Borel

Un dettaglio: io non ho mai scritto una riga. Quello che ti ho letto è tutto scritto qui, nella mia testa. Per me i fogli sono solo cose da riempire di ghirigori. Là troverai solo la cenere dei miei sigari. Prendili pure.

di in: Bazar
Pierre Soulages (1957)

Pierre Soulages (1957)

Ho sessantasette anni, signore. Mi chiamo Borel. Alberto Antonio Borel. Sessantasette, signore. Sono ospite volontario, qui. Nessuno mi ha costretto a entrare.

Non ho famiglia, né fratelli né figli né cugini né nipoti. Ero un uomo vigoroso, ma le gambe, purtroppo…

Sono stato io a voler stare qui, in questo ospizio. Il mondo, fuori, è troppo spinoso.

Vuole ascoltare un mio racconto? La importuno, forse?

Non se ne pentirà. Io voglio un lettore. Lei mi ascolterà? Sì? Lo intuisco dagli occhi, dalle mani. Lei è un uomo vivo. Non cammina avanti e indietro come questi sciocchi che trascinano le carrozzelle dei padri o delle madri, ridicoli esseri trafelati che vegliano spettri e curano fantasmi, che parlano di aspirine e di verdura, che discutono di flebo e di merda.

Si è mai chiesto, signore, come possiamo invecchiare con l’immagine della nostra giovinezza ben fissa nella mente, stampata nelle nostre fotografie? Come possiamo vivere sapendo che sono morti quei corpi che erano nostri? Non potremmo. Ma possiamo. O si accetta l’orrore o si muore. Vede, ho il plaid ingombro di fogli. Scrivo e la carta si muove sotto la penna, maledizione! Vuole leggere queste mie righe, per favore? Vuole? No, adesso NO. Guardi quelle facce decrepite. Quei pezzi di carne sono stati, nel passato, volti abbronzati, braccia snelle, corpi giovani. Hanno desiderato, mangiato, riso, viaggiato. Le facce di adesso, se la loro giovinezza è stata vera, sono totalmente false, sono il risultato disgustoso della banale azione del tempo. E allora, quando siamo veri? Quando siamo stati veri, allora o adesso? E queste rughe? Cosa me ne faccio? Perché non posso toglierle dalla faccia e dal corpo? Perché non riesco a tornare indietro? Lei sa dirmelo? Tu sai dirmelo?

Tutti mi scartavano, tutti diffidavano di me. Ero solo uno scribacchino invisibile. Fai bene le tue pratiche, Borel. Non ti distrarre, Borel. Ordina i numeri, Borel. Compila le cartelle, Borel. Fai le fotocopie, Borel. E io eseguivo, senza usare la testa, come un morto vivo. Consòlami. Ho la testa che pesa, che vorrebbe staccarsi dal collo. Io non ci sto.

Gli uomini sono tutti cadaveri. Tutti con quell’aria assorta, irritante, da pupazzi. Che la vita ci porti solo a questo è buffo e impossibile. È che non riusciamo a ribellarci nel modo giusto, a respingere la morte con la necessaria fermezza. Si può, più di quanto si creda. Ma tutti sono pigri e sordi, si arrendono ai vecchi riti, credono che la vita di domani sia lo specchio della vita di ieri.  

Méttiti qui sulla panchina, non tornare a casa, cosa ci trovi? La vecchia moglie? Il figlio disoccupato? Non ne vale la pena.

Leggimi. Ma adesso NO. Devo ancora correggerli, i miei racconti. Il plaid sulle gambe, il libro sulle ginocchia, un foglietto nelle pagine, mozziconi di matita: a volte sono ridicolo. Lo sai quante storie mi hanno assediato nella vita? Più di quante tu possa immaginare. Io non sono mai stato un uomo solo. Non sono mai stato solo un uomo. Ricòrdati di questo. Non si tratta di parole. Si tratta di storie su storie, e le storie hanno bisogno non solo della voce che le pronuncia ma delle parole che le scrivono. Proprio di certe parole che lasciano segni. Non ho mai voluto annotare nulla, fino a sessant’anni. Mi illudevo di ricordare.

Ma si dimentica tutto. Non ricordo un volto e nessuno ricorda il mio. Sapresti descrivermi, se chiudessi gli occhi? Sapresti realmente descrivermi? No. Ma i racconti li ricordi. Io li ricordo. Hanno un nome, un cognome, un corpo. Ti parlo troppo di loro. Ma come potrei parlarti d’altro? Dovrei raccontarti la storia della mia nobile vita? Ma le vite si assomigliano tutte. Banali, indaffarate, infelici, terribili. Indegne di essere ricordate. Ho lavorato, non mi sono sposato, non ho avuto figli. Viaggi? Pochissimi. Si parte per luoghi lontani ma si resta sempre dentro di sé. Non bastano deserti dorati o cattedrali gotiche, chiostri barocchi o tramonti a Belém, conventi affrescati o mari antartici. Si resta soli, immobili.

Ma in questo c’è un piacere sottile. Metà degli uomini, sul pianeta, crede di essere viva e lo è molto meno di me. Ho sempre percepito, fin dall’infanzia, un’idea forte della vita, una forma ben tracciata che gli altri inutilmente si accanivano a frammentare. Quella forma era precisa, in tutto e per tutto. Ma non te ne voglio parlare ancora. È prematuro. Vorrei tu mi ascoltassi, mi leggessi. Tanto, non hai nulla di meglio da fare. Tua madre non peggiora e non migliora. Quindi, hai tutto il tempo per sentirmi.   

Cosa? Chi? No, oggi non ti parlo di racconti. È di musica che voglio parlarti. Già, la musica. A te piace? Per me è tutto: una volta suonavo il pianoforte. Eseguivo le mazurche di Chopin, qualche preludio di Debussy, le Gymnopédies di Satie. Poi persi l’agilità delle dita. Sbagliavo tutti i pezzi, ma non volevo smettere, non sapevo rinunciare. Cominciai a mettere le mani sulla tastiera, nel buio, a muovere le dita così, indifferente ai suoni che venivano fuori. A volte poggiavo sui tasti anche le braccia, anche i gomiti. E mentre mi muovevo ne tiravo fuori suoni dissonanti o dolcissimi, sempre inattesi. Era come costruire una casa, un tempio. Lo sai, nessun tempio ha un centro, o meglio tutti i suoi punti sono il suo centro. Il problema non è un’architettura che sostenga qualcosa ma il giusto respiro che collega le cose. Ma come si fa a pensare giustamente e realmente se stessi? Gli altri ci inducono fin dall’infanzia a pensarci come ci vogliono loro e soltanto troppo tempo dopo siamo noi a trovare, contro di loro, la nostra forma. Allora rispondiamo. Noi vediamo, sentiamo troppo. La vita è un azzardo. Apre confini, sfonda limiti. Non c’è vita senza che qualcuno ne sia disgustato e non cerchi soluzioni nuove, esagerate o ridicole, ma nuove per lui. Rischiose. Questo te lo dico ora, da vecchio. I vecchi non hanno più nessun codice a cui riferirsi, nessun padrone da servire. Sono liberi. Possono essere scandalosi e dire la verità, anche se la verità non piace a nessuno. Sono liberi come uccelli che voleranno, anche se le ali hanno perso forza.

Vivere è sempre sbagliato. Per strada ci aspettano orari, padroni, ordini, numeri. Ci chiamano sempre. E, quando chiamano, bisogna obbedire. Ma non sempre. Al contrario: in tutti i modi che ci sono concessi è necessario disobbedire a quanto ci vuole inerti. Io, ad esempio, leggendo libri, divorando film, mi sono estraniato da una vita che non sentivo mia. Mi sono messo in stand by. Guardavo videocassette e facevo scorrere parole. Una continua metamorfosi. Noi siamo questa condizione di metamorfosi. Chi non lo crede possibile è un servo che si accontenta. Mi piacciono i servi, ma i servi che vogliono esserlo. Mi sono fatto chiudere qui dentro proprio per soggiacere alle regole dell’istituto. Quando obbedisci, vieni nutrito e alloggiato, va tutto bene. Fanno così anche i matti. Conservi il tuo spirito come se fosse sotto la neve: intatto, immune. Non devi impegnarti a possedere, orchestrare, addestrare. Sul mondo non hai niente da dire, dal mondo non hai niente da prendere.

Per me tutto quello che esiste è un vago ricordo di artisti sconosciuti, di libri prodigiosi, di terrori mentali. Non ho altro in mente che questo. Vorrei correre, ma le gambe non me lo consentono. È come se non fossi mai realmente e totalmente vissuto. Qui vivo da tre anni e tutto va bene. Nessuna malinconia. Leggo, penso, scrivo. Certe volte sfoglio dei libri, a notte alta. Non distinguo le parole sulla carta, ma provo un piacere straordinario a voltare le pagine, a percepire storie che non leggo. Poi guardo lo specchio, non appena fa notte. Bellissimo non vedermi!

Mangio con voracità, punto i gomiti sui braccioli della sedia, tendo i muscoli delle spalle, ma non ce la faccio. Ecco i miei taccuini, quelle che leggerai non sono soltanto delle storie. Sono le vite che ho ritrovato, che ho inventato io. Vite chiuse, finite. Stroncate da morti ingiuste, inopportune, scandalose, gratuite, crudeli. Vite troppo veloci o troppo lente. Le ho salvate io dal silenzio. Il primo sopruso, ovviamente, è la morte. Ci renderà, prima o dopo, sue vittime. Ma io voglio combatterla. Io, Borel. Non mi interessa l’esistenza di Borel: le mie scopate, i miei affetti, le mie case, i miei pranzi. Migliaia di biografie di migliaia di uomini descrivono questi fatti stupidi e comuni. Io mi assento da tutto questo. Mi dichiaro: non presente. Ho voluto schivare la vita vera per assaporare la vera vita. Salvare chi si è arreso al silenzio. Mettere il suo nome, tracciare la sua storia, definire il suo tempo. Sostenere questo compito impossibile: cacciare il silenzio. Io lo sto facendo. Io racconto di esseri che sarebbero stati spazzati via, senza le mie parole. Li tengo vivi nelle parole. Ma non leggermi adesso, non ridere di me. Adesso NO! C’è troppo disordine sulle mie ginocchia…

Io ero un uomo riservato e tranquillo, non prendevo mai la parola per primo. I lineamenti anonimi. Il corpo mediamente robusto. L’altezza normale. Gli occhi castani. I capelli né folti né radi. Avrei potuto confondermi con chiunque. Uno che passa inosservato in mezzo alla gente. Ho sempre lottato contro questa disgustosa uniformità. Mi sono fatto quasi invisibile. Quando non hai una vita soddisfacente, un corpo giusto, dei pensieri originali, e ti ripugna toglierti la vita, accetti di vivere in segreto. Ma devi covare un altro mondo. Quello che, tutti i giorni, tessi e ritessi, come un ragno famelico. È una chance che nessun dio e nessun demone ti strapperà.

Tutti siamo esattamente così, chiusi in piccole, infime ossessioni. Ognuna è un recinto che limita, che stringe. Il nostro male e il nostro bene. Il peggiore degli abissi ma anche la nostra unica smorfia. Perdiamo tutto, ma importa a qualcuno? Il giorno dopo è daccapo. La vita non ha colonne fisse, strutture eterne. Ci sono nomadi che traversano il deserto senza nessun messaggio da portare.

Quando non ero ancora quaggiù, in questo ospizio di semimorti, vivevo da solo. Eppure c’era sempre qualcuno che voleva entrare nella mia casa. Toccare i miei piatti, le mie forchette. Sedersi sulle mie sedie, usare il mio letto, togliermi il cibo. Come potevo permettere che qualcuno usurpasse la mia bocca, i miei occhi? Doveva sparire. Via dal mondo. Lui morto, io vivo. Fu allora che cominciai a scrivere un diario. Qualsiasi cosa accadesse, io la scrivevo. Quando lo vidi di nuovo nella mia stanza, quell’estraneo, seduto nella mia sedia a svuotarmi voracemente il frigo, capii che non c’erano alternative. Lo accoltellai. Venne la polizia, poi lo psichiatra. Mi dissero che avevo ferito il medico chiamato per curarmi. Ma cosa posso avergli fatto? Un graffio da nulla. Fui giudicato pericoloso e ricoverato. Iniziarono allora i dolori alle gambe. Prima degli spasmi, poi delle fitte. Non camminavo quasi più. Mi trovarono quest’istituto e va benissimo. Sono docile, buono. Un modello di vecchietto.

Nessuno è mai solo. Neppure io, adesso, lo sono. Ci sei tu. Come ti chiami? Tomas? Da tempo speravo che accadesse, Tomas. Qua ne passano tante, di persone, ma tu sei un tizio strano. Mi assomigli, credo (o mi immagino che sia così?) Qual è il tuo kharma? Io non lo so. Fin da ragazzo io sono stato ossessionato da un duende che mi dettava i pensieri migliori, da un folletto felice e maldestro. Ero stregato da Miles Davis e Tom Waits: loro sì che hanno il duende, dicevo. Crebbi con l’idea che le persone, prive di uno spirito che le possieda, fossero inutili automi. Cominciai, fin da bambino, a disegnare sui muri delle facce e dei corpi, ma su ogni faccia e ogni corpo volevo che aleggiasse una striscia di bianco, una traccia di vapore che li animasse con il vigore del duende.

Vedi, ho appena finito un racconto per te, lo avevo progettato da vent’anni, parla di un servo superfluo e mansueto, ficcato in un mondo spaventoso, ma alla fine c’è un colpo di scena. Ora è finito. Sono riuscito a finirlo. So che tua madre ha avuto una crisi più grave delle altre. Mi spiace sul serio. Resta qui, se lo vuoi. Non tornare a casa. La mia stanza è molto grande. Devo dirti ancora parecchie cose. Ti spiegherò chi sono, chi sono stato. E come, ogni giorno, sia stupito di vedere accanto a me uomini che soffrono invano ma si accaniscono a lottare, assistiti da figli che si stupiscono della malattia e della morte come se nessuno, prima dei loro padri e delle loro madri, si fosse mai ammalato o fosse mai morto.

Credo di vivere in un mondo di stupidi. Non capiscono che la vita è un lampo, un lusso, un caso. Si ostinano a trattenerla come un tesoro prezioso. Fanno pena. I corpi non restano. Sono organismi mediocri, degradabili. Puzzano e si disfano. Restano i racconti. Ad esempio, questo. Un giorno sono nella casa di un tizio molto ricco. Possiede un pianoforte, dentro uno studio, che nessuno suona. Mentre festeggiano chissà quale sciocco anniversario, io mi rifugio in quello studio, chiudo la porta a chiave e strimpello il pianoforte per circa quattro ore, finché una voce molto violenta mi ordina di aprire. Apro. Chiedo scusa. Mi guardano con disprezzo ma ormai ho suonato.

Non credere che io abbia aspettato proprio te! Io non aspetto nessuno. Niente è realmente importante. Le persone che ho amato a volte non erano neppure vive. Erano scrittori di altri secoli. Nessuno mi parli mai di letteratura. La letteratura, quella vera, non esiste. Gli scrittori sono e saranno sempre esseri vivi. Più vivi di te e di me, perché hanno sperimentato la passione di non esistere attraverso parole che esistono.

Io andavo sempre al cinema, quando ero giovane. Guardando dei film degli anni quaranta, mi sentivo finalmente e totalmente solo. Non vedevo nessuno attorno a me, non appena calava il buio. Capisci, nel cinema non vedi mai una persona umana nella luce vera del sole. Sono tutti esseri come te e come me, scontrosi, voraci, infantili, atterriti. Se ne stanno rintanati e sognanti. Lontani. Guardano immagini. Osservano figure. Non ti mostrano i loro corpi. Non ti fanno vedere nulla. E, insieme, condividete una storia dove immagini di corpi che oggi sono morti si aggirano come zombies alteri e appassionati. Non è straordinario? Il vento porta turbini di polvere sui piatti e sulle mani, ululando senza suono. Un gangster si uccide in cima a una fabbrica, sparando contro dei barili di esplosivo. Una donna scende la scala facendo oscillare un anello alla caviglia. Un uomo non sente, nel buio, il suono dei suoi passi. Un giovane, seduto con la sua donna nel sedile anteriore della macchina, ingrana la retromarcia e si sfracellano insieme nel burrone.

Bravo. Continui a tacere. Te ne stai muto, in un angolo. Lasci che io blateri. Compatisci la mia incontrollabile, ridicola, patetica vitalità. Come se io solo ora potessi immaginare, pensare, credere di essere al mondo. Mi trovi stupido? Fuori tempo? Chissà. Non confermi, non ti opponi. Osservi e mi lasci parlare. Ma io ho già vinto con te: tu non ti allontani. Forse è la mia voce, flebile, a tenerti stretto. Un filo appena. Ma so di poter convincere, con la mia voce. Hai un segno indelebile sulla camicia, una riga nera. Te lo sei fatto con una penna senza cappuccio. Anche tu fai parte quei tipi distratti e sciocchi che prendono appunti per strada, come sceneggiatori da strapazzo.

Cosa ho fatto nella mia vita? Il libraio. Il bibliotecario. Ma per tempi brevi. Erano lavori ripetitivi, strategie per formulare elenchi, per intrappolare titoli. Su questo argomento ho scritto un racconto. Il modo più onesto e più rigoroso di manifestare un desiderio, di opporsi alla dispersione, al disastro, alla fine, è collezionare libri, non leggerli. Ogni libro letto è una morte. Occorre resistere a questo. Non leggere, non scrivere. Ma avere. Leggi il mio racconto, descrivo proprio questo. Ma no, va via! Non guardare! Non toccarmi!

E se io non fossi quello che sembro essere? Tu vedi un uomo vecchio e infermo, relegato su una sedia del giardino, ma io mi sono volontariamente segregato in questo istituto solo per avere la libertà di scrivere e di dire quello che volevo. Se fossi solo un uomo di cinquant’anni truccato da vecchio? Se avessi simulato delle malattie terribili, tanto da rendere necessario il mio ricovero? Se ti avessi raccontato solo delle favole idiote?  

C’è qualcuno che osa, prendendo la penna in mano, essere sempre diverso? Qualcuno che non si accontenta della sua unica voce e rimane complesso, inafferrabile, irriducibile? Io sono uno di quelli che dicono cose esagerate e infantili, non previste. I vecchi e i matti sanno trovare ancora lo stupore che ci vogliono togliere dalla mente con una vita lobotomizzata. Loro non hanno niente da perdere e niente da dare, come certi strani assassini, che assomigliano in modo sorprendente agli artisti.

Sto perdendo la memoria, davvero. Sto perdendo la memoria. (Ma forse non è vero, io vedo e ricordo troppo).

Non saprei dirti da quando sono qui e perché tu non mi veda in piedi. Ho dei problemi alle gambe, naturalmente, ma non ricordo nulla di quello che è accaduto: ictus, incidente, banale caduta. È una cosa molto semplice perdere la memoria, accade a tutti i vecchi e io sono vecchio. Ma perderla o possederla in modo totale non ti sembra particolarmente strano? D’altronde le esperienze, o sono assolute o non sono. Chi è vissuto in un paese armonioso sprofondato tra le macerie di un terremoto, cosa potrà riferire se sopravvive? Riuscirà  raccontare quello che ha visto anche solo per un attimo? I suoi compagni hanno visto certamente di più ma non hanno né la voce né la vita per riferirlo. A lui tocca quel compito. Però si sente un essere a metà. Né sepolto né vivo. Un vero rebus. Ma accetta il rebus. In questa vita l’orgoglio non deve essere debole ma smisurato, come la memoria. 

Ho pensato spesso alla psichiatria ma non ho mai studiato l’argomento. Non sono diventato né psicologo né medico. Mi ripugnava esercitare una professione che avesse delle analogie con questo problema sacro. Ma ho spesso immaginato la condizione del folle. Ho immaginato che io e lui, per molti giorni, ci frequentassimo nella cella di un manicomio. Così, una notte, mi sono inventato un racconto. Dice molte cose, di me e di te. Leggilo. Spiega esattamente quello che penso. Io, semplicemen­te, te l’ho ripetuto più volte, non sono. Come i folli. Il pazzo è sempre lì, nel dolore di non esserci o di esserci troppo. Abita sempre lo stesso luogo, che solo lui conosce. Non serve nessuno, non serve a nessuno, non invecchia mai. Si ritira dal frastuono dei vivi, si fa consumare da un sogno. È un puro. È una pietra che nessuna goccia d’acqua può levigare. No, non leggere! È tutto confuso, ancora scribacchiato…

E non guardarti intorno. Sembra che ti stiano braccando, lo so, ma non ci badare. Non verranno fin qui. Questo è un luogo di dementi. Non penseranno mai che tu sia qui. Férmati. Ricordi le pitture di Briga, a Notre Dame de la Fontaine? Il Giudizio Universale. Le ruote. I diavoli. I mostri. Il corpo impiccato di Giuda, gli occhi sbarrati, gli intestini che gli fuoriescono dal corpo come un serpente che si attorciglia su se stesso: il diavolo, con la testa e il culo da diavolo, tira fuori dall’impiccato, come nel travaglio del parto, un’anima nuova. Forse non te l’ho mai detto ma io, dentro di me, ho un’energia quasi incontrollabile, a cui non ho mai attinto completamente perché non mi è stato concesso, perché me lo hanno proibito. Non ho vissuto bene la mia normalità. Non sono mai stato normale ma sempre malinconico, come quelle figure dei santi del Lotto, disperate e assorte, recluse dal mondo sacro e dal mondo profano. Mi sono sempre difeso da qualche pericolo, visibile o invisibile. Sentivo che, se mi fossi abbandonato, avrei provato un malessere intollerabile. Mi sarei trovato nudo, i nervi allo scoperto, scorticato. Non potevo permetterlo. È incongruo e infantile, lo so. Ma ero sempre in stato di resistenza. Si resiste con una fatica micidiale, ma si resiste. E, alla fine della giornata, almeno non si è perso terreno. Non si è avanzato, non si è indietreggiato. Si è rimasti in bilico, come se da un momento all’altro qualcuno volesse spingerci nell’abisso: ecco la realtà. I muscoli sono tesi, pronti all’assalto. Ci opponiamo. Un altro mondo ci aspetta. I pittori, in questo senso, mi hanno sempre appassionato. Creano superfici nuove, dipingono nuovi mondi. Non si accontentano delle forme che esistono ma ne imbrattano altre.

Ieri ho trovato tra le mie carte un vecchio racconto. Lo avevo intitolato Borel. La trama: un prigioniero assume tutte le facce dei suoi visitatori. Mi chiederai perché voglia fartelo leggere, è un racconto breve e non particolarmente significativo, ma è attraverso questo racconto che ho capito di essere chi sono. Non ricordo più quale nome avessi prima. Ma da allora, ne sono certo, ho detto a tutti che mi chiamavo Borel. E tutti, da allora, mi hanno chiamato Borel. .

Tu sei un uomo sano. A te sembra di essere una persona normalmente viva. Normalmente sana. E lo sei, come tanti. Ma fino a che punto sei consapevole di avere avuto soltanto un’immensa, fottuta fortuna? Sarebbe bastato un piccolo virus, una piccola infezione in alcune fibre del cervello, e saresti stato una persona spenta, un fantoccio inerte. Hai mai studiato certe malattie neurologiche? Dovresti farlo con scrupolosa attenzione e capiresti di essere, come tanti uomini, un privilegiato, un eletto. Io ho scritto tre racconti su tre incomprensibili infermità. Volevo che il mio lettore capisse fino a che punto l’orgogliosa e arrogante salute dell’uomo sia solo una botta di culo, un’assurda roulette russa e basta, niente di più…

Non ho mai avuto problemi di padre o di madre. Sono rimasto orfano da bambino dell’uno e dell’altra. Tu, invece, vieni qui, nell’istituto, a visitare la tua vecchia. Quindi l’hai avuta accanto a te o lontano da te per anni. Per molti anni, visto che non sei più giovane. E allora, sei solo una vittima. Certo lei avrà cercato, per amore, di toglierti l’aria che respiravi, di sostituirla con la sua. È accaduto sempre così, da quando esiste il mondo. E tu hai lottato contro la sua violenza. Magari sei diventato ingegnere, medico o scrittore. Cosa posso saperne? Ma in realtà ne so io più di te. Non avendo vissuto il problema, me lo sono covato dentro. Ci ho pensato fino all’ossessione. Avendo perso i genitori da bambino, mi sono trovato con uno spazio enorme e vuoto da occupare con il pensiero. E ho pensato, anno dopo anno, a cosa significhi essere figlio o padre, e ho fatto innumerevoli fantasie. Ho scritto diversi racconti sul tema, belli e brutti. Ne conservo uno, gli altri li ho stracciati. Ci tengo parecchio, forse troverai delle cose che rispecchiano le tue idee, le tue nevrosi… 

Se mi capitasse, un giorno, di vedere una scala i cui gradini finiscono dentro un muro, proverei sempre la speranza che domani quei gradini possano andare verso una porta, portarmi dentro una casa. Non credo che la realtà sia quella che appare. Se ci credessi, sarei morto. Non sarei qui a scriverti, a parlarti. Saremmo tutti già finiti. Io, te, gli altri. Hai mai letto un libro mentre scende la notte e i fogli cominciano a diventare invisibili e tu cerchi comunque di decifrare le righe? Io sì. Viviamo perché ogni giorno siamo dei paradossi: facciamo strappi, apriamo fessure, provochiamo ferite. Voglio leggerti un racconto dove scrivo di questo, dove immagino una conferenza sull’arte, e poi divago, mi perdo, vado via con la mente. Tienimi il foglio. Non fare quella smorfia. Non pensare a tua madre. Avanti…

Te lo ripeto: ho sempre voluto fuggire da me, non essere io. Cosa significa perdere i capelli, zoppicare, avere il sangue che scorre lento nelle mani, nelle gambe? Banali reazioni chimiche. Ma chi vuole avere la testa a posto, chi vuole opporsi alla demenza, può. Basta che sia discorde al mondo. O almeno, che finga di piegarsi e poi si scavi una via d’uscita proprio dentro alla sua tana, dove resterà padrone solitario e onnipotente. Sono troppo vecchio, ma ho tutta la libertà che voglio per dare voce ai miei dèmoni. Non devo soffocare verità, obbedire a convinzioni. Conta quello che è vero: l’odore di una schiena abbronzata e adolescente, il profumo delle piante notturne, un cielo stellato, un sesso giovane e morbido. Ecco i miei desideri, che realizzo col pensiero.

Ricordo una ragazza, aveva forse sedici anni, il viso acuto, gli occhi neri, la magnifica schiena scura. Ho pensato: e se morisse ora? Che cosa straordinaria! Ricordo quella giovane meraviglia. Quel corpo non avrebbe mai dovuto invecchiare. Desideravo fotografarlo e vederlo sempre così, in quella sua stupenda luce, mezza bruna, mezza dorata. Ma gli anni sarebbero passati. Tutto sarebbe cambiato. Perché capita questo? Non dovrebbe capitare mai. Ma io la ricordo. Lotterò. Devo lottare. Ogni impresa è impossibile, e perciò va tentata. Io credo che potrò fare tutto questo. Sconfiggere il tempo? Stupido, impossibile tentativo. Ma rallentarlo? Ecco: se ti scrivo, se ti parlo, questa lentezza comincia già ad agire, a scivolare dentro la mente. Non arresterò le cose ma le renderò belle e straordinarie, per un tempo appena più lungo di quello che ci è concesso. È già qualcosa: una frivola, insignificante, splendida vittoria della memoria. La schiena della sedicenne resterà, bellissima e abbronzata, viva per qualche settimana in più, qualche giorno, qualche minuto, qualche secondo in più, senza che il tempo cominci già da ora a logorare quella pelle delicata ed elastica, che toglie il fiato per la sua bellezza, e non chiede nessuna parola per essere ammirata ma provoca un leggero nodo alla gola se la si osserva…

Volevi vedere i miei disegni? Volevi leggere i miei racconti? Ma questi sono tutti scarabocchi. Gli originali sono nella mia stanza. Lassù. Proprio nella mia stanza. Sono chiusi nel comodino a sinistra, primo cassetto. Manda su un’infermiera. Oppure vai tu. Sì, bravo, obbedisci. Sali, grazie.

Vòltati, adesso. Io sono qui, sulla soglia della stanza.

Un dettaglio: io non ho mai scritto una riga. Quello che ti ho letto è tutto scritto qui, nella mia testa. Per me i fogli sono solo cose da riempire di ghirigori. Là troverai solo la cenere dei miei sigari. Prendili pure. I sigari sono tuoi, Tomas.

Ti stupisci che io sia in piedi? Ma io non ho mai avuto nessuna infermità alle gambe. Tu, invece, adesso, hai forti dolori, vero? Alle cosce, alle caviglie, al polpaccio. Ti capisco. Devi sederti. La carrozzella è proprio vicina al letto, dalla parte sinistra, vicino al comodino. Perché sei tu Borel, ovviamente. Lo sei da quando ti ho parlato. Io sono solo uno dei tanti figli imbecilli che vengono a trovare la mamma in cronicario: alle sei e dieci uscirò di qui, con la tua faccia e il tuo nome, le gambe sane e scattanti, finalmente libero, perché ti ho parlato per il tempo necessario. Ah, le magie della parola! Sarò libero, giovane come te. E tu resterai qui, come Borel. I tuoi documenti li prendo io, i miei li metto nel tuo portafoglio. (Era questo l’argomento del mio racconto: alla fine riesco a uscire di prigione lasciando l’ultimo visitatore al mio posto, scambiando con lui il corpo, la faccia, la voce.)

Ma stai tranquillo, Tomas.

Il tuo dolore non durerà troppo a lungo.

Borel è di salute cagionevole.

Tra pochi mesi compirai sessantotto anni; poi, senza accorgertene, arriverai a sessantanove, settanta, settantuno. Un tempo ragionevole. Poi anche respirare ti sarà difficile. L’enfisema, il cuore gonfio, la pancreatite. I soliti dettagli. Ma il congedo sarà breve. Addio.

Un commento su “Borel

  1. Viviane Ciampi

    Un bel racconto crudele, alla maniera di Ercolani. Da notare il rapporto con il lettore: “Lei mi ascolterà? Sì?” Toccata e fuga – d’accordo – ma il lettore diventa preda e si ritrova in trappola. C’è in questo come in altri racconti dello scrittore genovese un’energia paradossale che disturba e fa gioire.