L’impossibile avventura

di in: Bazar

Mama Africa (Feltrinelli, 1993) di Maria Rosa Cutrufelli si presenta come il diario di un viaggio in Zaire ed Angola svoltosi tra il marzo 1975 e il novembre 1976 ma scritto a più di dieci anni di distanza dall’evento originario. La protagonista è una giornalista che si era recata in Africa al fine di raccogliere materiale per un saggio storico-politico sulla condizione della donna e sulle vicende dell’ Angola che stava combattendo per la propria indipendenza dal dominio portoghese. Come la protagonista/autrice dichiara nell’introduzione al libro, quel saggio non l’aveva mai scritto ma aveva pazientemente conservato la documentazione raccolta durante il suo soggiorno africano. Alla motivazione professionale che aveva dato origine al viaggio se ne era affiancata una più personale, cioè la possibilità di sperimentare gli ideali della sua generazione: “Per la mia generazione gli anni settanta furono gli anni della grande passione politica, dell’ impegno, della volontà di conoscenza. Così per me l’Africa non era, non poteva essere terra di safari o di facili escursioni esotiche. (…) Ma per me l’Africa era innanzitutto il continente che tentava di riscattarsi dal lavoro forzato e dal colonialismo, che soffriva e combatteva”. (p. 9)

Questo diario si ripropone quindi di ricostruire non solo le vicende personali della protagonista ma anche “le battaglie che segnarono la fine della colonia portoghese d’Angola e i problemi che da subito afflissero il nuovo stato” (p. 8). Il termine ricostruzione rappresenta la parola chiave di tutto il testo e il presente saggio intende seguire la protagonista/autrice lungo questo arduo cammino focalizzandosi sui tre temi fondamentali dell’opera: la memoria, intesa sia come passato individuale che come recupero di valori ed ideologie; la rievocazione di fatti storici attraverso documenti; la formazione di un senso di identità nazionale ed individuale. Ma seguiamo questi punti per ordine.

Memoria

È essenziale incominciare con la memoria in quanto è la natura stessa del testo che ci troviamo di fronte a far emergere questo problema. Il diario è solitamente una forma letteraria immediata in quanto implica la registrazione di eventi nel presente, secondo la linea cronologica del loro susseguirsi, affinché i posteri possano avere un’immagine precisa del loro svolgimento. Questo testo, invece, è stato scritto a posteriori. Sebbene la protagonista/autrice dichiari di aver prediletto il diario rispetto al saggio per poter “ridare vita e calore ai ricordi” sottolinea anche la difficoltà di una tale impresa: “Son dovuti passare dieci anni prima che io provassi a narrare – ma quanto è difficile e dolorosa nella sua apparente semplicità la narrazione quando vuole riannodare il filo della memoria”. (p. 8)

A causa del lungo lasso di tempo trascorso e del fatto che per più di un decennio qualsiasi tentativo di rielaborazione di quel periodo della sua vita non aveva dato alcun frutto, i ricordi non possono che essere inaffidabili. La protagonista, fortunatamente, si era creata dei puntelli, “dei concreti punti di riferimento. Dei perni attorno a cui ricostruire il ritmo di un paese, di una storia, di un lungo, sofferto viaggio”. (p. 8) Il sostegno di cui parla non sono altro che gli appunti presi durante il viaggio, le interviste con gente del luogo, i ritagli di giornale miracolosamente sopravvissuti ai frequenti traslochi di una giornalista. Eppure anche questi cardini risultano spesso poco solidi perché è estremamente complesso cercare di decifrare la propria calligrafia a distanza di anni. (p. 21). La protagonista, inoltre, sembra consapevole di quanto sia difficile narrare un’esperienza traumatica perché se da un lato questo tipo di esperienza cerca sempre di riaffiorare per entrare a far parte di una cronaca di sviluppo del presente, dall’altro il suo emergere rende inadeguato qualsiasi tentativo di narrazione. A differenza di incubi, allucinazioni o flashback, attraverso cui il passato prende veramente il sopravvento, la memoria narrativa può essere dimenticata, come sostiene M.S. Roth (The Ironist’s Cage).

Per quanto riguarda, invece, l’altro aspetto di questo viaggio nella memoria, cioè il tentativo di recupero di un patrimonio ideologico/politico, la scelta di Muanda quale prima meta del viaggio risulta particolarmente significativa. Sebbene situata in Zaire questa città si trova su una lingua di terra che separa l’Angola del Nord dalla Cabinda, esclave angolano di notevole importanza economica per la ricchezza dei suoi giacimenti petroliferi. Si tratta di una zona estremamente calda: “Due frontiere a pochi chilometri di distanza, attraversate e riattraversate da floridi commerci clandestini – il caffè delle piantagioni del nord, il legno delle foreste di Cabinda…. Attraversate e riattraversate dalle guerre dei movimenti di liberazione”. (p. 21)

A Muanda, infatti, è possibile seguire l’attività di tutti i principali movimenti rivoluzionari a partire dal MPLA (Movimento Popolare di Liberazione) di orientamento marxista ed appoggiato da Tanzania ed Unione Sovietica, al FNLA (Fronte Nazionale) capitalista e appoggiato dallo Zaire e dagli Stati Uniti, ed infine l’UNITA che secondo il giornale Jeune Afrique è “ambiguo, legato al Sud Africa e compromesso con gli stessi portoghesi” (p. 22). Ma se in Zaire è facile mettere a confronto le grandi ideologie del ventesimo secolo, è anche facile vederne la loro precarietà e labilità proprio nella figura del suo dittatore Mobutu, il cui ritratto, indicativamente, pende sbilenco sopra le casse di birra di un magazzino di Muanda (p. 27). Il caso Mobutu illustra come qualsiasi ideologia possa essere strumentalizzata a fini personali. Nonostante i legami con la CIA, per consolidare il proprio potere Mobutu ha soppresso tutti i partiti di opposizione. Dopo un viaggio in Cina ha cercato di importare in Africa le tecniche di mobilitazione di massa e si è dato una base politica fondando il movimento popolare rivoluzionario MPR, chiamato anche ‘salongo’, termine che indica il lavoro manuale volontario, nuova forma di schiavismo simile a quella in vigore durante il periodo coloniale.

Eppure, quando la protagonista, a circa un anno dal suo primo soggiorno in Africa, si reca a Brazzaville e scopre che la città è in lutto per la morte di Mao-tze-tung, “il grande vecchio amico della rivoluzione congolese” (p. 140), è pronta a commuoversi a tal punto da dichiarare: “Per Mao erano allora quelle bandiere a mezz’asta e i negozi chiusi e le strade deserte. Per Mao-tze-tung. Un lutto che mi fa improvvisamente vedere l’altra faccia di Brazzaville. Il mondo intero è qui, condensato in questa sonnolenta repubblica immersa nel cuore delle foreste equatoriali”. (p. 140).

Come riconosce la stessa autrice, si trattava di una commozione legata al non voler accettare la possibile fine di quelle battaglie ed utopie che avevano caratterizzato la sua epoca. (p. 141) Il disincanto, tuttavia, non tarda a prendere il sopravvento e, come direbbe Claudio Magris, l’elmo di Mambrino diventa bacinella. Poche pagine più avanti, infatti, quel mondo appare per quello che è, cioè decrepito e pieno di desolazione e contraddizioni: “Lascio Brazzaville con la sensazione di non aver mai visto una povertà più desolata di questa, sedimentata nella polvere dei mercati, nella squadrata rarefazione degli edifici, nell’espressione apatica della gente, nello struggimento continuo della musica. (…) Le scritte rivoluzionarie balzano agli occhi con la violenza di fuochi d’artificio in un deserto”. (p. 143)

Il contatto con la realtà africana sembra tradurre in quotidianità tutti i grandi miti occidentali svuotandoli in tal modo di significato. Di fronte a tanta miseria parole come socialismo e rivoluzione diventano improvvisamente oscure ed oscuro il linguaggio che le esprime. Nonostante le buone intenzioni di restare sempre fedele ai suoi appunti di viaggio, la protagonista di Mama Africa è costretta ad ammettere: “Ci sono molte donne nei miei ricordi. (…) Le ritrovo nella mia mente ancora prima che negli appunti, sui taccuini dove ne volevo registrare indelebilmente la memoria”. (p. 103)

Nel momento in cui si cerca di affidare alla carta la registrazione di fatti o la descrizione di luoghi e persone il tutto perde immediatezza ed efficacia. L’ossessione esplicativa legata alla scrittura e al discorso storico non è altro che un tentativo di tenere a bada il primitivo terrore che dietro ogni senso ci sia sempre un non senso (Roth, The Ironist’s Cage). Nonostante le sue imperfezioni, l’unica forma di memoria possibile è quella delle emozioni e dei sentimenti in quanto difficili da razionalizzare e incorporare in un discorso logico. Ma passiamo al secondo tema di quest’analisi: la storia.

Storia

Come precedentemente accennato, lo scopo originario di questo viaggio era stato quello di raccogliere materiale per produrre un saggio storico politico sulla liberazione dell’Angola e questo sembra anche essere l’intento del presente diario. Il lettore si trova quindi a seguire un doppio processo di ricostruzione: quello della giornalista decisa a prendere appunti ovunque si trovi, per creare quei documenti necessari alla trasmissione della conoscenza (aspetto fondamentale della sua professione), e quello dell’autrice del diario che dopo dieci anni decide di ripercorrere le tappe di una parte della sua vita e di quelle della storia angolana. Entrambi i processi si presentano estremamente ardui e ricchi di contraddizioni.

Il raccogliere dati e testimonianze implica un contatto diretto con la realtà che ci si ripropone di ritrarre. Eppure, la protagonista al suo arrivo a Muanda sostiene di sentire la distanza che per ‘costumi ed abitudini di vita’ la separava dalla gente del luogo come “(…) uno scafandro che mi proteggeva dagli acidi corrosivi della vita senza nascondermela, che mi permetteva di comunicare con l’ esterno rimanendo incontaminata”. (p. 27)

L’immagine dello spettatore ricorre più volte nel testo per giustificare questo modo di porsi di fronte alla realtà. Se inizialmente quest’atteggiamento distaccato era sembrato una libera scelta, la giornalista è presto costretta a rendersi conto che quello era l’unico atteggiamento concessole in quanto straniera. Anche nel momento in cui decide di partecipare attivamente a ciò che la circonda finisce per sentirsi paralizzata e persino il suo continuo scrivere a macchina le sembra un gesto inutile: “L’atmosfera di cupa eccitazione che si respira a Muanda mi rende insofferente, smaniosa. Ho la spiacevole sensazione d’essere costretta a un’immobilità forzata, a una passiva attesa degli avvenimenti. Non sopporto più di starmene seduta alla macchina da scrivere. Ma che posso fare?”. (p. 58)

Il contatto col mondo africano mette in crisi tutte le sue certezze di donna occidentale e la porta a ridiscutere ogni suo gesto che improvvisamente le appare insensato e fuori luogo, come quando si trova a dover gestire i propri rapporti con la servitù (p. 64). La guerra, in quanto situazione transitoria e d’emergenza, sarà l’unico appiglio che le resterà per illudersi di poter incidere su una realtà che non le appartiene, sia durante il primo che il secondo viaggio (pp. 57 e 166). Sebbene il conflitto appiani le differenze e renda tutto più comprensibile, dando a certi termini quali destra e sinistra il valore di verità assolute e facilmente riconoscibili, la protagonista è sempre afflitta dall'”impossibilità di far seguire al giudizio una coerenza d’ azione” (p. 57).

Sebbene la giornalista non abbandoni mai la sua abitudine di riempire taccuini e taccuini di informazioni ed appunti vari perché fedele a quello che ritiene essere il suo dovere professionale di “informare, denunciare, testimoniare, raccontare” (p. 86), la prima parte del viaggio e, di conseguenza, del diario, si interrompe ad un mese da quell’11 Novembre 1975, data ufficialmente stabilita per la liberazione dell’Angola. La protagonista aveva improvvisamente deciso di ritornare in Italia per poter godere di una maggiore libertà d’espressione ed aiutare la causa angolana. In tal modo, però, quello che avrebbe dovuto costituire l’evento più significativo per una studiosa di storia e sociologia (il giorno dell’indipendenza) non viene registrato.

La seconda parte del diario riprende nel luglio 1976 col suo ritorno a Luanda, capitale dell’Angola Libera. L’entusiasmo che anima la protagonista sembra ancora maggiore di quello della volta precedente: “Ma sono venuta disposta ad accettare tutto: questo paese bellissimo e desolato esercita su di me molteplici fascini. E il fascino più grande di tutti è l’avventura della ricostruzione (…) mi appassiono solo al presente”. (p. 100)

Ancora una volta si tratta di una dichiarazione piuttosto contraddittoria in quanto il ricostruire non può prescindere dal passato. Inoltre, la giornalista continua a temere un vero contatto col mondo africano. Quando le viene data l’opportunità di ballare insieme a quelle donne dell’OMA che tanto aveva voluto conoscere e con cui voleva lavorare sente una profonda reticenza nell’unirsi a loro, per paura di perdersi e di non potersi più ritrovare (p. 118). Il senso d’insicurezza cresce sempre più tanto che basta il minimo fuori programma a metterla in crisi. Alla proposta di una deviazione verso Brazzaville per salutare alcuni compagni la protagonista reagisce negativamente: “Ero lì per un entusiasmo e una volontà politica: non potevo avere tempo né occhi né sensibilità per altro”. (p. 138)

La scrittura col passare del tempo diventa solo una forma di fuga dalle minacce della realtà circostante: “Non partecipo, osservo e scrivo. Questo è il mio ruolo e io mi ci attengo scrupolosamente”. (p. 132)

Per poter rassicurare se stessa la protagonista ha anche bisogno di rileggere frequentemente i suoi appunti e di riguardare i ritagli di giornale che continua ad accumulare giorno per giorno. Significativamente i luoghi da lei prediletti in questa seconda parte del viaggio sono dei non-luoghi, gli alberghi o la sala stampa, spazi estremamente artificiali in cui il contatto col mondo esterno è pressoché nullo. Ogni tentativo di arginare il senso di vuoto che le nasce dentro (p. 118), tuttavia, è destinato a fallire. La solitudine di certi paesaggi (p. 144) non fa che accrescere la sua inquietudine ed il continuo dilatarsi del tempo in Africa, le continue inspiegate attese (p. 172), la spingeranno, ancora una volta, ad interrompere il viaggio prima di aver raggiunto la meta: visitare il sud del paese ed intervistare Eugenia Neto, moglie del presidente. Sebbene i suoi taccuini siano pieni di dati ed annotazioni la protagonista non riesce a dar loro una forma compiuta e trasmissibile ed arriva a percepire “(…) quest’abitudine a fissare in parole scritte la realtà come una stranezza, una mania tutta occidentale. E inadeguata in un paese in cui la memoria del mondo e il ricordo delle persone è affidato più alla magia delle canzoni che alla testimonianza della pagina scritta”. (p. 161)

L’Africa mette a nudo “la distanza incolmabile tra la parola orale e quella scritta”, come dice Gianni Celati, distruggendo l’illusione tipicamente europea della scrittura quale alleato della verità. Il diario, quindi, non può che chiudersi con un’immagine del monotono chiarore che emana dalle vaste distese di sabbia viste dall’alto in “un’ alba priva di colori” (p. 173) ed un ammonimento a non lasciarsi ingannare dall’illusoria speranza, per altro subito spenta, delle fiamme che d’improvviso si alzano dai pozzi di petrolio. In Africa, come la protagonista aveva precedentemente affermato, “è l’esistenza pura e semplice, immediata, delle cose a conferire significato alle cose stesse: non importa nominarle, anzi non si deve, poiché già questo significa entrare in un mondo in cui è possibile interpretare e discutere”. (p. 76)

Nel diario, tuttavia, la ricostruzione degli eventi che hanno portato alla liberazione dell’Angola è affidata non solo agli appunti di viaggio ma anche a vari ritagli di articoli di giornali nazionali ed internazionali che dovrebbero rappresentare veri e propri documenti, quei perni attorno a cui far gravitare tutta la narrazione di cui l’autrice aveva parlato nell’introduzione all’opera (p. 8). Oltre a trattarsi di un processo doppiamente artificiale, in quanto ricostruzione di una ricostruzione, l’autrice non fa altro che mettere in discussione la validità stessa della nozione di documento e, come precedentemente visto, della trasmissione dell’informazione. Ad ogni frammento segue una smentita, spesso per mezzo di un altro testo che contraddice quanto precedentemente affermato, o per bocca della stessa protagonista: “Questo è quanto scrivono i giornali in Zaire ma la realtà è completamente diversa”. (p. 85)

Gli articoli da lei riportati vengono sempre definiti come parziali, superficiali (p. 94) e sostanzialmente inaffidabili. Ironicamente, nel momento in cui si decide a parlare, per correggere la limitata versione ufficiale dei fatti, fa appello al suo ruolo di giornalista, minando sul nascere la credibilità di questa sua operazione. Il tutto è poi aggravato dal fatto che per scrivere decide di dover lasciare il paese, creando così un’ulteriore barriera tra sé e quella realtà a cui si era ripromessa di restare fedele.

Identità

L’altro grande tema presente in questo anomalo diario è quello della ricostruzione dell’identità. In una nazione che deve riscattarsi da secoli di dominio coloniale questo processo assume toni particolarmente drammatici: “Zaire. Qui tutto si chiama zaire: il paese, il fiume, la moneta, tre o quattro giornali… Come se a forza di ripetere questa parola se ne volesse affermare la verità ed estrarne l’essenza. Come a voler ribadire, convincere, stordire”. (p. 47)

L’ostacolo principale è dato dall’impossibilità sia di un recupero totale del passato che di una sua completa cancellazione. Il ‘virus straniero’ (p. 45) ha ormai contaminato irreparabilmente la cultura tradizionale. Quando il regime di Mobutu impone la cosiddetta ‘filosofia dell’ autenticità’ quale processo di ‘decolonizzazione mentale’ e strumento per una ‘ricostruzione della personalità nera’, questi richiami non possono che suonare vuoti e privi di significato. Dal linguaggio (p. 112) ai riti tribali tutto è stato intaccato e, come fa notare la protagonista dopo aver assistito ad una cerimonia funebre in onore di un capo della terra dove suonatori e danzatrici indossavano consunti abiti occidentali: “(…) ciò che si vede è la miseria degli scarti dell’occidente, non la fantasia policroma dell’Africa. La cerimonia, un tempo solenne, è diventata patetica e misera. Senza scampo”. (p. 69)

Ciò che emerge è l’effetto del colonialismo, cioè dell’estensione della macchina statale al di fuori del territorio metropolitano che, mentre riduce ogni spazio a territorio nazionale, “toglie ai soggetti ogni possibilità di avere un territorio naturale, originario facendone degli stranieri a casa propria” (Gianni Celati,Situazioni esotiche sul territorio). Dietro all’episodio descritto dalla protagonista di Mama Africa non si nasconde altro che la volontà di strumentalizzare il problema del passaggio ad una società moderna ed indipendente per legittimare ingiustizie e corruzione. Paura ed imposizione sono ancora le basi della ricostruzione. È interessante notare, inoltre, come sia in Zaire che in Angola, i partiti al potere usino categorie di interpretazione della realtà tipicamente occidentali (p. 63), quali la moralizzazione dei costumi (abolizione di poligamia e prostituzione) per imporre la loro nuova visione del mondo e creare “l’Uomo Nuovo” (p. 129). Le dirigenti dell’OMA, quando si rifiutano di tradurre la parte di intervento della giornalista sull’aborto (p. 134), applicano quella stessa manipolazione dell’informazione di cui accusavano i colonizzatori. Sebbene il pubblico sia interessato all’argomento, esse si schierano dalla parte del governo anti-abortista perché ritengono che il paese abbia bisogno di ripopolarsi. L’Africa appare quindi ancora una volta come un grande specchio degli errori dell’occidente.

 

 

Se arduo è il cammino della ricostruzione di un’identità nazionale, altrettanto difficile è quello dell’identità individuale, soprattutto in un paese come l’Angola dove etnie diverse si trovano a convivere nello stesso territorio e dove, per una diversa mentalità del colonizzatore portoghese che si è mostrato incline a “mescolare il proprio sangue con quello dei nativi” (p. 98), sia bianchi che neri finiscono per essere degli sradicati nella loro stessa terra. I casi di Ana Ester ed Henrique ne sono la prova. La prima è “una moderna cameriera ad ore” (p. 98) di colore che porta i capelli lisci ed indossa magliette e gonne all’occidentale. Nonostante questa sua apparente emancipazione però è costretta a vivere neimusseques, le malsane bidonville che proliferano ai margini delle città dove miseria e lotta per la sopravvivenza sono quelli di sempre. Henrique, invece, è un angolano di origine portoghese che continua a vivere “a mezzo fra l’Europa e l’Africa” (p. 172) senza veramente appartenere né a un continente né all’ altro.

Dopo aver osservato la tematica della ricostruzione da più punti di vista non si può far altro che paragonarla alla ‘tela di Penelope’. Quest’immagine cara alla protagonista dell’opera riassume l’essenza dell’epoca contemporanea nella sua impossibilità di offrire certezze e valori universali. La storia del mondo e quella di ogni singolo uomo per Maria Rosa Cutrufelli possono essere definite soltanto in termini di paura ed euforia (p. 99), elementi irrazionali che si sottraggono ad ogni tentativo di “grand narrative”. È per questo, quindi, che sia i due viaggi che il diario si sono dovuti interrompere prima di aver raggiunto il loro scopo, sottolineando l’inscindibile simbiosi di utopia e disincanto, elementi fondamentali per non cadere in quegli atteggiamenti apocalittici spesso associati all’età postmoderna. Come sostiene Marco Paolini, la peggior catastrofe è accettare il lento peggioramento delle cose: cambiare radicalmente il mondo può essere estremamente difficile ma rallentarne il deterioramento è ancora possibile, ed è proprio questo che autori come lo stesso Paolini e la Cutrufelli cercano di fare col proprio lavoro: “la storia del nostro paese – e quella di molti altri, noi potremmo aggiungere – è maestra di occasioni mancate, di ricostruzioni incomplete, di sprechi, ma ci sono eccezioni. Essere pessimisti è necessario, essere cinici un lusso superfluo”. (Marco Paolini, Il racconto di stagione).