Uomo di terra

 

In mare gli oggetti si muovono e si nascondono, mai nulla di sicuro, io amo molto il mare, immenso e mutevole, ma ci frequentiamo poco, preferisco l’erba di un campo grande, almeno quella posso percorrerla con umiltà, non sono un grande nuotatore, non mi misuro con l’infinito, sono un povero, piccolo uomo di terra. Un passeggiante. Uno  che sta bene nella sua Camera di Scrittura per Inoperosi. La mia camera vera. La vita di ogni scrittore ha posti a sedere e posti in piedi. Io ho scelto di stare seduto e, quando cammino, fingo di essere in piedi. È bello essere dove nessuno ti vede. Gli Inoperosi hanno una grande qualità: rendere invisibile la loro opera scrivendola in grandi e fitti quaderni.

 

Sogno

 

Ieri ho sognato che celebravano un mio amico, scrittore e filosofo, morto da pochi mesi, nella città di Balan. Era il primo convegno importante su di lui. Si svolgeva in un piccolo anfiteatro, a pochi metri da una spiaggia, dove si sentiva la risacca del mare. E io, di colpo, stupito, lo vedevo fisicamente presente, proprio accanto a me. Sorrideva e diceva che non sarebbe mai potuto mancare: a Balan facevano dei dolci così buoni che era impossibile non gustarli. Io mi stupivo che un morto mangiasse. Ma lui era così vivo e felice che alla fine non ero più stupito ma soltanto contento. Restammo insieme, io e lui, con la sua faccia adolescente, la bella barba scura, la gran fame. Vidi che si stava divorando una fetta di Sacher, fingendo di leggere un libro. Professori e filosofi parlavano di lui, dell’importante defunto scrittore e filosofo. Ma noi ridevamo di gusto fra i banchi. Intanto, il mare continuava a infrangersi sotto l’anfiteatro, vicinissimo. Io pensavo che non si è mai abbastanza morti quando qualcosa ci rende felici.

 

Passeggiate

 

Sul lago di Biel prima di me ha passeggiato Rousseau: ne sono orgoglioso. Ma lui, non lo trafiggevano le mie spine. Lui era un filosofo. Anche se il mondo non smetteva di perseguitarlo. Ci sono filosofi che fanno pensare con leggerezza e filosofi che ti attaccano pietre alla mente. Oh come li detesto, questi asini! Io, di fronte a pensieri che non sono colorati come tulipani nell’erba, sbadiglio.

Chiesa

 

Spesso, di giorno, entravo in chiesa. Per trovare le parole del mio prossimo poema. Solo in quel grande silenzio cominciavo a capire cosa è magico e cosa non lo è. E le volte alte mi rimandavano l’eco delle parole che bisbigliavo dentro di me. Se le sento pesanti, le cancello. Se le sento adeguate, le userò. Ogni poeta ha le sue strategie. Non prega nulla e nessuno. Serve ciò che vuole servire, non un Dio senza colore e senza faccia, ma delicate, vibranti musiche. Le chiese riposano, inducono a capire i suoni giusti delle parole. L’acustica è favolosa. Io sentivo le parole che avrei scritto, ma in silenzio, senza scriverle. Ci sono strumenti che, anche a non suonarli, sono bellissimi. E talvolta si cammina con tutti quei suoni dentro la testa e si sogna di restare così, muti ma pieni di musica, come è giusto, senza sfiorare il mondo. Qualcuno mi dice (una voce!): sei un vile, devi entrare con forza nelle cose per cambiarle. Ma perché, penso, chi sono io per farlo? Il mio posto è appena oltre il mistero del sonno. Politici e condottieri facciano quello che devono, coprano la terra di città, di sangue, di stupri. Io amo troppo la bellissima natura per essere uno di loro. Io resto chi sono. Qualcuno dice un’eco. Bello, bello! Meglio un’eco che un’ombra. L’eco ha una tinta delicata e dolce, l’ombra è tetra e scura.

 

Carta usata

 

Che non si scomodi carta nuova, per me. Bianca, troppo bianca, buona per gli avvocati e i poeti di grido. Voglio carta di seconda mano, unta di pane, di focaccia. Bella solo così. Carta usata dai golosi, non dai filosofi. Qualcosa che abbia fasciato e carezzato il cibo. Una meraviglia scrivere lì dentro. C’è ancora il sapore della farina, l’olio della pasta, tutta la fragranza. Lì vorrei posare la mia scrittura. O nella carta stropicciata dei telegrammi, dove le parole si mettono a fianco degli indirizzi e dei nomi, inadeguate, amorose, ambigue, supplicanti, colleriche.

Nient’altro

 

 

Il canto sfrenato degli uccelli. La perfetta luce del giorno. E sapere che non verrà la notte, perché esigo che non venga. Altro non saprei dirti oggi, Weiss, se non questo: odio le buie cartolerie, le buie librerie, i bui negozi, i bui uffici, voglio cose che splendano come specchi d’acqua nei boschi, voglio perdermi nel verde, voglio trovare la radura dove essere me stesso, dove qualche dea bianca si accorga di me e qualche reale divinità dei boschi sorrida all’uomo che veramente sono, oltre la maschera terrena. Büchner diceva, di Lenz: “Egli era un sogno a se stesso!”.

Melville

 

Talvolta vorrei sapere qualcosa di più degli ultimi giorni di Melville. Chi ha scritto Moby Dick e Bartleby lo scrivano deve avere un potente segreto dentro di sé. Il Pesce Gigantesco, il minuscolo copista. Chi può tenere dentro di sé queste due realtà opposte, ma chissà se così opposte, porta in sé una bella e aspra follia, che vorrei condividere. Una sua claustrale lontananza dal mondo. Lo immagino dentro un doppio vento, che soffia o di notte o di giorno. Uno potente, l’altro sottile. Come sono stati i suoi ultimi anni di vita? Vorrei leggere una biografia di Melville. Dicono fosse vissuto fra missionari e cannibali, ma detestava i primi e prediligeva i secondi. E poi, il dramma di suo figlio, suicida a diciotto anni. Un colpo di pistola nella casa del padre. Se devo essere sincero, il suo linguaggio enfatico e potente mi stordisce, talvolta mi irrita, come la faccia severa e biblica di Achab. Ma, quando parla delle torri d’albero e dei giovani assorti in vedetta a scrutare le balene, di quei giovani sprofondati nella fantasticheria di vedere scivolare e sfiatare quei pesci immensi nell’oceano incantato, il mio desiderio più grande è imbarcarmi a bordo del Pequod, far sì che la nave giri per anni e anni alla ricerca di un mite e innocente capodoglio e nessuno sappia dov’è e sorridergli da lassù, dalla torre di vedetta, la testa nelle nuvole, come a un lontano amico, convincendo il capitano a sospendere la sua ridicola vendetta, a stare accanto a me, Quicqueg e Stubb, solo con noi, a bere e cantare mentre le belle balene soffiano e nuotano, sollevando altissimi spruzzi complici.

 

I disegni di Karl

 

No, non conservo libri, qui. Neppure i miei Cosa me ne farei, in un manicomio? Leggo quello che trovo, vecchie riviste, Dostoevskij, Melville. Sì, mio fratello viene a trovarmi raramente. È molto impegnato. E un grande artista riconosciuto dal mondo. Sì, mi piacerebbe avere tanti disegni di Karl con me. Adoro i suoi uomini e le sue donne. Sono tutti Robert. Sono tutti me. Li amo. Non occorre corpo per amare. La fantasia, il flusso che pervade le cose, è energia d’amore, senza il sospiro  della passione.

 

Ridere

 

Ieri ho riferito a Carl Seelig dei nostri colloqui. Ne era felice. È un uomo disinteressato e puro. Talvolta, se ho parlato con te, rinuncia ad accompagnarmi nelle mie passeggiate. “Non voglio frastornarti” mi dice. E io rido della sua precauzione, gli stringo la mano, gli tocco la spalla. Beviamo una birra insieme in qualche malga isolata. Fa così bene bere e mangiare. Ma se il mondo fuori di noi fosse solo un gioco ironico di ombre che esistono per turbarci, per ingannarci? Il mondo è la nostra lanterna magica. Fingere di crederlo vivo è commovente, è uno scherzo. Tutti ci si adattano perché non sanno che la varietà della metamorfosi è infinita e basta che un bimbo guardi la nostra terra, la malga, l’erba, i faggi, e la colori a suo modo perché sparisca ciò che vediamo noi e appaia solo ciò che vede lui.

Foglio segreto

 

Che il mondo intero mi consideri insignificante, oh che realtà bellissima! Tante volte invidiavo i miei colleghi scrittori per la loro bravura nell’incastonare temi e parole ma poi mi sono accorto che sbagliavo, a cosa serve essere virtuosi? Io mi accontento del mio pensiero segreto. Io voglio il mio pensiero segreto. Devo, in quanto lo voglio. Tutti possono ridere del mio foglio scritto ma nessuno può togliermi la penna dalla carta, tutti vogliono farlo, ma non possono, soprattutto quando non ho ancora scritto nulla, ed è tutto lì nella mia testa, e io sono piccolo, molto piccolo, e la mia storia è tutta lì, dentro la penna, la storia di me che sono uno zero, numero tondo, uovo nudo, senza ghirlande, e rido come un bambino guardando la carta stagnola, il foglio bianco, bel rettangolo di neve versato al centro della mia scrivania scura. (Mia? Scrivania? È solo un tavolo, un tavolo! Legno scuro, pieno delle briciole dei pasti dei matti).