Il libro delle tasche, e ogni tasca ha un suo contenuto pieno di interesse – oppure no, ci sono anche delle tasche vuote; è naturale che ogni tanto ci siano delle tasche senza niente dentro – perché no, caro editore?
Anche una tasca vuota ha un suo senso, una sua dignità, un certo passato. Che cosa c’era prima in quella tasca? Ci son rimaste delle tracce, delle scuciture? Oppure è una tasca per così dire vergine, e non c’è mai stato dentro niente?
Deve ammettere che la questione è interessante come una tasca piena.
Si potrebbe fare un libro soltanto parlando di tasche vuote; c’è solo il rischio che risulti un po’ tirato o magari piuttosto sul monotono, ma si potrebbe scriverci benissimo un volume di duecento pagine – una via di mezzo tra narrativa e saggistica, con qualche puntata filosofica qua e là per dare spessore all’ordito.
Ci pensi, per favore. E se non vuole pensare alle tasche vuote, allora pensi a quelle piene o semipiene.
Qui, è la sagra.
Altro che romanzo, ci salta fuori l’epica, l’algebra, la Divina Commedia. Una tasca in attività è come un porto di mare, con tutte le sue storie mercanzie miti e tumulti.
È Napoli, una tasca in servizio attivo.
Immagini che affreschi di vita vissuta, che drammi, che ventre! E mica ci si deve fissare su una tasca sola o su due o tre, si possono creare stretti anche se arbitrari legami tra un’infinità di tasche, come si fa di solito con i personaggi di un romanzo. Quattrocento pagine che filan via lisce come l’olio ci si cavan fuori senza sforzo.
E poi pensi che intrecci, che chiaroscuri, se mescoliamo una trentina di tasche piene con un paio di tasche vuote; una che è stata sempre in convento, per esempio, e l’altra che non è mai uscita dalla fabbrica.
Insomma, tutto un mondo di cose, di movimenti, di casi impressionanti che non c’è nemmeno bisogno di stare a pensarci sopra – le pagine vengon fuori da sole.
Ecco, questo più o meno è il mio progetto, caro editore, e ne vado (secondo me, giustamente) orgoglioso. Ma vedo che lei purtroppo non crede nelle tasche, e questo è un vero peccato; si ravveda, lo dico per il suo interesse – non certo per il mio.