Timbuctù, la misteriosa

di in: Timbuctù

Un viaggio nel mito, quello di Caillié, un’ossessione. Al centro, il luogo mitico per eccellenza in Occidente: Timbuctù, la misteriosa. Così misteriosa che il suo stesso nome appare fluttuante, non si sa cioè esattamente come indicarla: col nome che oggi appare sulle carte del Mali, dove si trova, nel deserto del Sahara? E cioè Tombouctou, come la chiamarono i coloni francesi, nome che ufficialmente è rimasto. Oppure col nome che riportano i geografi arabi che per primi la descrivono, Tunbuktū, o con quello con cui la indicano i nomadi Tuareg che nella città arrivano con i carichi di sali e di merci dal deserto, Timbutku, dal nome, secondo la tradizione, di una schiava che viveva nei pressi di un pozzo dove i viaggiatori passavano la giornata e da cui il villaggio sarebbe poi nato? O infine con quello, Timbuctù, che noi abbiamo adottato? Come se ognuno, dando la sua variante di nome, avesse voluto impossessarsene. Per Caillié tutta la vita, che a causa di quel viaggio fu assai breve, si riassunse in un unico scopo, arrivarci, come che fosse, e lo fece a piedi, partendo dal Senegal e percorrendo le centinaia e centinaia di chilometri di cui racconta il Journal, il minuzioso diario tenuto di nascosto per le vicende che il lettore via via vedrà.

Il mito letterario di Timbuctù era nato, in Europa, nel ‘500, e si può far risalire a un testo, la Descrizione dell’Africa di Leone l’Africano, che ne racconta la magnificenza. Hasan ben Mohammed al-Wazzān al-Zaiyātī, nativo di Granata in Spagna ma residente a Fez, in Marocco, dottore della legge coranica e ambasciatore, era giunto in Italia nel 1517, schiavo dei pirati cristiani che lo avevano catturato nei pressi delle coste tunisine. In Italia rimase per una decina di anni, battezzato col nome cristiano di Giovanni Leone. Aveva viaggiato in Africa dal Mediterraneo al Niger e al Ciad e dall’Atlantico al Nilo, sulla scia di una solida tradizione di viaggiatori arabo-musulmani, geografi, storici, mercanti. Nel secolo XI, l’arabo Idrīsī aveva fornito al re normanno di Sicilia, Ruggero, l’immagine e la descrizione di tutto il mondo abitato; nel secolo XVI, Leone l’Africano contribuisce con la descrizione dell’Africa dell’Islam e del deserto alla costruzione di un quadro di quel mondo in cui fino all’inizio del secolo XIX nessun europeo sarebbe penetrato. Notizie che venivano a consolidare, attraverso la testimonianza di chi realmente c’era stato e aveva dunque visto, l’idea di una terra dello splendore già penetrata nell’antichità e nel Medioevo attraverso le voci dei mercanti che sulle coste africane commerciavano restando ai margini del continente, ma soprattutto attraverso il flusso di beni che da quelle zone remote arrivavano, in primo luogo il preziosissimo tibr, l’oro in polvere, su cui tutta la monetazione europea si basava, proveniente dai distretti auriferi dell’alto Niger e del Senegal, poi l’avorio, le piume di struzzo, gli schiavi negri, lo zibetto e l’ambra grigia, i tessuti di ogni specie, i cuoi lavorati, le spezie, i datteri, il corallo…

Timbuctù, anzi “Tombutto”, di cui la Descrizione parla, fa parte di uno dei “quindici regni cogniti” che si estendono lungo il fiume Niger là dove scorre nel Sahara occidentale. Luoghi di grandi ricchezze, perfino latte e pane vengono pagati con pezzi d’oro. Gli abitanti vestono lussuosamente di bambagio, ossia di cotone, nero o azzurro, i religiosi di bianco. Donne e uomini vanno velati, “barchette molto strette fatte d’una metà d’albero cavato”, ossia piroghe, scivolano sulle acque scure del fiume, cariche di merci che vanno e vengono da Tombutto.

Tombutto regno – Il nome di questo regno è moderno, detto del nome di una città che fu edificata da un re chiamato Mense Suleiman, gli anni di legira seicento e dieci, vicina a un ramo del Niger circa a dodici miglia, le cui case sono capanne fatte di pali, coperte di creta, coi cortivi di paglia. Ben v’è un tempio di pietre e di calcina fatto da uno eccellente maestro di Granata, e similmente un gran palazzo fatto dal medesimo artefice, nel quale alloggia il re. E in questa città sibi molte botteghe di artigiani e mercatanti, e massimamente di tessitori di tele di bambagio; vengono ancora a lei panni d’Europa portati dai mercatanti di Barberia. Le donne di questo usano ancora elle di coprirsi il viso, eccetto le schiave, le qual vendono tutte le cose che si mangiano; e gli abitatori sono persone ricchissime, massimamente i forestieri che vi sogliono abitare, in tanto ch’el re d’oggi ha dato due sue figliuole per ispose a due fratelli mercatanti, mosso dalle ricchezze loro. Nella detta città sono eziandio molti pozzi d’acqua dolce, benché, quando cresce il Niger, ei se ne va per certi canali vicino alla città. V’è grandissima abbondanza di grani e di animali, onde il latte e il butiro è molto da loro frequentato. […]

Il re possiede gran ricchezza in piastre e verghe d’oro, delle quali alcuna è di peso di milletrecento libbre. La sua corte è molto ordinata e magnifica, e quando egli va da una città all’altra con li suoi cortigiani, cavalca sopra camelli e gli staffieri menano i cavalli a mano; e se va a combattere, essi legano i camelli e tutti i soldati cavalcano su cavalli. Qual volta alcuno vuol parlare a questo re, se gli inginocchia innanzi, e piglia del terreno e se lo sparge sopra il capo e giù per le spalle: e questa è la riverenza che se gli fa, ma da quelli solamente che non gli hanno più parlato, o da qualche ambasciatore. Tiene egli circa a tremila cavalli e infiniti fanti, i quali portano cotai archi fatti di bastoni di finocchi salvatici, usando di trar con quelli velenate saette. […] Sono nella detta città molti giudici, dottori e sacerdoti, tutti ben dal re salariati, e il re grandemente onora i letterati uomini. Vendonsi ancora molti libri scritti a mano che vengono da Barberia, e di questi si fa più guadagno che del rimanente delle mercatanzie. […] Sono questi abitatori uomini di piacevole natura, e quasi di continovo hanno in costume di girsi, passate che sono le ventidue ore, fino ad una ora di notte, sonando e danzando per tutta la città; e i cittadini tengono a loro bisogne molte schiave e schiavi maschi.”

“Dintorno non v’è giardino, né luogo alcuno fruttifero”, conclude. Sorgeva dunque Timbuctù, come oggi, dalle sabbie del deserto. Un’oasi di ricchezza e di piacere, di cultura, di religiosità. E contengono effettivamente tuttora le biblioteche della città tesori di testi, di manoscritti ancora per noi da esplorare con le cronache del passato. Tra le case di fango e le mura dalle porte di legno ornate di borchie d’ottone, si ergono le mura rosse delle tre grandi, antiche moschee, Sankoré, Sidi Yaya, Djinghereber, luoghi di culto e grandi scuole coraniche.

Caillié certamente non aveva letto Leone l’Africano. Il suo romanzo di formazione fu il settecentesco Robinson Crusoe, di Defoe, che narra le avventure di un ragazzo inglese il quale, in cerca d’avventura, fugge di casa e si imbarca verso l’ignoto. Così farà anche lui, imbarcandosi su una piccola nave, la Loire , che salpava per le coste africane del Senegal. Il suo ignoto è quella città del deserto, tra alte dune, che si affaccia su un fiume dal nome antico: Niger, nero. Ma come definire il suo viaggio? “Presi una risoluzione: raggiungere Timbuctù o morire”, si legge nel Journal. Dunque una passione, coltivata nel silenzio (era Caillié di natura schivo, silenzioso, appartato), vagando sulle banchine del porto che si affaccia sull’Atlantico, sentendo odori di spezie, di stoffe tinte a mano, di pesce secco, di cocco e vaniglia, che evocavano un Altrove che lo avrebbe liberato dal senso di costrizione, dalla vergogna di essere il figlio di un ubriacone morto scontando una pena ai lavori forzati.

È una lettura malinconica quella del Journal, scritto come un compito doveroso, e segretamente perché “caratteri stranieri” vergati su fogli di carta avrebbero insospettito i diffidenti Fulani, Mauri e in generale gli africani, che subivano già la presenza dei Bianchi colonizzatori, presso cui lungo il viaggio andò a vivere, in vesti “arabe” e proponendosi come “uno di loro”. Raccontava infatti, per farsi accettare, di essere un arabo nato ad Alessandria d’Egitto, poi, orfano, vissuto in Francia, di essere partito alla ricerca della vera fede, quella musulmana, e delle sue radici.

Tutto il materiale che si accumula nei due volumi del Journal, di cui qui viene proposta una scelta di passi, appare quasi la prova che egli doveva dare al ritorno, di “essere stato là”: non c’è infatti passione nella sua scrittura, sono note piattamente descrittive, un compito, appunto, essendo la passione tutta riposta nell’ossessione, Timbuctù, che gli darà la forza di sopportare ogni sorta di tormento.

E tuttavia si tratta di un testo incredibile, perché quasi non rendendosene conto, Caillié offre un quadro fittissimo di particolari, che vediamo quasi come in un film, con tutte le notazioni, si può dire metro per metro, sulla vegetazione, sui tipi di terreno, sul colore delle pietre, gli uccelli, la presenza di acqua, e poi naturalmente sul modo di vivere di chi là abita. Per la prima volta un occidentale ha visto e raccontato. Una testimonianza preziosa per un etnografo che si occupi di quelle zone; una lettura singolare per chi legga per il piacere di leggere.

Inutile dire che l’arrivo a Timbuctù sarà per Caillié una atroce delusione. Avere visto la morte così da vicino tante volte, avere camminato a piedi nudi passo dopo passo per tutta quella distanza, essere stato deriso, maltrattato, affamato, continuando a tenere ben ferma quell’idea nella testa… e Timbuctù era soltanto questo?

È il 20 aprile, stagione torrida nel deserto. Dal porto di Kabara sul Niger c’è solo ancora qualche chilometro, un tuareg a cavallo li segue, grandi paludi, qualche albero di mimosa: “Infine arrivammo, nel momento in cui il sole toccava l’orizzonte. Vedevo dunque questa capitale del Sudan che da tanto tempo era lo scopo di ogni mio desiderio”. Un’inesprimibile sensazione “di soddisfazione”, un sentimento mai provato prima, “la mia gioia era estrema”. Ma appena otto righe dopo, nelle quali si rivolge grato a Dio per averlo protetto durante una così terribile impresa, viene confessata la delusione: “Lo spettacolo che avevo sotto gli occhi non rispondeva alla mia attesa; della ricchezza e della grandiosità di questa città mi ero fatto tutt’altra idea”. Niente altro che “mucchi di case di terra mal costruite”, immense piane di sabbia mobile, la più totale aridità. E il cielo, all’orizzonte, è di un pallido rosso, tutto “è triste nella natura, non si sente cantare un solo uccello”.

Fu, quell’incontro, come risvegliarsi da un sogno.

 

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Questo testo è l’introduzione al volume in formato ebook VIAGGIO A TIMBUCUTU’ di René Caillié, tradotto per la prima volta in italiano da Barbara Fiore e pubblicato da Zibaldoni e altre meraviglie nel dicembre 2013. Si può acquistare qui su ZIBALDONI o qui su AMAZON o su qualsiasi altro store online.

 

Viaggio a Timbuctù