Sguardi nel Serraglio

Le Lettere turche di Lady Montagu, curate e tradotte da Barbara Fiore.

di in: Timbuctù

Timbuctù come luogo fisico, nel deserto, sul fiume Niger, ma anche come luogo di fantasticazioni sull’Altrove. E il viaggio si inoltra questa volta nell’Impero Ottomano con le settecentesche Lettere turche di Lady Montagu, prima relazione sul mondo dell’harem, occultato da barriere, schermi e veli, e delle donne al suo interno. Se il fantasticare sui popoli, a partire dall’Odissea e dalle Storie di Erodoto, ha fatto di coloro che stavano esempi di irriducibile stranezza, mostri o viceversa meraviglie del creato, qui siamo alla pura fascinazione: l’Oriente di Lady Montagu è luogo di incanto. Le Lettere turche testimoniano di quell’immaginario che contribuirà alla rappresentazione preromatica e romantica dell’Oriente come scenario di sublime esotismo. (B. F.)

 

Cara sorella, devo prendere da voi congedo per lungo tempo e da Vienna per sempre, perché progetto di cominciare domani il mio viaggio attraverso l’Ungheria malgrado il freddo eccessivo e una coltre di neve sufficiente a fiaccare un coraggio ben più grande del mio, ma il principio di obbedienza passiva mi fa sfidare qualsiasi cosa. Ho avuto presso l’Imperatrice l’udienza di addio a cui ha voluto essere presente anche Sua Maestà Imperiale e dopo una conversazione estremamente amabile le Loro Maestà mi invitarono a passare al mio ritorno nuovamente per Vienna, ma non credo di poter sopportare una seconda volta una così grande fatica… Le dame di mia conoscenza sono così buone con me che da quando mi sono decisa a intraprendere questo viaggio piangono ogni volta che mi vedono e davvero non sono affatto tranquilla al pensiero di tutto ciò che dovrò soffrire. Tutti coloro che incontro mi atterriscono con sempre nuove difficoltà. Il Principe Eugenio ha poi avuto la bontà di tentare in tutti i modi di persuadermi ad attendere il disgelo del Danubio affinché avessi le comodità di un viaggio per acqua, spiegandomi che le case ungheresi non offrono la minima protezione contro le intemperie e che comunque non ne incontrerò nemmeno una nei tre o quattro giorni in cui sarò obbligata a viaggiare per le piane deserte e nevose tra Buda e Esseek [Osijek] in cui il freddo è così tremendo che numerose sono le vittime. Devo riconoscere che questi orrori hanno fatto una viva impressione sul mio spirito dal momento che certo il Principe mi dice esattamente come stanno le cose, né alcuno potrebbe esserne informato più di lui”.

Lettera a Lady Mar, Vienna

La descrizione dell’Impero Ottomano di Lady Mary Montagu, scritta in forma epistolare e che uscì a Londra nel 1763 col titolo di Turkish Embassy Letters, “Lettere dall’ambasceria turca” si apre con queste righe. L’apertura è sapiente e segue una tradizione letteraria che fin dall’epica antica pone il viaggiatore come eroe che si cimenta nella sfida di affrontare l’ignoto, minaccioso e terrificante, lo attraversa e ritorna trasformato. L’itinerario della paura è qui delineato con pochi, rapidi tratti: una terra coperta di ghiacci, deserta, segnata dalle guerre e da un’epidemia di peste. “Rischio di morire congelata, di essere sepolta dalla neve o rapita dai Tartari che funestano la regione di Ungheria che devo traversare” (Lettera a Alexander Pope, 16 gennaio 1717) e la partenza si configura come drammatica separazione da tutti i riferimenti noti e dagli affetti. Gli addii sono ripetuti, accompagnati da lacrime (“se vivrò”, “mi rimetto completamente alla Provvidenza”, “so di non essere nulla”, “salutate per me, vi prego…”).

Ma già nelle lettere di due settimane dopo il tono è cambiato, i timori si sono dissipati come la neve ai raggi del sole: “Sono dunque arrivata a Peterwaradin, cara sorella, sana e salva con tutta la famiglia in buona salute, senza aver troppo sofferto dei rigori della stagione, contro i quali d’altronde eravamo ben protetti da pellicce, e avendo trovato dappertutto grazie agli emissari alloggi così convenienti che non posso impedirmi di ridere quando penso a tutte le idee spaventevoli che di questo viaggio avevo ricevuto e che erano dovute soltanto all’affetto degli amici viennesi e al loro desiderio di trattenermi con loro per tutto l’inverno (Lettera a Lady Mar, Peterwaradin 30 gennaio 1717). L’Oriente di Lady Montagu che si aprirà via via al lettore, condotto fin dall’inizio all’interno di un mondo popolato di figure femminili di incanto (“Le donne ungheresi sono assai più belle delle austriache e la dama indossava un abito di velluto scarlatto, ben aderente, con la sottana lunga fino ai piedi e un corsetto con bottoni d’oro, perle e diamanti…”) si rivelerà un mondo di fascino. Perché è sulle donne che lo sguardo qui soprattutto si concentra e il principale interesse delle Lettere turchesta proprio nell’essere la prima testimonianza (“etnografica”) sull’interno della corte e sull’harem, luogo dello stereotipo per eccellenza in Occidente.

Nata a Redford nel 1689, Mary Pierrepont era figlia del Duca di Kingston-upon-Hull e della Duchessa di Denbigh, personaggi dell’aristocrazia liberale inglese. La sua biografia racconta che già a otto anni studiava il latino, “allo scopo di poter leggere Ovidio e Orazio in lingua originale”, e poi l’italiano e il francese. Si formò sui classici, divenne scrittrice e poetessa ed era grandemente apprezzata nell’ambiente aristocratico per la non comune cultura e per il singolare fascino che nasceva da un atteggiamento vivace e disinvolto, quasi di sfida, reazione forse alla sua immagine esteriore, sfigurata, nel corpo e sul viso, dai segni lasciati dal vaiolo avuto a sedici anni. Contro il volere del padre, era fuggita per sposare il figlio del Duca di Sandwich, Edward Wortley Montagu, legato a lei dalla stessa passione per i classici e per la scrittura, il quale, nominato ambasciatore alla corte di Turchia, era stato incaricato di assicurare la mediazione inglese tra Impero Ottomano e Austria. Lady Mary lasciò dunque l’Inghilterra per seguirlo a Vienna e poi nel viaggio e nei soggiorni ad Adrianopoli e Costantinopoli. Non aveva inizialmente altro ruolo che quello di stargli accanto nei ricevimenti e nelle feste presso le diplomazie straniere dove la lingua che si parlava era il francese o il latino, in un ambiente quanto mai mondano e prevenuto, che tuttavia la giovane coppia inglese riuscì ad accattivarsi rapidamente. Gli inviti, le frequentazioni erano fondamentali per Montagu per poter entrare nei giochi delle diplomazie, raccogliere chiacchiere, entrare nelle trame della corte e conquistarsene la fiducia.

Nell’ambiente ottomano dei politici Lady Montagu non poteva seguirlo essendo preclusa alle donne la sfera maschile. Così, allo scopo di favorire il compito del marito, era andata elaborando una sua strategia parallela fatta di contatti col mondo femminile improntati alla più grande cortesia e naturalezza e a una sorta di appassionata curiosità per tutto quanto la circondava. La sua disposizione alla socievolezza la facilitava in un piano che non era così innocente come dalle Lettereapparirebbe: se non si presta infatti attenzione alla stretta gerarchia delle visite si potrebbe pensare che si trattasse di semplici incontri amichevoli, ma le donne dei potenti, sebbene non apparissero sulla scena pubblica, erano indubbiamente determinanti nel creare un’ opinione e un clima nelle relazioni politiche. Se Montagu incontrava il Gran Vizir, lei andava in visita al suo harem, poi a quello del secondo ufficiale dell’impero, raccoglieva notizie, come quella sull’assassinio dell’ultimo pascià di Belgrado, cercava di averne sul carattere di Ahmet III e sulla popolarità crescente del favorito, il nipote di lui. Si faceva ricevere nel Serraglio del Sultano. Nell’impresa diplomatica il suo ruolo insomma non fu affatto marginale.

Secondo quanto riportano gli archivi, per lunghi periodi l’harem imperiale formò di fatto uno Stato nello Stato. Nell’harem di Topkapi, a Costantinopoli, vivevano nel XVIII secolo tra concubine e schiave circa ottocento donne arrivate dai vari paesi dell’Impero. Un mondo a sé, con sue scuole e cucine, con dormitori, giardini, sale di musica, archivi e hammam, in cui si ricevevano visite, si davano feste e banchetti per le dame della buona società, molte donne sapevano leggere e scrivere e c’erano segretarie che comunicavano per scritto con l’esterno tenendo inventari e archivi. Un mondo regolato da precise gerarchie agli ordini dell’autorità suprema, la Valide , la madre del Sultano. Al volere di lei, inaccessibile perfino agli eunuchi neri addetti alla guardia delle donne di altissimo rango, alle sue decisioni politiche, veniva immediatamente dato corpo. Era la Valide che decideva dei rapporti del Sultano con le donne dell’harem e lo teneva al corrente di ogni voce e di ogni trama che fosse venuta a scoprire.

L’hare m c ostituisce la perfetta rappresentazione, la concreta e visibile materializzazione, nell’islam, della separazione tra universo maschile e universo femminile. Il termine (in arabo harām) significa letteralmente “sacro”, privato, inviolabile. E’ harām lo spazio della casa riservato alla donna dove, secondo la prescrizione coranica, possono entrare solo gli uomini legati a lei da stretta parentela e consanguineità: il marito, il padre, il suocero, i fratelli, i figli, i figli del marito, i figli dei fratelli e delle sorelle. In alcuni contesti, come nell’Impero ottomano e in Persia, la norma divenne nel tempo ossessiva, un divieto assoluto, e cioè che nessun individuo di sesso maschile (e dunque neppure gli animali maschi), potesse varcarne la soglia. A parte, naturalmente, il signore dell’harem. Così gli eunuchi preposti alla custodia delle donne dovevano essere uomini mutilati “raso ventre”, ossia ricondotti fisicamente al femminile: nulla doveva ricordare che, come lo sposo, essi appartenevano all’altra metà. Scriveva Tommaso Alberti nel suo Viaggio a Costantinopoli, all’inizio del XVII secolo: “Sposate o non sposate, come madri del Principe si chiamano Regine, e per tali sono conosciute ed onorate con presenti, e particolarmente viene riverita dalla guardia che tiene alla sua porta, il Chislaragà [kīzlar ağa], che è un moro eunuco, capo delli eunuchi mori, tutti tagliati; il quale, con un numero di forse trenta simili a lui, sta sempre alla custodia della detta porta ed al servizio della detta Regina e per dette Sultane; le quali non escono mai del detto suo serraglio se non con la persona del Re che le conduce tutte o parte, come più li piace, ad altri Serragli di piacere; e nel passare che fanno per le strade vengono esse strade serrate e oscurate con tele; e nelli caicchi e cocchi che montano, mai vi stanno presenti altri uomini che i loro mori eunuchi infino che sono montate e serrate nelle poppe delli detti caicchi, ovvero cocchi, che mai possono essere vedute, come mai da altri praticate che dal Re solo”.

L’accesso alle stanze era sbarrato da più cancelli, da vestiboli e porte massicce, posti di guardia e corridoi, come racconta nei suoi Voyages en Persedel 1711 il mercante di gioielli, Cavaliere Chardin, dell’harem del Serraglio di Isfahan, munito di tre porte delle quali una sorvegliata dagli uscieri del Signore, la seconda dal capitano della porta, dalle guardie e dai domestici, la terza dagli eunuchi. E chi avesse osato accostarsi, anche da lontano, era messo a morte.

Nei grandi harem di cui narrano le cronache c’è un moltiplicarsi di segnali: pesanti cortine di velluto e tende di broccato schermano le finestre già chiuse da fitte grate, dividono e suddividono lo spazio in una maniacale volontà di ripartizione, di precisazione; pareti di foglie, alti muri, chioschi, grandi alberi, proteggono e ritagliano zone appartate nei giardini. Tutto deve stare a significare che quello spazio è altro da quello esterno. Ma come se ciò non fosse sufficiente, anche fuori, quando nelle vie passano le carrozze dell’harem del Sultano, la separazione deve essere visivamente ribadita e nel momento della passeggiata delle donne, come riferisce Jean de Thévenot alla metà del Seicento nell’Empire di Grand Turc, vu par un sujet de Louis XIV, viene levata per le strade una bianca muraglia di teli tesi tra alti bastoni. Separazione, che in una sorta di gioco simbolico vòlto ad amplificare il segno, il corpo femminile sottolinea vistosamente attraverso il velo. Veli di ogni sorta, pesanti, leggeri, fluttuanti, avvolgenti, a più strati, di preziosi tessuti o di cotonine fiorate, che coprono o no tutto il corpo, che completano la loro funzione con l’aggiunta di una sorta di piccola maschera posta sul volto. Racconta Chardin nei Voyages: ”La sposa è velata da cima a piedi e in più ha sulla testa un altro velo, pieghettato come una gonna, fatto di broccato o di tela d’oro, o di tela di seta, che la copre fino alla cintura e che a tal punto copre il suo corpo e il suo viso che neppure una lince potrebbe scoprire come è fatta”.

Due sfere ruotano dunque una accanto all’altra, quella inaccessibile, chiusa, di cui si sente soltanto dire e di cui soltanto le donne e il Sultano sono a conoscenza, e quella pubblica che si offre apertamente allo sguardo. E’ una scena di fasto inusitato quella, di cui sempre Chardin riferisce, dell’udienza del re a Isfahan: cavalli bardati di rubini, perle e diamanti che si abbeverano in secchi d’oro, tigri e leopardi distesi su tappeti scarlatti, elefanti parati di broccati con catene d’argento alle zampe, rinoceronti e tori per le lotte coi gladiatori, guardie, giannizzeri e dignitari che a centinaia accolgono gli ambasciatori e le delegazioni straniere cui vengono offerti spettacoli e banchetti di spropositata ricchezza per intere giornate. Così come magnifico e grandioso è il corteo di cui scrive, nella lettera a Lady Mar, Lady Montagu. Tutto qui è fatto per essere esibito, ostentato, diversamente dall’altro mondo, universo ignoto che rimane occultato dietro le fitte grate, che guarda senza essere visto, che controlla ma non compare e che non ha relazioni esterne se non mediate. Tramite tra i due mondi sono gli eunuchi dalle “lingue fini, dolci, adulatrici e insinuanti”. Attraverso il capo degli eunuchi arrivano al Cavaliere Chardin in dono dalla principessa, zia del Sovrano, doni galanti e profumati, confetture, sorbetti, pani di zucchero ambrato e marzapani, segno che dentro l’harem si sa tutto del suo arrivo. Ed è ancora un eunuco che gli porta a vedere la splendida collana di trentotto perle che la principessa vuole mostrare allo Chardin mercante di gioielli per contrattare l’acquisto di qualche cosa di altrettanto magnifico. Sono appunto le “dolci e fini” lingue degli eunuchi che illustrano ai viaggiatori occidentali quell’interno altrimenti muto.

Oggi nelle sale del Tesoro del Grande Serraglio di Istanbul sulla punta del Corno d’Oro, in quello che è noto come Palazzo di Topkapi, è esibito quanto rimane delle stupefacenti ricchezze dell’Impero Ottomano: il famoso diamante di ventiquattro carati, smeraldi di eccezionale grandezza, troni incrostati di turchesi e rubini, pugnali ornati di perle e pietre preziose, sontuosi servizi di vermeil, preziosissimi tappeti orientali. Il palazzo in sé non arriva al lusso di certe residenze dei reali europei, ma ciò che lo rende singolare e magnifico è la natura in cui è immerso, sapientemente addomesticata ma in un “adorabile disordine”, come dice Lady Montagu, e dunque con giardini dagli alberi lasciati crescere liberamente come nelle foreste, con uccelli nei fitti fogliami, acque e fontane, stanze che vi si affacciano con numerose finestre e con terrazze che scendono verso il mare, chioschi con trafori di griglie dove poter sostare godendo della vista sul Bosforo tutto costellato di ville, moschee, minareti, padiglioni e piccoli appezzamenti di terra coltivati. Un luogo “di incanto”, ma in cui si prova una strana sensazione di sconcerto che nasce dal contrasto fra la conservazione dei luoghi quali erano, come se un’invisibile schiera di servitori, di giardinieri e schiavi continuasse a svolgere quotidianamente i suoi compiti, a annaffiare, potare, rastrellare, e il vuoto, il silenzio. La stessa sensazione che si prova entrando nell’harem.

Una imponente porta di bronzo ne costituisce l’ingresso o piuttosto la barriera, sormontata da una scritta incisa sul marmo “Non c’è che un solo Dio e Muhammad è il suo Profeta”. La visita si può fare solo guidati, ci si perderebbe altrimenti tra celle, passaggi, corridoi, stanze e saloni con colonnati, vòlte, archi e nicchie, in un labirinto tutto ricoperto di tappeti e tutto minuziosamente decorato, con muri affrescati oppure di marmo bianco lavorati in bassorilievo o di legno a decori o ancora rivestiti di maioliche in cui dominano il verde, il blu cupo e il raro rosso pomodoro la cui ricetta non fu mai divulgata e di cui era esperto un maestro ceramico armeno del Cinquecento. Il tutto rischiarato appena da finestre con vetri opachi e da vetrate multicolori: il cielo si intravvede appena e solo raramente attraverso la piccola apertura rotonda di una cupola. La natura esterna sembra comunque essersi riversata all’interno in una profusione di motivi vegetali, come nella famosa Sala dei Frutti di Ahmet III, dell’epoca dunque di Lady Montagu, in cui si vedono raffigurate tutte le specie che si trovavano nell’Impero e la cui descrizione si trova nelle Lettere. Anche qui i sofà, i cuscini, sembra siano stati appena sprimacciati, i cristalli dei grandiosi lampadari appena lustrati, le fioche luci appena accese nelle nicchie, le tende sollevate a far entrare il sole. L’acqua continua a scorrere nelle innumerevoli fontanelle delle sale. La mappa dell’harem, si viene a sapere, non è ancora stata completamente redatta, ignota rimane la funzione di certi spazi, gran parte della vita che là dentro si svolgeva è destinata comunque a restare nascosta.

La scrittura delle Lettere turche è appassionata, spesso mondana fino a essere a volte lievemente stucchevole, ma sicuramente piena di molte notizie e di curiosità, come si richiedeva in quell’ambiente allo stile epistolare. Molto meno ingenua di quanto non voglia sembrare. Era stata d’altronde Lady Montagu una grande lettrice di letteratura di viaggio, la quale è un genere letterario preciso, e ne conosceva bene le convenzioni e le forme (“Ho scritto una lettera a Lady M. la quale è adirata con me perché non voglio mentire come gli altri viaggiatori. Credo si aspetti che le parli di antropofagi e di uomini che hanno la testa sul tronco”). Non sappiamo dunque se il tono da lei assunto prendesse a modello i canoni di un esotismo improntato a entusiasmo con lo scopo fondamentalmente di sedurre il destinatario della lettera, o se traducesse una autentica fascinazione per quell’Oriente dove, in una sorta di ribaltamento del punto di vista, non esiste per lei, occidentale, altro che bellezza. Tutto è visto come attraverso una lente rosata: le corti, i decori, le donne sono di incredibile magnificenza, la natura offre fiori e frutti a profusione, ogni cosa risplende di una luce particolare, le immagini sono paradisiache con i contadini che danzano sulle rive del Bosforo, piccoli gruppi di persone del popolo si ristorano sul bordo dell’acqua all’ombra delle fronde, su un’amaca sospesa tra due rami di un albero un bambino dorme. Una visione concentrata sul piacere, aristocratica e destinata a aristocratici lettori. E per quello che riguarda il mondo femminile, il paragone è sempre a favore dell’Impero e dell’islam, da ogni punto di vista. Se la sorte delle viennesi è infatti più invidiabile di quella delle inglesi, ancor più invidiabile è quella delle dame ottomane dal momento che la legislazione coranica assicura alla donna la più grande libertà; e se si obietta che qui le figlie non godono che della metà dell’eredità che spetta ai maschi o che qui un uomo ha diritto a prendere quattro mogli, queste disposizioni appaiono migliori di certe regole in vigore in Europa, dove la povertà conduce inevitabilmente “alla prostituzione, o al convento”. Anche l’assassinio per vendetta di un marito tradito diviene un particolare tutto sommato trascurabile, “è cosa rara, il che basta a provare che questo popolo non è naturalmente crudele” (Lettera alla Contessa di, maggio 1718). Godendo di ogni privilegio, le donne dell’Impero turco non sanno che farsene della libertà: “Queste donne che vengono chiamate regine e che si considerano tali, guardano alla libertà come alla più grande disgrazia e al più grande affronto che possa esser loro fatto” (lettera a Lady Mar, Pera, 10 marzo 1718).

In una delle ultime lettere del suo epistolario, a Lady Rich da Parigi, al ritorno in Inghilterra, possiamo leggere in un passo quella che appare la definitiva presa di posizione di Lady Montagu, come se quel viaggio in Oriente avesse definitivamente modificato il suo sguardo: “A proposito di contegno, bisogna che vi dica una parola sulle dame francesi. Ho visto tutte le bellezze di qui e – devo proprio lasciarmela scappare – sono talmente disgustose, capricciose, talmente assurde nel loro modo di vestire! Di una mostruosa mancanza di naturalezza nel trucco! I capelli tagliati corti e tutti a riccioli attorno a visi così incipriati che si direbbero di lana bianca! E come se non bastasse, steso sulle guance e fino al mento un impietoso belletto rosso porcellana che brilla come fuoco! Non hanno più volto umano e direi che questo modo di mettersi si sia ispirato a un bel montone appena marchiato con l’ocra!”.

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Prossimamente su <em>Zibaldoni e altre meraviglie</em> i testi delle lettere di Lady Montagu, nella traduzione inedita di Barbara Fiore.