Paesaggio, viso, silenzio: intorno a un autoritratto di Käthe Kollwitz

È interessante e significativo che Agamben scriva del viso come “luogo”, vale a dire come spazio in cui lo sguardo si sofferma e la mente imprende a meditare; “bel viso” significa, evidentemente, viso sul quale non si danno a vedere “ parole non dette e […] intenzioni rimaste incompiute”, ma dove, come accade in certi luoghi, è il silenzio a manifestarsi il quale, cesura nel brusio costante del vivere, invita a fermarsi, a indugiare, a meditare, appunto.

Può un viso essere anche un paesaggio?

Forse sì, se si fa piazza pulita di ogni equivoco intorno al termine “paesaggio” – a condizione cioè che “paesaggio” non significhi pittoresco ritaglio per cartolina o foto-ricordo, né colonizzazione antropomorfa del mondo, né invenzione culturale per soddisfare empiti estetizzanti e/o spiritualistici.

Tutta la ricerca artistica, umana e politica di Käthe Kollwitz (Königsberg, 8 luglio 1867 – Moritzburg presso Dresda, 22 aprile 1945) si svolge proprio in funzione anti-estetizzante e secondo tracce di marca sia realista che espressionista; lungi, poi, da ogni narcisismo, Kollwitz realizza una serie di autoritratti che sono, invero, studi e meditazioni, pause di riflessione.

«I. Un bel viso è forse il solo luogo in cui vi sia veramente silenzio. Mentre il carattere segna il viso di parole non dette e di intenzioni rimaste incompiute, mentre la faccia dell’animale sembra sempre sul punto di proferire parole, la bellezza umana apre il viso al silenzio. Ma il silenzio – che qui avviene – non è semplicemente sospensione del discorso, ma silenzio della parola stessa, il diventar visibile della parola: idea del linguaggio. Per questo nel silenzio del viso è veramente a casa l’uomo.

II. Soltanto la parola ci mette in contatto con le cose mute. Mentre la natura e gli animali sono già presi in una lingua e, pur tacendo, incessantemente parlano e rispondono a segni, solo l’uomo riesce a interrompere, nella parola, la lingua infinita della natura e a porsi per un attimo di fronte alle mute cose. Solo per l’uomo esiste la rosa indelibata, l’idea della rosa» [Giorgio Agamben, Idea del linguaggio I, in Idea della prosa (Quodlibet, Macerata 2002, p. 103)].

È interessante e significativo che Agamben scriva del viso come “luogo”, vale a dire come spazio in cui lo sguardo si sofferma e la mente imprende a meditare; “bel viso” significa, evidentemente, viso sul quale non si danno a vedere “ parole non dette e […]  intenzioni rimaste incompiute”, ma dove, come accade in certi luoghi, è il silenzio a manifestarsi il quale, cesura nel brusio costante del vivere, invita a fermarsi, a indugiare, a meditare, appunto.

Il viso di Käthe Kollwitz si offre allora raccolto e concentrato come possono esserlo una valle montana o un’insenatura marina – o meglio e più correttamente: sono un’insenatura marina e una valle montana a ricordare un “bel viso” nel quale regni veramente il silenzio; la mano adagiata sulla fronte (luogo simbolico del pensiero) e il pollice che affonda tra i capelli è simultaneamente sostegno e schermo contro una luce forse troppo intensa (l’occhio sinistro ne risulta completamente in ombra) – si potrebbe ipotizzare che l’artista abbia disegnato il proprio autoritratto guardandosi allo specchio: l’incisione giunge successivamente a raffigurare quel viso con, a ben guardare, pochi e magistrali tratti che potrebbero richiamare alla mente i solchi nella terra o le fessurazioni della corteccia di un tronco d’lbero, oppure le tessiture sempre più fitte dell’ombra, sorella necessaria e irrinunciabile della luce.

E, sempre seguendo la suggestione agambeniana, il viso-paesaggio è “casa” dove il silenzio accoglie l’essere umano confermandolo nel suo esercizio del pensiero.

Il viso-paesaggio di  Käthe Kollwitz, che è “cosa muta”, continua a provocare questa mia scrittura che, infatti, si struttura e si snoda in parola, che coglie il silenzio del viso e interrompe “la lingua infinita della natura” – sarei tentato di affermare che il viso-paesaggio meditato da questa mia parola scritta si evidenzi nella sua non-naturalezza confermando la verità secondo cui il “paesaggio” è invenzione tutta ed escluivamente umana e culturale: la natura non conosce paesaggi, ma sempre e soltanto il poprio ininterrotto linguaggio. La “muta cosa” del viso con la mano sulla fronte è “rosa indelibata” e “idea della rosa” perché sottratta, almeno per un attimo, al suo stare dentro l’indifferenziazione della natura; il silenzio del viso di Käthe Kollwitz e anche l’atto di raffigurarlo significano ritrarsi (è soltanto un caso che questo verbo italiano abbia due significati?) dal fluire ininterrotto della natura, fare silenzio, consegnarsi viso-paesaggio la cui presenza dà valore alla parola e la porta a dialogare con il silenzio.  

E che Agamben scelga il vocabolo “viso” piuttosto che “volto” o “faccia” è anch’esso significativo e gravido di conseguenze: il visum di Käthe Kollwitz è, appunto, quello che viene visto, dunque conosciuto, luogo nel quale si sofferma l’indagine dello sguardo, silenzio della parola affinché la parola stessa rimanga densa di senso, consapevole di sé.

Il paesaggio (e i diversi paesaggi) affidato alla parola umana è stazione del pensiero, sua tappa d’approdo e di nuova partenza.

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