Una scorta di parole.
Su Promemoria di Andrea Bajani

di in: De libris

Con una immagine di mare da una finestra [che non può non ricordare la raccolta di esordio del poeta coetaneo Massimo Gezzi, Il mare a destra] si chiude la raccolta di esordio di Andrea Bajani (Roma, 1975), che conoscevamo fino ad ora come autore di narrativa di grande pregio, ma anche reporter, e anche traduttore, nel 2005, del poeta e drammaturgo nigeriano Wole Soyinka, ma il libro tradotto è un saggio e si intitola “Climate of Fear”, “Clima di paura”: il nemico non è più facilmente identificabile, tutti siamo potenziali obiettivi, e i blocchi di potere alimentano questa dinamica di paura costruendovi consenso su politiche fratricide palesi o mascherate che siano.

Il libro pubblicato da Einaudi (Collezione di poesia) ha per titolo “Promemoria”, ed è tale due volte: la prima volta perché si tratta di sessanta poesie [senza titolo, da 1. a 60. – come i minuti di un’ora] che hanno la forma di appunti “di cose da fare”; la seconda perché tutte insieme sono il breve scritto – un promemoria, per memoria, appunto – di quanto è essenziale non dimenticare: la vita va celebrata.

Ma dove e come è possibile festeggiare la vita se il clima attorno ad ognuno di noi, di ogni persona in gamba e per il bene voglio dire, è quasi sempre di paura e fa paura, mette paura? Se ognuno di noi sta dentro questo stato di costante allarme – per dirla alla Bauman di Paura liquida –, questa minaccia che si intravede ovunque e non si mostra o si mostra fin troppo atrocemente? Credevamo che, speravamo che. Niente da fare: il clima fa paura.

 

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Il libro che precede “Promemoria” è un romanzo e si intitola “Un bene al mondo”, e porta in copertina una mappa [l’illustrazione, La mappa del paese, è di Mara Cerri] dove si svolge la vicenda narrata, che somiglia a una favola, ma non è tale.

E il titolo del romanzo è tratto dalla Lettera di Giacomo Leopardi a Pietro Giordani del 30 aprile 1817, e a un certo punto il poeta dell’Infinito e del Sabato del villaggio scrive: È un bel dire: Plutarco, l’Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Le amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di odiarla perchè vi son dentro, chè finalmente questa povera città non è rea d’altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori. È la questione del posto, del villaggio, in cui si è gettati. E il primo posto, quello cruciale, in cui si è gettati è il posto dell’infanzia. E il posto di “Un bene al mondo” è quella mappa, dove si svolge e terminerà l’infanzia, somma fragilità e somma ricchezza, dei due protagonisti, il bambino con il suo cane|dolore e la bambina.

Ma in “Promemoria” l’io che poeta è nel pieno della sua maturità sin dalla pentastica di copertina, e nella stessa la bambina è diventata donna, e al quinto verso appare il cane: “Farsi consegnare da una donna la parola/ amore riparata. Non dimenticarla accesa/ non guardarla fissa non farla fulminare./ Ogni quattro anni un controllo generale./ Se si rompe ancora contattare un cane”.

Siamo per intero dentro un mondo autoriale. La lingua che si ripete rinnovata. L’enjambement che torna a stupirti. La donna che ispira e consegna riparata la parola centrale, la parola amore. L’ironia e sottotraccia i cani romantici, i poeti, di Bolanõ.

 

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Sottotraccia è lo stesso soggetto lirico se il modo verbale esclusivo del libro è il più indeterminato dei modi: l’infinito presente, o semplice che dir si voglia. Presente e semplice. La stessa azione nel suo darsi, di chi parla a se stesso e insieme ci suggerisce ciò che si deve fare, o il comportamento da tenere, ma non in base a norme prefissate, molto spesso ingannatrici.

Piuttosto: ingannare l’inganno, agevolarlo e poi sorriderne o deriderlo, come in 49.: “Esternalizzare lo scontento/ appaltarlo al primo stronzo./ C’è più convenienza e non si/ perde tempo a guardar dentro./ Delocalizzare anche il dolore:/ c’è la fila, si dice, appena fuori/ di merde colpevoli e untori”.

Lo scontento è già un poco prima [in 45.]: “Accettare la fitta nel costato/ per quel che bussa dal passato:/ il tempo morto delle majorette/ tirate fuori dai garage, messe/ in posa sulla piazza del mercato/ le divise stinte e il doppio mento./ Accettare in ceppi lo scontento:/ usarlo d’inverno per scaldare”.

E anche qui c’è un rovesciamento, e dunque non l’inverno del nostro scontento, che si farà calda e ingannevole estate, piuttosto del nostro scontento, anche esso ingannevole, farne ceppi per scaldarsi nel freddo inverno. Credevamo che, speravamo che. Niente da fare: il clima fa paura. Meglio farne ceppi, di quel clima e del nostro scontento, per scaldarsi d’inverno.

Forse non resta che stornare al mittente imbrogli e tradimenti, non perdere nemmeno tempo a guardare in essi per ritrovarseli poi, magari, in forma di rovello coscienziale. Niente di tutto ciò: esternalizzare, delocalizzare, ma rovesciati: c’è la fila, si dice, appena fuori / di merde colpevoli e untori.

 

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In “Promemoria” siamo per intero dentro le azioni che il soggetto compie o suggerisce a se stesso di compiere. Delle volte il suggerimento appare quasi di ordine prescrittivo: Tutto va rovesciato, tutto va reinventato. A partire dalle stesse parole che diciamo [come in 6.]: “Imparare a parlare dai bambini./ Inventare il plurale delle cose./ Un bau due tre quattro bai./ Dimenticare le coniugazioni/ far cadere in terra il tempo./ Non camminarci sopra scalzi”. E a questa maniera sconfiggere la paura, per Esistere davvero [55. verso 1.], ma perché questo accada in primo luogo bisogna Traslocare dentro un’altra / lingua [come in 60., a chiudere il libro]: “Traslocare dentro un’altra/ lingua. Portare soltanto/ piatti e bicchieri per mangiare./ Affacciarsi alla finestra/ trovarsi il mare sulla destra”. La quale lingua appare essere quella in cui all’analisi del vissuto di coscienza si sostituisce il fatto stesso di esistere, ma questo spostamento non può non portare in sé una malinconia che lima e divora [sempre dalla lettera a Giordani: L’aria di questa città l’è stato mal detto che sia salubre. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce], e rimane o torna a farsi scrittura, ma da quel confine dove volontà di esistere e volontà di sottrarsi a una esistenza spaurita si toccano nel visibile di adesso per diventare memoria e per memoria – promemoria: “Non partire senza lasciare una/ sporta di parole per chi resta./ Dire “questa è per la mattina/ quest’altra invece per la sera”./ Lasciare una sporta a parte/ per chi la notte nel buio si dispera”.