Carattere

di in: Bazar

Non è una qualità di un individuo, né qualcosa che ne esprima i suoi modi, la sua natura, il suo garbo. Si imprime piuttosto su quello stesso volto di cui non è capace di rivelare alcunché, quasi fosse il trucco o il decoro di una cosmesi di cui solo i nostri demoni conoscono la vera arte. La sua scienza è la forma suprema dell’estetica, quella capace di stringere l’apparenza alla felicità; e non è custodita nei cupi archivi della psicologia, ma in qualche trascurato manoscritto di teologia, che per secoli l’ha considerato come un suo termine tecnico. Secondo la definizione che ne diede per primo Agostino, carattere è la marca che la grazia incide sull’anima, il segno che si imprime sulla vita di un uomo ogni volta che questa è visitata dalla felicità. Secondo la sua stessa etimologia, spiegavano i teologi, carattere è un segno che qualcuno ha impresso in un individuo, e quindi il tratto che lo distingue e lo separa dal resto degli uomini e allo stesso tempo una cifra o un simbolo che lo assimila a colui che l’ha impresso. Più precisamente il carattere marca la grazia di cui ciascuno è capace, e dispone l’anima alla sua ricezione; distingue e separa chi la possiede da chi non la possiede; assimila infine l’anima dell’uomo a Dio che lo ha impresso, perché attraverso di esso l’anima acquista una forma della potenza divina diversa da quella che ogni vita possiede per natura.

Come ogni segno, anche il carattere non esprime nulla, ma si limita a rimandare ad altro da sé. Non rivela affatto la natura del vivente su cui si è impresso. Definisce un fenomeno dell’ordine dell’apparenza e non la realtà di un’essenza: non determina tanto il nostro modo d’essere ma la relazione che intratteniamo con l’esteriorità. Per questo esso non custodisce nessuno dei segreti inconfessabili che le cripte della coscienza umana amano nascondere, si limita a dar forma alla relazione che lega singolarmente il vivente alla sua felicità. Non ha nulla di psicologico: perché in esso non si manifesta il nostro psichismo. Non ha nulla di personale, perché non è una dote che il vivente possiede sin dalla nascita, ma un tratto che si genera nel momento in cui un’esistenza è improvvisamente attraversata dalla felicità. Carattere è il segno che il primo incontro con la felicità – e la sua grazia – ha lasciato su di noi, e assieme la cifra della sua assenza.

Causa igitur indebilitatis character est quia ex conditione suae naturae habet ita firmum esse in subiecto cuius est quod habet compossibilitatem cum quolibet actu circa suum subiectum, qualitercumque circumstationato, sive bene sive male, sed quia gratia ex conditione suae naturae non habet ita firmum esse cum suo subiecto quod possit compati secum actum vitiosum et ita non quemlibet actum.

Il primo attributo del carattere – quanto lo differenzia dalla grazia – è la sua indelebilità (indelebilitas). A differenza della grazia, che può abbandonare in ogni momento un uomo, il carattere è un segno indelebile, perché per sua natura ha un essere stabile nel vivente su cui si imprime, al punto da avere, scrivevano i teologi, la compossibilità con qualsiasi atto di questo, in qualsiasi condizione questo si trovi, nel bene e nel male. La grazia non sembra tollerare né compatire un atto vizioso, e non può accompagnarsi con ogni gesto: essa si cancella ogni volta che l’anima è coinvolta in un atto vizioso. Allo stesso modo, la nostra felicità non resiste ad ogni nostra azione. Il carattere aderisce invece all’anima con forza propria e con tale tenacia, da tollerare qualsiasi altro accidente, fino a quando l’anima resta in vita. In questo esso sembra resistere nel vivente mille volte di più di quanto resistano tutte le altre qualità. Si può perdere questo o quel tratto, cambiare volto, dimenticare o rinnegare la propria esperienza passata, ma non è possibile perdere il segno che la felicità e la grazia hanno impresso sulla nostra anima la prima o l’ultima volta che l’hanno attraversata.

Se ogni vita minore è un blasone, un segno capace di distinguere il vivente da ciò che non vive e dal resto dei viventi è perché ogni mania, ogni desiderio, ogni nostro capriccio e le nostre più inconfessate ossessioni sono il ductus e assieme l’inchiostro con cui la felicità verga su di noi le sue scritture indecifrabili, mute epigrafi fatte di geroglificidi una lingua che conosciamo appena. Suoi fedeli scribi, le vite minori trasformano il nostro volto in un minuzioso archivio, nell’improvvisato palinsesto di incontri casuali eppure ogni volta talmente intensi da coprire i segni anteriori, riempire i margini e gli spazi che il passato aveva lasciato al bianco. Ciò che chiamiamo anima non è che il brogliaccio su cui ogni vita stenografa gli incontri con la grazia che non cessa di voler afferrare; perduta o posseduta, dimenticata o malinconicamente contemplata, essa è il solo oggetto di quella sorta di diario non scritto che è la maschera naturale e il trucco più immediato dei nostri volti.

Ideo post hanc vitam remanet character et in bonis ad eorum gloriam, et in malis ad eorum ignominiam: sicut etiam militaris character remanet in militibus post adeptam victoriam, et in his qui vicerunt ad gloriam et in his qui sunt victi ad poenam.

Questi segni sono indelebili. La nostra felicità è effimera, inconsistente, spesso incapace di trattenersi e di essere veramente afferrata. Ma i segni incomprensibili che essa lascia sul nostro corpo – quegli stessi segni che ogni volta che sogniamo proviamo a leggere e a interpretare – non possono più essere cancellati. Siamo immortali solo nel nostro carattere. Una vita può perdere la propria grazia, distrarsi dalla propria salvezza, smarrire la perfezione che sembrava abitarla, ma non perderà mai la marca con cui la felicità ha voluto marcare la nostra appartenenza alla sua natura. Perderemo la nostra beatitudine, perderemo la nostra felicità, perderemo noi stessi… ma quelle incerte segnature sopravvivranno alla nostra felicità e alla nostra stessa morte, simili alle iscrizioni che la lava del passato non è riuscita a seppellire. Quanto chiamiamo melanconia non è che la silenziosa testimonianza che queste lettere senza significato non cessano di prestare, il canto impercettibile della loro voce rugginosa e lontana.

L’intensità di questo canto può rendere folli. I segni con cui la felicità tatua il volto di chi la prova sembrano infatti avere un potere ed esercitare una qualche magia. Il demone della malinconia può essere indotto a leggere in quelle iscrizioni la malia attraverso cui invocare il ritorno della grazia. Si può cedere all’assordante cicaleccio di quei demoni, credere alla magia di queste rune ed esigere di essere riconosciuto dalla felicità che ci ha attraversati. Il carattere si trasformerà allora fatalmente nell’incantesimo con cui non si smette di dimenticare la propria felicità, la formula con cui la si trattiene in perpetuo esilio. Provare a pronunciarla significa solo votarsi all’amarezza della scoperta che quei segni non esercitano alcuna magia, che in essi la grazia (o la felicità) si dà ed esiste solo come traccia, ricordo, come qualcosa che abbiamo irrimediabilmente perso. Essi non sono che la ruga, la smorfia incipiente che la beatitudine ha impresso sul nostro volto lasciandoci. Se esprimono qualcosa, è soprattutto una forma di rimpianto, il risentimento con cui si allontana da sé e dagli altri tutta la grazia di cui si sarebbe capaci. Le vite minori, trasformatesi in involontari carcerieri della melanconia, proveranno a disegnare una nuova maschera: ma il volto, disfatto, è solo il penoso registro dei mancati appuntamenti con una felicità mille volte smarrita.

Come incantati da un ritornello perduto che la brezza porta da lontano e di cui non afferriamo più le parole, restiamo ipnotizzati dalla promessa di beatitudine che vorremmo sigillata in quell’alfabeto sconosciuto. Ma la felicità non è che il silenzio e la fine di tutte le promesse. Ed è essa stessa ad affidare ai nostri vizi e alle nostre debolezze il compito di rendere illeggibili quei segni.

La vera grazia è sempre priva di carattere. Perché nella sua forma più intensa la beatitudine non lascia tracce nell’individuo a cui si dona. E l’etica, forse, non è che la maestria e l’abilità con cui ogni uomo sa liberarsi di queste scritture, smagare questi tatuaggi, disfarsi del proprio carattere. Perché solo colui che riesce a lasciarsi attraversare dalla felicità senza riportarne tracce potrà dirsi salvo. Solo chi non chiede segni o caratteri distintivi alla grazia che lo redime potrà dimenticarla senza malinconia. Senza carattere, immemore, privo di segni distintivi, irriconoscibile al tribunale della storia, solo allora il vivente cesserà di perdersi. Il suo volto privo di segni è la nuova mappa del cielo di una felicità che ha finalmente smarrito il proprio destino.