Appunti su Vico e Leopardi

Il testo integrale della conferenza tenuta presso l’Ostello della Gioventù di Mergellina (Napoli) il 5 marzo 2013, in occasione del VI Certame vichiano.

di in: La Z di Zibaldoni

Opera di Massimo Bartolini

Prima premessa

 

Su Vico e Leopardi: non un parallelo, secondo i modi classici del genere, non la ricerca di interconnessioni e filiazioni, ma l’individuazione di alcuni nodi – di pensiero, di poetica, di interrogazione – che trascorrono nell’uno e nell’altro  e che testimoniano di una prossimità. Sia detto subito: la prossimità sta in un pensare che mette al centro la dimensione della poiesis, e cerca la sua radice e i suoi modi nell’antico.

Ci sono luoghi della ricerca di Vico – dalle sei Orazioni al De antiquissima Italorum sapientia alla Scienza Nuova – in cui si configura una tessitura di domande, che sarà anche per Leopardi sostanza di un pensare, e di un poetare. Vediamone alcuni. 1. L’asse stesso di svolgimento della complessa e variegata ed eruditissima ricerca di Vico: dal platonismo rinascimentale italiano e dal cartesianesimo, con tutte le sue mediazioni e correzioni, verso una scienza che convoca le diverse forme del sapere ai fini di una conoscenza dell’uomo, per l’uomo. 2. Il sapere non come disvelamento dell’oscuro ma come cognizione della natura umana. Dal rifiuto di un’idea della sapienza antica come conoscenza riposta, inarrivabile, “boria delle nazioni e dei dotti”, al riconoscimento di una conoscenza, nell’antico, fondata sulla percezione poetica, cioè inventiva, creativa, del mondo. E si tratta di una percezione che, anche al di qua dell’antico, nella modernità, è anima della poesia e della conoscenza. Insomma un cammino che va dal rifiuto dell’astrazione verso una fisica del vivente. 3. L’istanza di un rapporto di reciproca implicazione di filologia e filosofia, di certo e vero: da qui l’attenzione alla lingua come universo preziosissimo per tutte le forme di conoscenza. 4. Il riconoscimento che esiste una sorta di “vocabolario mentale delle cose umane socievoli”, sentite da tutti, e dentro questo sentire universale c’è il dispiegarsi delle lingue, della loro varietà, pluralità, disseminazione. 5. Nello svolgimento della civiltà, nei vari stadi, pur allargandosi l’interesse dal sé alla società, resiste la radice dell’amor proprio, la singolarità centrata sul proprio utile.

Prendiamo ora in Vico il punto relativo alla sapienza antica. Essa è fondata “… dentro le favole, nelle quali, com’in embrioni o matrici, si è discoperto essere stato abbozzato tutto il sapere riposto; che puossi dire dentro di quelle per sensi umani essere stati dalle nazioni rozzamente descritti i principi di questo mondo di scienze…”. Ed ecco un’umanità fanciulla dalla robusta fantasia produttrice di conoscenza. Ecco la meraviglia, i sensi, gli effetti “delle naturali apparenze”, che abbacinano le menti con le immagini luminose : “la robustezza dei sensi porta vivezza di fantasia”. L’antica poesia non come travestimento consapevole del vero ma come aurora di una sapienza. Anche per Leopardi la poesia degli antichi non nasconde verità, è diretta prossimità alla natura, ascolto della sua voce, mimesis di una physis. Ecco ancora Vico: “Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata, quale dovett’essere di tai primi uomini…”. O ancora : “… i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, dalla loro idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio. Perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose, essi per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia” (secondo libro, capitolo Della metafisica poetica). Ancora: il poetare come un sentire “perturbato e commosso” nato da meraviglia che si fa creazione: è questa la poiesis. Ancora: “…alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo; e si finsero il cielo esser un gran corpo animato”. Il sapere, anche religioso, fondato su una metafora: “… il mondo e tutta la natura è un gran corpo intelligente…” .

 

Seconda  premessa

 

La conoscenza leopardiana della Scienza Nuova. Leopardi cita nello Zibaldone alcuni brani – una decina – tratti dal libro terzo Della discoverta del vero Omero e cita un passo tratto dal libro secondo, sezione quinta, sulla morale e sul carattere dell’eroe che ha per archetipo Achille (Zibaldone, 4395-97, 26 settembre 1928, ma vedi anche citazioni del nome di Vico alle pag. 946 e 4379). Le citazioni che fa Leopardi riguardano, dunque, in gran parte l’idea vichiana dell’oralità epica, popolare, che precede la scrittura e la composizione autoriale. Leopardi entra nel merito delle dispute dei filologi – in particolare del Wolf – intorno alla composizione dell’Iliade e dell’Odissea e alla figura di Omero (un solo autore dei due poemi? Un nome che designa una pluralità di rapsodi? Un nome emblema – il poeta cieco – che raccoglie costruzioni epiche di età diverse?). E, a proposito della posizione che sulla questione ha Hedelin d’Aubignac (il cui libro citato, però, è del 1715), dice di  costui che “non nomina punto mai il nostro Vico, il quale de’ cinque libri de’ suoi Principj di Scienza nuova, 3a  ediz. Napoli 1744 ne ha uno, cioè il 3.o intitolato Della discoverta del vero Omero, tutto dedicato alle quistioni Wolfiane”. E aggiunge, a proposito del libro vichiano: “Nel qual libro, con minore abbondanza esviluppamento di prove che il Wolf, ma pure con buone e fortiragioni, alcune delle quali non toccate da esso Wolf, asserisce edimostra che Omero non lasciò scritto niuno de’ suoi poemi,poiché infin’a’ tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui nonsi era ritruovata ancora la Scrittura Volgare”. Dopo aver citato altri brani dal terzo libro Leopardi fa alcune osservazioni sugli eroi dell’epica e qui cita dal libro secondo della Scienza Nuova le osservazioni vichiane intorno alla natura dell’eroismo  dell’Achille omerico, eroismo ben  lontano “dalle idee nostre, ed anche antiche civili, circa il carattere eroico”. Fin qui le fonti vichiane dichiarate.

Ma l’i­dea vichiana della “sapienza poetica” trascorre nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in più luoghi dello Zibaldone, nelle stesse Operette morali. Tuttavia, detto in sintesi, Leopardi sembra condurre il centro del discorso vichiano, cioè la nuova scienza poetica, verso una poiesis in cui il vivente, la sua rappresentazione, è priva di protezione, non ha né provvidenza né grazia, respira nel cerchio della finitudine. E sullo sfondo di una cosmologia abissale. Qui sta lo scarto filosofico e poetico con Vico.

E tuttavia ci sono alcuni elementi che in Leopardi possono essere visti come le forme di un dialogo con Vico. Anzitutto: il rapporto poesia e filosofia, la tensione tra i due modi della conoscenza (disposizione comparativa, facoltà di cogliere i rapporti nascosti tra le cose più lontane, attitudine immaginativa), la traccia della loro perduta unità, la critica della moderna separazione tra filosofia e poesia, la ricerca di un nuovo tempo – una ultrafilosofia – in cui la conoscenza dell’ “intiero e dell’intimo delle cose” produca una rigenerazione, l’esercizio di un pensiero poetante. Elementi, questi, di un dialogo costante, anche se implicito, sotterraneo, impronunciato, con Vico, con quella sapienza poetica la cui mappa Vico ha declinato nella rappresentazione genealogica dell’antico, o meglio dell’origine, del passaggio – nell’origine – alla lingua degli uomini (dopo la lingua muta e la lingua degli eroi). Altro elemento del dialogo: il privilegiamento, nella poesia, di quel che è traccia dell’origine, cioè del canto, della voce, del ritmo, dell’elemento musicale, dell’oralità che precede la scrittura e per questo è poesia intesa dal popolo. “La poesia fu perduta dal popolo attraverso la scrittura”, leggiamo in un passo dello Zibaldone. Vediamo ora in modo più dettagliato alcuni passaggi della ricerca leopardiana in cui si possono leggere tracce di Vico, o risonanze, o analogie.

 

1. Fisica poetica

 

Fonte taciuta, e attiva, oppure linea d’indagine contigua per affinità, e persistente, la trattazione di Vico sulla “logica poetica”, sui tropi e, in particolare, sulla metafora – “vera narratio”, “parlar naturale”, “picciola favoletta” – presiede all’assiduo e variabilissimo meditare leopardiano sul mito (o sulle “favole antiche”, come sarebbe più appropriato dire, leopardianamente, appunto, e vichianamente).

Della metafora (Scienza Nuova, libro secondo, sezione secon­da) Vico dice che “allora è vieppiú lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’i primi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e sì ne fecero le favo­le; talché ogni metafora sì fatta vien ad essere una picciola favoletta”.

II “parlar fantastico per sostanze animate”, di cui dice Vico nella Scienza Nuova, dunque la “sapienza poetica” dei primi uomini (“che furon poeti”) diventa per Leopardi l’essenza stessa del poetico:  conoscenza del mondo attraverso i sensi e attraverso l’immaginazione, costruzione del linguaggio attraverso la percezione corporea e sensibile di quel che è vivente, anzi percezione di quel vivente che è stato reso opaco e nascosto dalla civiltà. Anche il giovanile Discorso leopardiano in polemica con i romantici milanesi è mosso da un pensiero tutto vichiano del senso fisico, corporeo, del vivente, senso che è stato “spiritualizzato” e reso astratto nella civiltà: la natura ora è “incrostata dall’incivilimento” e proprio per questo non può essere imitata, come invece propongono i romantici milanesi. Non può essere imitata perché è sottratta oggi ai nostri sensi, non la abitiamo più, non la vediamo più. Solo per via di una conoscenza fantastica e sensibile, riscoprendo la corporeità dei sensi che è tutt’uno con la dimensione fantasticante, con la vis fantastica –comune anche al fanciullo e agli antichi – solo in questo modo possiamo sentire ancora la natura. Il problema – e sembra una domanda all’altezza della nostra epoca – per Leopardi è – sono parole sue – “come abitare la natura in un mondo snaturato”.

Soltanto “l’uso e la familiarità” degli antichi può indicare un possibile cammino verso la parola “naturale”. La poesia presso gli antichi era imitazione sensibile, corporea, della natura vivente. Mentre, dice il giovane Leopardi,  “i romantici si sforzano di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale”.  Una nuova mimesis il giovane Leopardi propone, una mimesis che implica anzitutto un ritrovamento della natura, della sua vita: occorre scoprire la natura, disseppellirla, liberarla dalla “mota dell’incivilimento”.  Si tratta di ritrovare quel legame tra corporale e fantastico, tra sensibile e immaginoso,  che solo la prossimità al vivente, alla sua singolarità,  può favorire.  Certo, a  questa posizione giovanile sulla natura e sull’imitazione, farà riscontro, un decennio più tardi, l’idea di una  natura che parla nel poeta, quasi stilnovistico cortese dittatore: “I’ mi son un che quando Natura parla, ecc.” (Zib., 4372, 10 settembre 1828):  in mezzo c’è il riconoscimento della dominanza moderna del “sentimento”, il passaggio all’idea di poesia come lingua del sentire e del patire. E tuttavia questa idea della necessità del “naturale” , con quel che comporta sul piano dello stile – misura, semplicità, senso della singolarità, della sua aura vivente – non abbandonerà più Leopardi. Potremmo sorprendere innumerevoli luoghi dello Zibaldone relativi a questa persistenza. Dalla definizione della filosofia socratica come una filosofia che partecipava della natura alle ricorrenti osservazioni sulla grazia, definita sempre nell’orizzonte di un rapporto tra il corpo e il linguaggio (bellezza e movimento, visibile e invisibile congiunti).

Se il sentimento sarà la lingua del vero, senza l’immaginazione – e il vivente che è come la sua sostanza – quella lingua non attingerà la soglia del poetico, nelle cui vibrazioni, e risonanze, c’è la traccia, se non la presenza, della parola naturale.

Ma è possibile ancora una parola naturale, in questa distanza “civile” dall’elemento corporeo, dal bios? Sembra questo l’assillo di Leopardi. Con la “spiritualizzazione” si è allargata in civiltà la “misera cognizione delle cose”. Al grido-rivendicazione di Tristano  nelle Operette – “E il corpo è l’uomo” –  corrisponde una ricerca di quella parola naturale che gli antichi possedevano “naturalmente”.  Forse nello spazio interrogativo di questa ricerca possiamo oggi riportare l’insistenza leopardiana, anche tarda, sul canto come vera origine della poesia, sul nesso tra cantoepopolare, tra musica e verso. Insomma una mai smarrita antropologia poetica – il poetico cioè avvertito come presenza e respiro corporale, come sapienza e conoscenza prima che come strutturazione formale – sottende quella meravigliosa tessitura dei Canti, una tessitura che accoglie il tragico nella musica del verso.

 

2. Anteriorità

 

Per Vico i primi uomini inventano il linguaggio dando voce umana al suono, lingua alla reazione davanti al fenomeno naturale. Il canto e il verso stesso nascono attraverso il ritmo corporeo e fisico del sentimento che risponde alla paura per il pericolo e alla gioia per il superamento del pericolo.

Questo patto tra la lingua e il cer­chio dei viventi – tra la parola della poesia e la physis che genera quella parola come modo stesso del suo mostrarsi – è la linea di un’anteriorità che trascorre in tutta l’opera leopardiana. Anteriorità che si declina nelle figure dell’antico, del fanciullo, dell’animale. Anteriorità che è anche, per Leopardi, radice della ricordanza, ovvero soglia da cui ritorna, col vincolo proprio della ripetizione  (“ritorno, ripercussione, ripetizione”) quello che egli chiama  “l’immagine antica”, l’immagine custodita nell’oblio e che torna, da quella lontananza, da quel silenzio, da quella prigione, verso di noi e si fa portatrice non di nostalgia per ciò che più non può tornare ma rappresentazione di un altro tempo, il tempo della poesia. Un tempo nuovo, un tempo della nuova presenza, un tempo che raccoglie quello che l’altro tempo, il tempo fisico, il tempo irreversibile, ha bruciato, consumato, distrutto. La poesia come ospitalità di quel che è perduto, istituzione nel ritmo e nel canto, e nella voce, di una presenza che torna ad appartenerci anche se come parvenza – e con le parvenze si può colloquiare (ecco le “care immagini”). L’anteriorità per Leopardi può essere anche quella luce inattingibile che la storia degli uomini ha negato preferendo le “tenebre” della civiltà (ecco l’esergo giovanneo nella Ginestra). L’anteriorità è soprattutto, nel pensiero leopardiano, teatro di figure – l’antico, il fanciullo, l’animale – che, proprio con la loro differenza, mettono allo scoperto le forme astratte e violente che costituiscono il sapere della civiltà, cioè quel  senso della storia costruito sull’astrazione dal vivente, dal corporeo, dalla singolarità del vivente.

Appunto, il fanciullo. Come non sentire l’ombra di Vico in questo noto passo del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica?

 

“Imperocchè quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per  qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna…”.

 

Pensiamo solo alla degnità XXXVII del primo libro della Scienza Nuova: “Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti”. O pensiamo alla degnità L: “Ne’ fanciulli è vigorosissima la memoria: quindi vivida all’eccesso la fantasia, ch’altro non è che memoria o dilatata o composta. Questa degnità è il principio dell’evidenza dell’immagini poetiche che dovette formare il primo mondo fanciullo”.

Torniamo al brano leopardiano del Discorso. Un passaggio ricco di implicazioni. La reciprocità tra la nostra fanciullezza e gli antichi, la natura dell’ignoranza, fantasticante, corporea, il senso del vivente, la proiezione del polemos (amica o nemica) contro l’indifferenza della determinazione e singolarità contro l’indifferenziato, la proiezione di una eroicizzazione del mondo, e della natura, che è soprattutto riconoscimento dell’anima delle cose, e dunque della poesia (che sarà anche un tema che dai romantici salirà per vie diverse alla “leggenda bretone” di Proust). Elementi che compongono il poetico. È su alcuni di questi elementi che Leopardi nel 1823 costruirà la sua critica della filosofia moderna, ritenuta analitica, scorporante, che pretende di conoscere la natura “notomizzando”, che cioè smonta la macchina della natura e la rimonta, ma dimenticando nell’operazione il poetico. In questo poetico che manca, che è rimosso, o sotterrato in civiltà, non si sente forse l’eco dei caratteri attribuiti all’antico e al fanciullo (il “vago e l’indeterminato” delle “idee fanciullesche”)? Quell’“insensata nessuna” non possiamo collocarla a lato dell’affermazione vichiana “alle cose insensate ella dà senso e passione”?

 

3. La poesia degli antichi

 

La poesia immaginativa degli antichi, così diversa dalla poesia sentimentale dei moderni, per Leopardi è un modo linguistico della sapienza, della sapienza antica. Vico, è noto,  ha dedicato tutta la seconda parte della Scienza Nuova alla sapienza poetica: figura antropologica, potremmo dire, che informa una genealogia di saperi (genealogia anche nel senso che darà al termine Foucault), e infatti quella sapienza si declina come fisica poetica, astronomia poetica, geografia poetica ecc. Quella sapienza di cui tratta Vico è fondata sul nesso tra corporeità e vis fantastica, tra senso fisico del mondo e linguaggio, tra conoscenza e immaginazione. Quando Leopardi parla della poesia antica annette al suo dire connessioni assai prossime a quelle vichiane. Fino a sfiorare una antropologia dell’origine che vede congiunte sapienza e poesia: “E infatti i primi sapienti furono i poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si servirono della poesia”( Zib., 2940-41, 11 luglio 1823). La correzione sembra quasi volere attenuare una degnità vichiana, e riportarla in una logica discorsiva e meno aforismatica. La leopardiana “favola antica” affonda anche in questa unità, tutta vichiana,  di sapienza e poesia. Pensiamo al canto Alla Primavera o delle favole antiche. Ma anche all’Inno ai Patriarchi e, nelle Operette, alla Storia del genere umano. E si veda la connessione, tutta vichiana, tra favola, favella, favilla. Cioè tra rappresentazione fantastica, lingua, senso del vivente. Nel canto Alla Primavera il ritorno della “bella età”, della “primavera odorata” che annuncia la rinascita, e, lucrezianamente, scuote la natura col vento d’un “novo d’amor desio”, è ritorno della “favola antica”: l’unità dei viventi con la vivente physis è detta da quel mostrarsi delle divinità e delle ninfe non come figure d’astrazione o improbabili concrezioni del sacro, ma come corpi naturali che gioiscono e soffrono: nella danza, nel canto, nella metamorfosi. E anche le piante e il vento furono viventi : “vissero i boschi un dì”. Un empedocleo “pensiero delle cose” trascorre in questi versi. E la prossimità con Hölderlin non è stata in Leopardi mai così forte come all’inizio della seconda strofa di questo canto. Ma la “santa Natura”, la sua “materna voce” della quale il poeta è in ascolto, ora è spenta.L’accordo col vivente, che la poesia promette, e scrive nel suo ritmo, nel suo respiro, nasce dalla con­nessione originaria di physis e poiesis. Il mito dell’origine – il fuoco, la fa­villa – si fa favella, favola, racconto. Questa è la philosophia mundi propria del poeta: una scintilla nel deserto del senso, una favola nel vuoto del sacro. Il mito del poeta, nell’assenza di ogni nostalgia, di ogni escatologia, consiste nella parola vivente, nel vivente che è parola: anche il silenzio partecipa di questa vita.

Ma nella purezza dell’origine trema la malinconia per una storia,  che è  storia di crudeltà, spiritualizzazione del corpo, astrazione dai sensi, cancellazione del vivente, della sua singolarità. Questa storia ha dissolto per sempre lo stupore di un tempo senza tempo, di una sapienza senza sape­re: l’Inno ai Patriarchi èil testo poetico che segue le stazioni di questa inva­sione tragica della storia.

La poesia degli antichi, per Leopardi. Modi e forme, e carattere: prossimità alla natura, senso vivente delle cose, semplicità, stile come studio che giunge alla semplicità, corporeo e fantastico congiunti.

Sainte-Beuve  nel suo famoso portrait aveva definito Leopardi “le dernier des Anciens”: possiamo riprendere su un altro piano quella definizione. Leopardi come colui che porta la presenza dell’antico nella modernità, e  non per vie antiquarie e neppure, in fondo, per  via di ricomposizioni filologico-testuali, ma attraverso una lettura della modernità, delle sue figure, a partire dall’interrogazione dell’antico, di quella dimensione corporeo-fantastica, fisico-conoscitiva, propria dell’antico.

 

4. Il vivente e la lingua umana

 

Verso la rappresentazione del vivente, verso una creaturalità che per es­sere fantasticata non è meno attiva sulla sensibilità, muovono sia il fan­ciullo sia l’antico: “vivificare oggetti insensati” (la rispondenza con Vico è qui del tutto scoperta) è movimento proprio della fanciullezza. Una trasmu­tazione che ha l’umano, cioè la lingua degli uomini, come paragone e oriz­zonte. Una metamorfosi del vivente che è il senso più proprio della poiesis: “attribuire alle cose non vita semplicemente ma vita umana” è il passaggio verso la lingua della poesia di cui i fanciulli posseggono, per così dire, il pri­mo movimento. Questo dare senso e voce e lingua all’inerte è proprio del poeta, come lo era, secondo Vico, dei primi uomini (“onde furon detti poeti, che lo stesso in greco suona che criatori”: secondo libro S. N., Della metafisica poetica ), co­me lo è, secondo Leopardi, dei fanciulli: il mito, per la lingua della poesia, è questo balzo, sempre possibile, e sempre inadempiuto, nell’origine, nell’ori­gine della lingua stessa, nella perduta e inattingibile comunanza dei nomi con l’essenza delle cose, o almeno nella prossimità a questa comunanza. È vita “umana” quella che si attribuisce alle cose insensate: con questa os­servazione, su cui tornerà in una pagina dello Zibaldone (2431-32, 8 maggio 1822), Leopardi vuole indicare quanto sia artificiosa una nozione del viven­te fondata al di fuori della sola vita che noi conosciamo davvero, quella umana. In un certo senso, il biologico non ha lingua. La sola lingua che possie­de è quella che gli è attribuita dagli uomini. “La Natura piange perché è priva di lingua (Sprachelose)”, dice un passaggio di Benjamin. Il poeta ospita nella sua lingua – lingua umana – questo lamento, un lamento che è stormire, bisbiglio, urlo.

 

5. Il mito

 

Pro­prio l’osservazione – dal timbro vichiano – che il sistema mitologico  presso i greci ap­parteneva nello stesso tempo ai poeti e al popolo (“… quanto alla sostanza, alla natura, alla principal parte ed al generale, non fu prima de’ poeti che del popolo”: Zib., 3461-1462, 19 settembre 1823) annuncia una rifles­sione, per frammenti, sulla genealogia del mito e sulla mitologia comparata che non separa l’invenzione dalla lingua della poesia, la fantasia primitiva dalla nascita del verso, il sacro, per dir così, dal linguistico. E studia il rapporto tra le fonti mitologiche nelle varie culture e la loro rielaborazione letteraria diretta o indiretta,  viva o inerte.  L’antropologia leopardiana, che appunta notizie, cronache di viaggi, discute credenze e teorie, ha inattesi scarti nei confronti delle convenzioni disciplinari, e non solo per quanto attiene alla critica della centralità dell’uomo nell’ordine del­la natura (Zib., 3647 sgg., 11 ottobre 1823, ma si veda su questo tutto il discorso a più riprese sull’animale ), ma anche per quanto ri­guarda le congetture sull’origine. L’inclinazione naturale dell’uomo più al ti­more che alla speranza, e, inoltre, l’attitudine a “rassomigliare l’ignoto al noto”, dunque l’analogia che accompagna il primo sguardo sul mondo, spie­gano la nascita degli dèi: le forze della natura sono riconosciute superiori all’uomo, e rivestite di figura umana. Il “terribile” è la prima figura della mi­tologia: Primos in orbe deos fecit timor. Questo accade anche nella mitologia greca, che pure è “più molle ed umana e ridente e amena e vaga e graziosa ed amabi­le di tutte l’altre ec.” (Zib., 3878, 13 novembre 1823, e cfr. 1638 sgg., 9 ottobre 1823 e 4001, 24 dicembre 1823).

Ha inizio, con questa fine degli dei (“vote son le stanze d’Olimpo”, leggiamo nel canto Alla Pimavera o delle favole antiche), la presenza del mito, che l’epica custodisce e rende sempre contemporaneo: si è sempre contemporanei, nelle “nazioni civili”, degli antichi troiani, greci, romani, ebrei. L’Iliade “ha potuto rende­re e rende tutti gli uomini civili d’ogni nazione e tempo compatrioti e con­temporanei de’ troiani” (Zib., 3771, 25 ottobre 1823). Contempora­neità, familiarità, che le “reminiscenze della fanciullezza” tengono vive. Il mito, le favole antiche, la vichiana “età eroica”, vivono nell’epica: que­sta congiunzione, secondo Leopardi, è all’origine di una loro “contempora­neità”.

 

6. Genealogie, e lingue

 

Genealogia e comparazione: due modi del metodo conoscitivo e rappresentativo di Leopardi.  Che è anche quello di Vico, a partire dalla critica dell’antico come sapienza riposta, occulta, esoterica. E attraverso il privilegiamento della lingua come specchio di una conoscenza, come sostanza  del fare poetico. Nel situarsi tra le lingue lo sguardo del Leopardi filologo avvia indagini su genealogie, parentele, derivazioni, fino a risalire verso confini lungo i quali le lingue si rispondono. Ecco, tra tanti, l’esempio della parentela tra il latino sylva, il greco ύλη, l’ebraico hiiuli, parole, tutte e tre, che designano oltre che la selva e il legno anche la materia, e dunque hanno a che fare con l’origine. Leopardi, annotata la singolare correlazione, suggerisce di andare oltre nella ricerca delle corrispondenze: “Converrebbe consultare specialmente  le lingue indiane”. E infatti mi è accaduto diversi anni fa, mentre scrivevo Prosodia della natura, di imbattermi, leggendo la Kausitaki Upanisad, nell’albero Ylya, l’albero dove giunge l’anima dopo aver varcato la porta della luna per incamminarsi nel mondo del Brahman. Al latino, greco, ebraico si può forse, almeno sul piano della fonesi e della designazione, aggiungere il sanscrito. Che la selva sia figura dell’origine lo dice Vico nella dipintura allegorica che apre la Scienza Nuova: tutti i geroglifici che designano l’affermarsi dell’età degli uomini  si affacciano sul fondo delle selve (è il plurale selve che preferisce Vico). E Leopardi sceglie, come esempio di una relazione originaria tra le lingue, proprio la parola che designa insieme la selva, la materia, l’origine.