Dialogo sulla comicità

Alessandro Bosco intervista Gianni Celati su alcuni dei suoi temi più cari.

Gianni Celati – In un numero della rivista “Il Semplice”, Jean Talon racconta la storia del viaggiatore russo Nicolaj Maklaj, sbarcato su un’isola della Nuova Guinea, in cerca di una tribù di cacciatori di teste. Si perde per strada, capita in un villaggio sconosciuto. Gli indigeni prendono atteggiamenti bellicosi. Maklaj non parla la loro lingua. È stanco, ha l’idea di dormire, si corica e dorme per terra. Al risveglio tutto è cambiato, lo trattano come uno di loro. Ho letto altre storie di viaggiatori che si incontrano con indigeni: le due parti si fronteggiano ostilmente, poi si mettono a ridere in segno d’alleanza, come uno sfogo. Da situazioni simili nasce la comicità, la voglia di ridere e far ridere, il rilassamento dei pensieri.

 

Alessandro Bosco – Il dormire, l’inerzia, può avere una forza disarmante, come nel Bartleby di Melville. Di fronte allo scrivano Bartleby, l’attivismo quotidiano del mondo moderno va in frantumi. Ma che tipo di comicità è quella di Bartleby?

 

G. C. – È la comicità del ridere che ti lascia perplesso. C’è un mutismo, o balbettamento, o stramba fissità, o un’inerzia, che ti sorprende. Allora resti lì con l’impulso a ridere, ma senza poter ridere sul serio, perché quel mutismo sembra sganciarti da tutto il vano chiacchiericcio del mondo. Allora taci anche tu, un po’ confuso. L’inerzia di Bartleby ti ha disarmato.

 

A. B. – Ieri hai parlato di un’altra comicità, quella dell’asineria degli scolari sempre distratti, che guardano fuori dalla finestra e sbagliano tutto. E hai detto che l’importanza dell’asineria, come l’opposto della pedanteria, è la scoperta di Giordano Bruno.

 

G. C. – Tra i testi teatrali italiani del ‘500, il Candelaio di Giordano Bruno è una delle maggiori invenzioni, per la ricchezza della lingua, ma anche per la figura del pedante, incarnata da Marfurio. Tutto inizia con l’elogio della “santa asinità”. Il personaggio di Ottavio fingendo l’asinità sbaglia tutte le frasi fatte latine che prosperano nella bocca del pedante Marfurio, il quale lo corregge sempre con il sussiego dell’uomo superiore. Così mentre la pedanteria punta a trasformare il sapere in potere, gonfiandosi di boria, l’asineria ci aiuta a vedere la boria del sapere come una ridicolaggine. Il ridere comporta una regressione a questo stato, che più o meno è l’inevitabile pedaggio del nostro risucchio nel mondo.

 

A. B. – L’abbiamo detto ieri: l’asineria tende verso un candore che è anche un volo fantastico, e ti aiuta a vedere la boria del pedanti come una ridicola esibizione.

 

G. C. – Nel Candelaio Bruno si autodefiniva: “Accademico di nulla accademia, detto il Fastidio”. Prendi ora Totò: non ti sembra che ci sia una concordanza? Totò è un vero Fastidio per quelli che si credono dei grand’uomini. E la sua comicità nasce da un’asineria, addobbata con le più fantasiose trovate pseudo-pedantesche. Pensa a quando si mette a parlare in italiano scolastico, per darsi delle arie, facendo schioccar la lingua, e ne vengono fuori i più meravigliosi strafalcioni, o i nonsense più impensati.

 

A. B. – Totò è un cultore dello sbaglio, dell’equivoco, dell’imprevedibile, che trasforma in nulla tutte le convenzioni. Di fronte a lui la vita diventa una messinscena quotidiana dove siamo chiamati a recitare la nostra farsa giornaliera come burattini.

 

G. C. – Sì, c’è in lui uno scivolamento frequente dell’attore nel burattino. È molto vicino a Pinocchio che con le sue scappate ti mette allegria, ti dà un senso di sfogo.

 

A. B. – Un giorno tu hai detto che Totò in un certo senso ci ha “riscattato tutti”. Alludèvi a qualcosa di liberatorio che c’è in lui. Guardando i film di Totò io ho sempre quella sensazione, come se mi purificasse il cervello.

 

G. C.– Questo aspetto liberatorio viene proprio da una purezza, da una sua purezza di stile senza forzature, perché non ne ha bisogno. È una purezza che Ermanno Cavazzoni ha chiamato Il comico senza strategia (in Il limbo delle fantasticazioni, Quodlibet 2009). Titolo che per contrasto fa pensare alla risata faziosa, alle ironie dottrinarie nelle schermaglie ideologiche, dove non c’è rilassamento, tutto mira a superare l’altro. La comicità strategica sa sempre di falso e io la escluderei del tutto dai nostri discorsi. Invece la sensazione di purificarsi il cervello di cui parli, credo sia la vera meta della comicità.

 

A. B. – Ma cosa intendi? Mi pare che tu metta sullo stesso piatto due punti fondamentali e che troverei interessante approfondire. Primo punto: la scrittura è primordialmente comica? Secondo punto: la scrittura prima di essere significato (o contenuto) cos’era? Alludi a una scrittura che si realizzerebbe al di qua e al di là del concettuale, e per questo assume un carattere naturalmente comico?

 

G. C. – Rispondo come posso. La comicità non è in sé un fatto letterario, ma gestuale – è una questione di gesti, smorfie, mosse del corpo, che poi possono specchiarsi in un modo di scrivere o di parlare. E questa gestualità non è che un nostro modo di sporgerci verso il mondo (mondo, mondanità, Weltlichkeit). Risucchiati dal mondo, noi reagiamo sempre in uno stato d’esposizione, nell’inautenticità e nell’errore, da ridicoli pedanti o poveri somari.

 

A. B. – Nel saggio di Cavazzoni c’è anche l’idea che tutti gli uomini sono ridicoli, e se gli angeli potessero vederli muoversi nella loro vita qualsiasi riderebbero a crepapelle.

 

G. C.– Sì, è la comicità di quando siamo trascinati nei traffici del mondo, a fare una parte, che diventa la nostra condizione di vita, ed è una comicità per così dire “naturale”.

 

A. B. – Ti ricordi l’altro giorno a pranzo? Mi raccontavi che eri convinto che proiettando un film di Totò nella savana africana, davanti agli abitanti del villaggio dove stavi, questi avrebbero riso di sicuro? Cosa ti fa pensare questo?

 

G. C. – Perché il ridere abbraccia tutte le lingue, passa sopra le diversità. In realtà è un’idea del mio amico Mandiaye, e gli è venuta quando costruivamo lo schermo per proiettare il nostro film nella savana. Tutto è nato dall’allegria che c’era intorno e dalle risate a non finire, mentre proiettavamo il film. E qui Mandiaye ha cominciato a dirmi: “Voglio portare qui dei film di Totò e vedrai come ridono tutti”.

 

A. B. – Ti ricordi quell’episodio che mi hai raccontato (c’è anche in Avventure in Africa) su quando eri in Africa, e hai visto un burattinaio con una marionetta simile a Totò?

 

G. C. – Sì, ero a Dakar, in taxi, e nel fitto traffico non potevamo fermarci, così l’ho perso di vista. Ma la marionetta di legno che portava con sé era Totò, sono sicuro.

 

A. B. – Ripenso spesso a quell’immagine perché ogni volta che vedo Totò mi sembra di avere di fronte il relitto di una civiltà sepolta. Nei tuoi taccuini dici qualcosa di simile: “Da quale antica patria viene la maschera di Totò? Da dove viene la sua comicità con dentro tutto il disordine della vita che c’è da queste parti?”. Hai trovato una risposta?

 

G. C. – No. Ho chiesto a qualcuno di cercarmi quel burattinaio, ma senza risultato.

 

A. B. – Recentemente in una classe di giovani liceali (che non conoscevo) ho pensato di leggere alcuni brani dal Pinocchio. Non sapevo come avrebbero reagito e quando ho chiesto loro cosa gli veniva in mente alla parola “Pinocchio” ho visto i loro occhi riempirsi di un’allegria infantile. Il giorno dopo ho voluto fargli vedere quella scena in cui Totò fa Pinocchio. Qui Totò si muove sulle tavole di un teatrino di marionette davanti ad un pubblico di bambini. La classe che avevo era composta da ragazze e ragazzi sui 15-16 anni, ma vedendo Totò-Pinocchio dinoccolarsi, la reazione era la stessa: stesso ridere incantato. Non trovi ci sia qualcosa di magico in questo?

 

G. C. – Sì, tutte queste cose sono magiche. Ma dove li trovi più libri così contaminati da questa magia del comico? Non dico i libri di barzellette (vere truffe industriali). Dico libri che danno quel senso di sfogo e di liberazione che dicevi. Li conti sulle dita. Uno di questi è l’ultimo libro d Ermanno Cavazzoni, Storia naturale dei giganti.

 

A. B. – L’altra sera ho letto questa frase di Agamben: “il volto non è qualcosa che trascende la faccia, è l’esposizione della faccia nella sua nudità, vittoria sul carattere: parola”. M’è sembrata una definizione di Totò, del suo essere prima di tutto apparenza, irriducibile ad un carattere, ad una psicologia. C’è qualcosa di simile in molti dei tuoi personaggi, quasi sempre proiettati verso l’esteriorità e mai appesantiti da travagli interiori, da questioni psicologiche. Possiamo vedere in questo un altro tipo di comicità?

 

G. C. – Non so. Comunque non parto mai dalla volontà di far ridere, ma da un po’ di contentezza per andare avanti. Poi tutto scivola via da solo e io vado dietro a qualcosa che può essere comico o lirico, senza programmi. Anche il libro di Cavazzoni fa molto ridere ma senza nessuna volontà di far ridere, perché tutto scivola via da solo, nella massima leggerezza. Prendi anche quel racconto, Rumori, di Vitaliano Brancati, autore che tu ami moltissimo. Be’, quel racconto così calmo e insieme strambo, avvolto nel mutismo, in uno stato sospeso, come lo classifichi? Comico o lirico? Io non so.

 

A. B. – Torniamo al discorso della marionetta. L’altra sera dopo cena riguardavamo assieme uno dei primissimi film di Totò, Yvonne la nuit (1949), dove ci resta un documento di grande valore: Totò che recita sul palcoscenico di una rivista la macchietta del bel Ciccillo: la macchietta con la quale nel 1917 debuttò al Teatro Jovinelli di Roma. La scena mostra quello che doveva essere Totò visto a teatro. Ne Il bel Ciccillo entra in scena saltellando, come se volasse, poi inizia la danza del burattino, con quei movimenti che lo accompagneranno nei suoi film successivi. L’ultima cosa che Totò gira prima di morire è l’episodio di Pasolini Che cosa sono le nuvole (1968), dove appare ancora una volta, dopo la scena di Pinocchio, in un teatro di burattini, con tanto di fili. Il cerchio si chiude. So che questo aspetto burattinesco di Totò – e il burattinesco in generale – ti affascina molto, come mai?

 

G. C. – Il burattino o le marionette mi rimandano all’idea che Fellini aveva del clown. Diceva che il clown è come il nostro doppio, che porta con sé tutto il nostro infantilismo e insieme la nostra senilità. È il clown che mantiene questa nostra doppiezza del puer-senex. Ed è l’ombra che ci accompagnerà fino all’estrema soglia, con una specie di musica ridicola e melanconica assieme. Come nel film di Fellini (I Clown, 1971), nella scena finale.

 

A. B. – Tu spesso dici (me lo ripetevi anche ieri passeggiando) che non c’è rimedio alla vita, e questo mi fa pensare all’idea del limbo, dove – come scrive Agamben – “la pena più grande si rovescia […] in naturale letizia”. Abbandonati da Dio, ma senza soffrirne, gli esseri limbali, “come lettere rimaste senza destinatario, […] sono rimasti senza destino” ma carichi di una letizia inesauribile. Lo trovo un pensiero stupendo che crea una misteriosa consonanza tra il Bartleby di Melville e Totò. E mi vengono in mente molti tuoi personaggi erranti per il mondo. Cosa ha a che fare la tua idea di comicità con l’idea del limbo?

 

G. C. – Il limbo è la soglia d’uno stato incerto, dove non c’è la luce divina, ma dove ci sono altri incontri. Non più risucchiati nelle chiacchiere del mondo, qui possiamo fare molti incontri fraterni. Pensa a Dante nel canto IV dell’Inferno quando si trova nel limbo con gli autori suoi maestri. Come nell’episodio di Nicolaj Maklaj: c’è qualche fattore che regola questi incontri tra estranei su una soglia. Ci si ritrova simili, anche se parliamo in modo diverso. Ma il ridere è la forma più estatica con cui ci avviciniamo l’uno all’altro.

 

Zurigo, novembre 2009