è fatto per coprire il sibilo del tempo che passa…

E a questo punto il Rosini avvicinava il telecomando (che in realtà era un sofisticatissimo tipo di pistola con silenziatore) alla tempia e sparava un colpo che gli fracassava il cervello e lo faceva morire immediatamente di morte totale e letale, non senza schizzi di sangue qua e là per la stanza.

Al che il Kariboni, atterrito e senza parole per quanto gli era capitato di dover vedere, si allontanava lestissimo dalla casa del Rosini e, non sapendo cosa fare, si recava in un posto telefonico pubblico e telefonava al Lapizzi e al Manera raccontando loro cosa era successo e di nuovo chiedendo loro di trovarsi a casa sua quanto prima per vedere cosa fare o insomma per (non sapeva di preciso cosa dire).

La sera di quello stesso giorno ecco dunque il Lapizzi e il Manera a casa del Kariboni. Sconvolti dall’episodio del Rosini, non sapevano il Lapizzi e il Manera cosa dire, se non continuare a raccontare le storie delle angherie che subivano dai bambini figli di genitori ricchi.

Che c’erano al proposito, dicevano, altre cose nuove e terribili da raccontare. Per esempio, diceva ad esempio il Lapizzi, si poteva portare l’esempio di alcuni bambini che ormai non parlavano più, nel senso che comunicavano soltanto con coloro che, come loro, erano muniti di un apparecchio telefonico portatile, non già però comunicando per via orale quanto piuttosto mandandosi dei cosiddetti messaggi digitati; e che un bambino si era rivolto a lui, il Manera, dicendogli che se proprio voleva continuare a far lezione doveva munirsi anche lui di un apparecchio telefonico portatile e comunicare quello che aveva da comunicare tramite messaggi digitati. E anzi quel bambino aveva raccontato la cosa anche ai genitori, e così il giorno dopo il Manera si era ritrovato in classe sia la madre che il padre di quel bambino che gli chiedevano perché non possedesse un apparecchio telefonico portatile col quale fare lezione. Al che lui, il Manera, non sapendo cosa rispondere, veniva pubblicamente additato dai due genitori all’infame vergogna di chi non possiede un apparecchio telefonico portatile, con grandi risate dei bambini di tutta la classe.

Fa’ qualcosa Kariboni fa’ qualcosa Kariboni ti preghiamo, così non si può andare avanti, dicevano il Lapizzi e il Manera. E il Kariboni, spronato per così dire da queste parole di supplica, prendeva la decisione di andare in un paese straniero, per vedere se anche nel paese straniero le cose erano tali che non si poteva andare avanti così. Questa ferma e repentina decisione del Kariboni obbliga dunque chi sta raccontando la storia e le vicende del Kariboni a raccontare del

Secondo viaggio del Kariboni (in un paese straniero)

che ha luogo dapprima attraverso un paesaggio di laghi e montagne, che il Kariboni però, immerso nei suoi pensieri di vedere come stanno le cose nel paese straniero, non riesce a vedere, pur essendo notoriamente quei laghi e quelle montagne delle bellezze non solo paesaggistiche ma anche turistiche di prim’ordine. Il treno oltrepassa poi una frontiera e attraversa pianure che lasciano intravedere, all’orizzonte, altre pianure che il treno però non attraverserà e delle quali dunque il Kariboni non saprà nulla. Il Kariboni, come i lettori forse ricorderanno, è un uomo molto corpulento, in sovrappeso, con i valori ematici non nella norma, ma seduto su quel treno aveva il Kariboni stesso la sensazione di sentirsi piccolo, leggerissimo, quasi trasparente e invisibile agli altri, lui con tutti i suoi progetti di girare un corto di protesta ecc.. Si immaginava, infatti, il Kariboni, gli esseri umani che vivevano in quelle pianure e parlavano un’altra lingua dalla sua e non sapevano niente del suo progetto di un corto di protesta ecc., e così pensando gli tornavano in mente le parole dello Heppelzaima sulla staticità degli stati di cose. Arrivato nella stazione del suo luogo di destinazione assisteva poi il Kariboni ad una scena che lo faceva riflettere a fondo e che dava per così dire una svolta assolutamente decisiva alla sua storia. Accadeva infatti che nell’immenso atrio della suddetta stazione, nell’indifferenza generale degli esseri umani che andavano di qua e di là, un uomo sociologicamente definito un reietto della società e cioè sbronzo o drogato o semplicemente non in grado di star al passo con le richieste del mondo e della vita, accadeva dunque che suddetto uomo, nel mentre stava apprestandosi a salire una rampa di scale, cominciava a barcollare con fortissimi ondeggiamenti e infine cadeva sbattendo violentemente il capo. Con esiti non mortali, a dire il vero, e nemmeno di accertabile gravità, ma con l’esito che il Kariboni, quasi letteralmente folgorato da ciò che gli era capitato di vedere, prendeva il primo treno e in direzione opposta attraverso pianure e poi laghi e montagne di rilevanza non solo paesaggistica ma anche turistica tornava nella sua città in sfacelo e degrado, dove subito non sapendo cosa fare con la fortissima impressione di non capire più niente si recava dallo Heppelzaima raccontandogli l’accaduto e chiedendo allo Heppelzaima stesso delle ulteriori chiarificazioni sullo stato delle cose.

Fine del secondo viaggio del Kariboni (in un paese straniero)

Al che lo Heppelzaima, anche lui colpito dal racconto del Kariboni, svolgeva le seguenti considerazioni che imprimevano un’ulteriore decisiva e improvvisa svolta nella storia del Kariboni:

– Vedi, caro Kariboni, ti devo proprio ringraziare, perché quanto tu mi hai appena raccontato mi ha fatto tornare in mente un’espressione che volevo utilizzare nel mio Elogio del semisuicidio ma che poi avevo dimenticato: l’infinita nebbia degli eventi che accadono al mondo. Devi infatti figurarti il mondo come un’infinita nebbia di eventi che si verificano. O per meglio dire, devi figurarti il mondo come un’immensa nebbia dalla quale emergono a volte gli eventi che accadono. Perché gli eventi, caro Kariboni, non accadono veramente: accadono solamente come racconto degli eventi stessi.

Facciamo l’esempio dell’evento al quale ti è capitato di assistere nella città straniera: l’evento al quale ti è capitato di assistere nella città straniera esiste solo perché tu, nel momento in cui l’evento si è verificato, ti trovavi appunto in quella città straniera nella quale l’evento si è verificato. Se tu non ti fossi trovato in quel momento in quella città straniera, ecco che l’evento non si sarebbe verificato. Ma non perché tu sei o sia la causa dell’evento che si è verificato, quanto piuttosto perché l’evento che si è verificato è emerso dalla infinita nebbia degli eventi che accadono proprio perché ti è capitato casualmente di osservarlo. Tu hai osservato l’evento e me lo hai raccontato. E quindi l’evento che si è verificato è piuttosto il racconto dell’evento che si è verificato…

Al che il Kariboni fece una faccia come di uno che stava capendo poco, e che non riusciva a raccapezzarsi in quei discorsi folli dello Heppelzaima che parlava di eventi che accadono e però non accadono, di racconti degli eventi e così via. Ma lo Heppelzaima di niente accorgendosi di quanto si svolgeva per così dire nella mente e sulla faccia del Kariboni, così continuava:

– Tutto il mondo è costituito da eventi che accadono solo nel momento in cui vengono raccontati. Ogni giorno, nel mondo, si verificano miliardi e stramiliardi di eventi, ma sono pochi gli eventi che, oltre a verificarsi, accadono veramente. Accadono veramente, infatti, solo gli eventi che vengono raccontati. Se tu non fossi mai andato in quella città straniera e non ti fosse capitato casualmente di assistere al verificarsi di quell’evento che mi hai raccontato, quell’evento si sarebbe semplicemente verificato ma non sarebbe accaduto. Da tutto questo ne consegue che ci sono solo eventi che si verificano, ma nessun evento che accade. Quelli che vengono raccontati alle televisioni o sui giornali di carta stampata sono eventi che, in quanto raccontati, si presume che siano accaduti, ma in verità ti dico che si sono solo verificati, insieme agli altri stramiliardi di eventi che si verificano ogni giorno nel mondo. Ma i gazzettieri delle televisioni e dei giornali di carta stampata hanno la pretesa di raccontare il mondo così com’è, e non si accorgono che gli eventi che raccontano si sono solo verificati, e che sono accaduti solo nel momento in cui loro, i gazzettieri, hanno deciso in base a non so quali criteri di estrarli dall’infinita nebbia degli eventi che si verificano e poi di raccontarli. Ne risulta che i notiziari alle televisioni e le pagine dei giornali di carta stampata sono pieni di eventi che si crede siano accaduti ma in realtà si sono solo verificati. E allora tutti quelli che guardano le televisioni e leggono i giornali di carta stampata finisce che si fanno una falsa idea sul mondo e più in generale perfino sulla vita: perché i gazzettieri gli fanno credere che il mondo è composto da eventi che accadono, mentre invero è composto da eventi che semplicemente si verificano…

Al che il Kariboni, colpito da queste ulteriori spiegazioni dello Heppelzaima, smise di fare la faccia di uno che non capisce e considerò di nuovo i discorsi dello Heppelzaima non come discorsi di un pazzo quanto piuttosto come i discorsi di uno che aveva capito molte cose del mondo e più in generale della vita. E con questa consapevolezza salutò lo Heppelzaima ringraziandolo e uscì per le strade della città in sfacelo con la faccia di uno che aveva finalmente capito come era fatto il mondo e più in generale come era fatta la vita.

Fu in questo modo, e non altrimenti, che ebbe luogo, si verificò o accadde la svolta improvvisa e decisiva nella storia del Kariboni, che si è fino a questo punto raccontata e si deve raccontare ancora non per molto. Stato d’animo perfetto, quello del Kariboni per le strade della città in sfacelo, più perfetto ancora dello stato di grazia che lo aveva per così dire visitato durante il cosiddetto soggiorno nella città di mare. Ed ecco allora che il Kariboni se ne andava in giro per le strade della sua città in stato di degrado con la faccia di uno che aveva capito la differenza tra ciò che semplicemente si verifica e ciò che semplicemente accade.

Gli capitò ad esempio di passare non distante da un corteo funebre. Se il morto di quel corteo funebre, pensò allora il Kariboni, fosse un morto celebre e famoso (del tipo per dire uno sportivo, un banchiere, un attore cinematografico o comunque in generale uno di quelli che appaiono spesso alle televisioni e sui giornali), la sua morte non si sarebbe semplicemente verificata ma sarebbe anche e soprattutto accaduta, perché le televisioni e i giornali l’avrebbero estratta dalla nebbia infinita degli eventi che si verificano al mondo e l’avrebbero raccontata. Ma siccome il morto di quel corteo funebre non era un morto famoso, ecco che la sua morte si limitava ad essere un semplice verificarsi, e dunque di fatto una cosa mai accaduta. Sarebbe bastato, infatti, che il Kariboni avesse preso un’altra strada e fosse passato molto distante dal corteo funebre (alla distanza sufficiente per non poterlo vedere), ed ecco che il corteo funebre non solo non si sarebbe verificato ma non sarebbe nemmeno letteralmente esistito per lui.

Queste malinconiche considerazioni lo fecero riflettere, come non mai prima di quel momento, sul suo progetto di girare un corto di protesta e denuncia civile. Vide allora il Kariboni la propria vita alla stregua di un viaggio su un treno, come un gioco di apparenze e disparenze nel quale si immaginava molto e ci si facevano tante idee ma si sapeva ben poco o forse perfino niente del tutto. E così anche le persone che erano entrate nella sua storia gli apparvero come personaggi in un film o meglio ancora come compagni di viaggio in un viaggio inutile e senza meta. Perché, così pensava il Kariboni, se non si riesce a distinguere tra ciò che si verifica e ciò che accade, allora non si capisce più niente, e uno non ha altro da fare se non andarsene come un viandante qualsiasi lungo le strade del mondo, nel suo personale immodificabile stato delle cose.

Niente è vero, pensava il Kariboni sotto l’effetto quasi ipnotico delle parole e spiegazioni dello Heppelzaima.

Guardava le persone che camminavano per le strade della città in sfacelo e niente (nel senso di nessuno, ma il Kariboni pensava proprio “niente”) gli sembrava vero.

Gli sembrava, in altri termini, che tutto si verificasse ma niente accadesse, e pensava di conseguenza che forse lo sfacelo della sua città e più in generale del mondo e più in generale ancora della vita era colpa di quelli che andavano in giro pensando che le cose accadevano e facevano di tutto per convincere gli altri che le cose accadevano. Di conseguenza, il mondo risultava popolato da pazzi che erano convinti che le cose accadevano e che si comportavano di conseguenza, con gesti e azioni e pensieri da gente convinta che le cose accadono. Questo era, semplicemente: il motivo di tutte le irrequietezze, le malinconie, del tanto immaginare e farsi idee sapendo poco e forse perfino niente del tutto.

Già, forse era così semplice, in fondo.

E così il mondo appariva al Kariboni come una grande tenda circense popolata da esseri che facevano di tutto per convincersi a vicenda di qualcosa, e vedeva se stesso sotto quella grande tenda intento a convincere gli altri del suo corto di protesta e denuncia ecc..

Pena, infinita pena. Ma anche gioia. Una gioia oscura, silenziosa, come un eterno stato di grazia. Ecco il sentimento che si fece largo infine e definitivamente e da ultimo nella cosiddetta anima del Kariboni. Pena per se stesso, pena per tutti i personaggi che erano entrati nella sua storia che peraltro non aveva scritto neanche lui ma era un altro a scriverla che lui nemmeno conosceva. Pena, infinita pena. Ma anche gioia, infinita gioia.

E allora gli venne in mente quanto segue: scomparire.

E allora gli tornarono alla mente tutti i personaggi che erano entrati nella sua storia: il Mazzucchelli il Lapizzi il Manera l’Intragna il Fanizzi la Ghislanzoni Simoneschi l’Aldegheri la Muscionico Catenazzi la Soundso il Lanfranchini il Logorroico l’Ascetico il Mefitico il Rezzoniko il Pherlega la Frattazzi Eberle il Ventiglioni lo Heppelzaima lo Inghilesi il Rosini. Et voilà, addio, addio…

Li vide tutti seduti in un treno diretto chissà dove. E lui con loro sul treno pronunciare come ultime parole: – C’è verità solo nei fenomeni. E vedere come ultima immagine quella del treno che arriva in una stazione, e sentire come ultima voce una voce che dice: – Stazione termine: Tutti scendono.

Così, almeno, ha sentito dire una volta chi ha raccontato la storia del Kariboni in un viaggio suo di lui. Che anche lui tra l’altro non sapeva dove lo aveva portato: come una cosa mai esistita.

(II – Fine)